Conversazioni notturne a Gerusalemme
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Conversazioni notturne a Gerusalemme

Sul rischio della fede

  1. 140 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Conversazioni notturne a Gerusalemme

Sul rischio della fede

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Informazioni sul libro

Nell'autunno del 2007 Carlo Maria Martini ha incontrato a Gerusalemme Georg Sporschill, gesuita austriaco che vive insieme ai bambini di strada in Romania e in Moldavia. Il loro dialogo ha dato vita a questo libro straordinario in cui due uomini di fede cercano di rispondere concretamente alla crisi etica della società contemporanea ponendosi domande chiare e dirette, espressione di un bisogno di capire, di una sofferta ricerca di senso, di un desiderio di conoscere e incontrare Dio nella propria vita. I temi toccati sono vivi e brucianti: perché credere in Dio? Da dove viene il male? Cosa vuole Dio da noi? E, ancora, domande sulla sessualità, sull'amicizia, sul rapporto fra la Chiesa e il mondo moderno. Con uno stile pacato e coinvolgente, Carlo Maria Martini invita ad alzare lo sguardo con fiducia e stimola alla scoperta del grande tesoro della Parola di Dio; incoraggia a sentirsi protagonisti della Chiesa per contribuire a farle prendere il largo nel mare agitato del mondo, ma soprattutto impegna a non tirarsi mai indietro nella sfida per la giustizia e per la pace.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852033063

I

Quel che sostiene una vita

Caro padre Georg! È già tardi, eppure solo adesso tutti i bambini di strada sono addormentati. Sul Centro sociale Lazzaro è scesa la quiete. Noi, quasi tutti volontari provenienti dall’Austria e dalla Germania, ci siamo seduti a un tavolo per raccogliere domande da rivolgere al cardinale Martini. La maggioranza verrebbe volentieri con te a Gerusalemme per conoscerlo di persona. Deve essere un grand’uomo. Dotato di molto coraggio e così aperto ai nostri interrogativi. Per favore, non chiedergli solo della religione, ma anche della sua vita. Siamo molto curiosi. Scusami se ti lascio le domande davanti alla porta, è mezzanotte passata.
tuo Wenzel

Come cardinale e teologo, cosa dice a chi non crede in Dio?
Avrei molte domande da porgli. A cosa attribuisce importanza? Quali sono i suoi ideali? Quali valori ha? È questo che vorrei scoprire. Non intendo convincerlo di nulla, ma solo dirgli che deve provare a vivere senza fede in Dio e, nello stesso tempo, riflettere su se stesso. Forse in alcuni periodi della vita avvertirà una speranza, si accorgerà di cosa dà senso e gioia alla vita. Gli auguro di dialogare con persone in cerca della fede e con credenti. Forse Dio gli donerà la grazia di riconoscere che esiste.
Perché crede in Dio? E come lo sente?
I miei genitori mi hanno donato la fede in Dio, mia madre mi ha insegnato a pregare. A scuola per me sono stati importanti gli amici, mi hanno rafforzato nella fede. L’Italia, la mia patria, fa parte dell’Europa cristiana: basta aprire gli occhi per vedervi molte testimonianze della fede. Essendo gesuita, gli esercizi spirituali di sant’Ignazio mi hanno reso interiormente forte nel rapporto con Dio. Giovanni, il discepolo prediletto, è il mio accompagnatore nell’amicizia con Gesù. Nella mia vita molti compiti, anche le difficoltà, mi hanno mostrato che posso avere fiducia. La guerra, il terrorismo, le paure personali: quante volte sono stato salvato! Ho incontrato molte brave persone. La vita mi ha dimostrato che Dio è buono e prepara la strada per ciascuno di noi.
È sempre stato mio dovere parlare della fede ed è stato il miglior modo per imparare. Spesso è sufficiente sapere ascoltare bene. Nella diocesi di Milano i giovani mi hanno molto aiutato a cercare risposte a nuove domande. Si impara a credere soprattutto avvicinando altre persone alla fede.
Sentire Dio è la cosa più semplice e al tempo stesso la più importante della vita. Posso sentirlo nella natura, nelle stelle, nell’amore, nella musica e nella letteratura, nella parola della Bibbia e in molti altri modi ancora. È un’arte dell’attenzione che occorre apprendere come l’arte di amare o di essere capaci nel lavoro.
Vi sono anche momenti in cui se la prende con Dio?
Le mie difficoltà non hanno riguardato la sfera del quotidiano, quanto piuttosto un grande interrogativo: non riuscivo a capire perché Dio lascia soffrire suo Figlio sulla croce. Perfino da vescovo, a volte, non riuscivo ad alzare lo sguardo verso il crocifisso perché questa domanda mi tormentava. Me la prendevo con Dio.
La morte continua a esistere, tutti gli esseri umani devono morire. Perché Dio lo vuole? Con la morte di suo Figlio avrebbe potuto risparmiare la morte agli altri uomini.
Soltanto in seguito un concetto teologico mi è stato di aiuto nel mio travaglio: senza la morte non saremmo in grado di dedicarci completamente a Dio. Terremmo aperte delle uscite di sicurezza, non sarebbe vera dedizione. Nella morte, invece, siamo costretti a riporre la nostra speranza in Dio e a credere in lui. Nella morte spero di riuscire a dire questo SÌ a Dio.
Un teologo e vescovo non ha forse anch’egli problemi che pesano sulla sua fede?
I pesi sono paure, carenza di fiducia in Dio. Quando mi ha affidato un compito e ho pensato di non essere all’altezza, per esempio diventare vescovo o professore in una grande università, parlare con i terroristi, tenere unita la Chiesa europea o rispondere a domande del papa, in questi casi, a dire il vero, a volte mi è mancato il coraggio. Anche i conflitti hanno talvolta creato difficoltà; non me la sono presa con Dio, ma gli ho chiesto: sono in grado di farlo? Perché devo farlo? Sono io quello giusto?
Mi sono sentito amareggiato soprattutto nel vivere separazioni e addii, quando alcune persone mi hanno lasciato o quando io ho dovuto lasciarle. O quando mi sono sentito impotente. A volte Dio assegna compiti importanti, ti affida molte persone e tu hai poche possibilità di trovare una soluzione. Tutto ciò lascia delle ferite. Ho interrogato Dio come fanno anche i Salmi: perché deve essere così? Poi mi è stato concesso di sentire ancora che dal dubbio nasce qualcosa di nuovo e di più profondo. In un primo momento, quando quel qualcosa di nuovo non era ancora visibile, è stato difficile. Naturalmente occorre molta fiducia in Dio, ma spesso si parte proprio da dubbi, da domande.
Non ho avuto molti motivi per prendermela con Dio, perché per tutta la vita mi ha guidato e anche viziato. Mi ha dato un bel cammino e ha messo al mio fianco molte persone, che mi hanno istruito e sostenuto e hanno avuto bisogno di me. Così mi sono sentito sempre più amato e accettato da Dio.
Quale domanda rivolgerebbe a Gesù, se ne avesse la possibilità?
Gli domanderei se mi ama, nonostante io sia così debole e abbia commesso tanti errori; io so che mi ama, eppure mi piacerebbe sentirlo ancora una volta da lui.
Inoltre, gli chiederei se in punto di morte mi verrà a prendere, se mi accoglierà. In quei momenti difficili, nel distacco o in punto di morte, lo pregherei di inviarmi angeli, santi o amici che mi tengano la mano e mi aiutino a superare la mia paura.
Un tempo, da vescovo e responsabile della Chiesa, gli avrei domandato: perché permetti che esista un divario tra molti giovani, soprattutto quelli cui non manca nulla, e la Chiesa, con tutti i tesori celesti che può portare agli uomini? Perché le due parti non possono essere più vicine? Gli chiederei: perché permetti che molti giovani diventino indifferenti, al punto di perdere, a volte, persino la gioia di vivere?
Come vescovo ho spesso chiesto a Dio: perché non ci dai idee migliori, perché non ci rendi più forti nell’amore, più coraggiosi nell’affrontare i problemi di oggi? Oppure: perché abbiamo così pochi sacerdoti, perché ci sono così pochi religiosi, anche se sono tanto ricercati e ne abbiamo tanto bisogno?
Un tempo le mie domande erano queste. Oggi preferisco chiedere e pregare che mi accolga e che non mi lasci solo quando sarò in difficoltà.
Noi cristiani crediamo che tutto sia creato per amore: ma allora da dove viene il male? Perché c’è tanta sofferenza?
Se osservo il male nel mondo, esso mi toglie il respiro. Capisco chi ne deduce che non esista alcun Dio. Soltanto quando contempliamo il mondo per quello che è con gli occhi della fede può cambiare qualcosa. La fede suscita l’amore, porta a battersi per gli altri. Dalla dedizione, malgrado la sofferenza, nasce la speranza.
A volte, a posteriori, sentiamo che il male risveglia nell’uomo energie positive. Considero parte del male le circostanze che portano all’esistenza di bambini di strada, senzatetto e richiedenti asilo, che sembrano non avere posto nel mondo. Sono «peccati del mondo» anche le catastrofi naturali, che falciano migliaia di persone. Ho constatato più volte, tuttavia, che proprio questo male risveglia molte forze positive. I giovani si svegliano e affermano: voglio aiutare! In questo caso il male tira fuori il meglio dalle persone. Non è una spiegazione soddisfacente, ma intuiamo che dalla sofferenza possiamo imparare molto.
Nessun essere umano può rispondere all’interrogativo sull’origine del male, se non per approssimazione: Dio ha donato all’uomo la libertà. Non vuole dei robot, degli schiavi, ma dei collaboratori. Collaboratori che rispondono alle proposte con un «sì» o con un «no», che amano oppure non amano, senza costrizione.
Con la libertà, tuttavia, nascono pure le difficoltà. Puoi dire di «no» anche all’amore di Dio, anche al bene. Quando Dio dice: «Ho bisogno di te, ti chiamo», gli uomini possono rispondere: «Non voglio, preferisco qualcosa di diverso, il denaro, un rapido appagamento». Così alcuni rendono infelici altri e, alla fine, anche se stessi. E questo lo definiamo il male che viene dalla libertà. Non sempre gli uomini usano la loro libertà per il bene. Possono distruggere altre persone, l’ambiente o se stessi.
Se ci trovassimo di fronte a questa scelta: vogliamo persone che non possono fare nulla di male e non sono libere (robot o schiavi), oppure vogliamo uomini liberi, che amano, che possono dire «sì» o «no», la mia risposta sarebbe: ringrazio Dio per la libertà, con tutto il rischio che comporta. L’amore viene dal mistero che Dio ci prenda sul serio come partner. La nostra risposta all’amore di Dio richiede un duro lavoro.
Come mai alcuni hanno una bella vita e altri no?
Chi ha una bella vita? Conosco persone in paesi poveri che sono poverissime ma assai più felici di molti nella ricca Europa. Esistono ricchi poveri e poveri ricchi.
In ogni caso, la ricchezza è pericolosa: dobbiamo fare attenzione a usarla per la nostra felicità e per una maggiore giustizia, affinché non diventi un peso. Gesù ha espresso questa concreta preoccupazione con le parole: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli».
Ciò nonostante, non dobbiamo dimenticare che alcuni hanno una vita dura, sono costretti a patire la fame e non sono risparmiati da gravi malattie.
Se non possiamo rispondere alla domanda sul perché, resta pur sempre da chiedere: come possiamo vivere con la sofferenza e l’infelicità?
Un primo pensiero. L’infelicità è come una spina e una continua sfida. In che modo reagiscono le persone sane a una disgrazia? Quando ne sentono parlare, pensano: devo fare qualcosa. A me è capitato quando l’Italia soffriva a causa del terrorismo. Sapevo di dover andare a visitare i responsabili in prigione. Erano davvero infelici. Ho incontrato persone aggressive, in lotta e disperate, con la prospettiva di rimanere in carcere tutta la vita.
Se mi imbatto in una disgrazia e trovo il coraggio di occuparmene, si crea una dinamica per la quale gli infelici diventano più felici e i felici più grati. Sentono quanto sono in grado di fare. Non dicono che non esiste rimedio.
Un secondo pensiero. Molte miserie sono prodotte dagli uomini. Questo ci costringe a pensare in modo politico e a lottare per la giustizia, per dare spazio a bambini, anziani, malati, combattere contro la fame e contro l’Aids. Noi uomini potremmo fare molte buone cose utilizzando i mezzi e le risorse con cui al giorno d’oggi si producono le armi e vengono condotte le guerre. Esistono cioè altri e migliori fini per impiegare le medesime risorse.
Una terza riflessione. Dovremmo chiederci: come contribuisco io all’infelicità e come ne sono responsabile? Della distruzione dell’ambiente, del surriscaldamento della Terra, della disoccupazione, della radicalizzazione nella religione e tra oppressi? Non dobbiamo limitarci a domandare: perché, buon Dio, esiste tutto questo? Dovremmo chiedere anche: qual è la mia parte, e come posso io cambiare la situazione? E ancora: a quale limitazione e a quale rinuncia sono disposto affinché cambi qualcosa?
Se in linea di principio non so rispondere alla domanda sulla sofferenza, posso pur sempre interrogare la mia vita: dove posso intervenire per migliorare la situazione? Se mi comporto in questo modo, molta dell’infelicità cambierà. Lo vedo soprattutto nei giovani. In tanti stanno seduti davanti al televisore o al computer e vengono sommersi da immagini spaventose. Così si rifugiano in altri mondi. Alcuni, tuttavia, si alzano e vanno dalle persone che devono sopportare un dolore, le aiutano e con l’esperienza capiscono di potere essere salvatori. Scoprono opportunità di cui possiamo renderci conto solo come persone attive, non da consumatori passivi.
Una giovane donna, che impartisce lezioni di lingua a stranieri che hanno chiesto asilo politico e li aiuta a cavarsela in un paese del benessere, mi ha confidato: «La miseria presentata tutti i giorni in televisione sembra terribile. Ora che vi sono immersa, all’improvviso provo una gioia che a casa non conoscevo. A un tratto sento quanto sono forte, prima non ne ero consapevole. Scopro che alcuni degli stranieri sono amici più spiritosi, più fantasiosi, più religiosi e migliori di molti dei miei conoscenti “per bene”».
Ho visto amici e colleghi di giovani tossicodipendenti svegliarsi e capire quali possono essere le conseguenze di una presunta piccola sciocchezza. Qualcuno aveva messo a rischio la propria vita o l’aveva quasi distrutta, affinché aprissero gli occhi e non facessero nulla di simile. Sono molti aspetti di un lavoro che solo il buon Dio conosce nel suo insieme.
L’infelicità ha diversi livelli. La mia fiducia è diventata più grande e più forte della pena. Spero che la mia fede in Dio sia abbastanza salda da vincere anche l’infelicità della malattia e la solitudine nella morte. Nella mia vita mi sono imbattuto in molte cose terribili, la guerra, il terrorismo, le difficoltà della Chiesa, la mia malattia e la debolezza. Ma tutto questo si inserisce nel contesto di molte altre esperienze della vita di un ottuagenario. La mia infelicità è poca cosa in confronto alla felicità. La felicità va condivisa. E soprattutto: la felicità non è qualcosa che arriva o che dobbiamo solo aspettare. Dobbiamo cercarla.
Ha una risposta alla domanda su cosa vuole Dio da noi?
Dio vuole da noi che abbiamo fiducia, che abbiamo fiducia in lui e anche l’uno nell’altro. La fiducia viene dal cuore. Se abbiamo fatto molte esperienze positive (da bambini, con i genitori, con le persone cui vogliamo bene), diventiamo persone forti e sicure. Chi ha imparato ad avere fiducia non trema, anzi, ha il coraggio di darsi da fare, di protestare quando viene detto qualcosa di spregevole, di cattivo, di distruttivo. E soprattutto ha il coraggio di dire «sì» quando si ha bisogno di lui.
Dio vuole che sappiamo che sta dalla nostra parte. Egli può renderci forti. Non è possibile compiere grandi opere, andare dai bambini di strada o dai senzatetto, oppure dirigere una chiesa, e dire a se stessi che lo si fa con le proprie forze. Se non si confida nel ricevere forze ultraterrene o divine, allora è superbia. Dio vuole uomini che contino sul suo aiuto e sulla sua potenza. Essi possono cambiare la situazione presente, e innanzitutto la sofferenza e le ingiustizie, perché il mondo diventi così come Dio l’ha creato, come vuole che sia: pieno di amore, giusto, civile, interessante. Per questo vorrebbe la nostra collaborazione.
Quali passi sono possibili nel cammino verso Dio?
Fra i giovani un primo passo è porsi la domanda: quale compito mi è stato assegnato nella vita? Cosa devo e posso fare? Chi si pone questa domanda diventa collaboratore di Dio nel mondo, sente che Dio si serve di lui, lo sostiene e lo accompagna.
Quando le forze vengono meno, quando non capisci qualcosa, forse impari a pregare o ad aggrapparti a ciò che hai appreso in passato, da bambino, magari senza comprenderlo. Molto più tardi, in una situazione difficile o di fronte a una grande impresa, la preghiera esercitata in precedenza acquista d’improvviso forza quasi spontaneamente.
Il percorso che conduce a Dio dovremmo pianificarlo come una camminata o una gita in montagna e prepararci. Chi va in montagna, prima si allena. Le forze spirituali possono essere allenate proprio come quelle fisiche. Se mi limito a guardare la televisione o a sedere davanti al computer, i «muscoli» dell’amore, della fantasia e anche del rapporto con Dio si indeboliranno sempre più. Credo che dobbiamo fare esercizio: le preghiere, gli esercizi spirituali, il dialogo e il servizio sociale sono utili a questo scopo. Chi li pratica si avvicina a Dio. Sente con maggior forza di collaborare con Dio.
Un passo nel cammino verso Dio potrebbe essere l’impegno come «missionario», vivere la propria «missione». Che cosa significa? Molti di noi hanno una vita meravigliosa in con...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Conversazioni notturne a Gerusalemme
  3. Prefazione - di Carlo Maria Martini
  4. Per una Chiesa coraggiosa - di Georg Sporschill
  5. I. Quel che sostiene una vita
  6. II. Il coraggio di decidere
  7. III. Trovare amici
  8. IV. L’intimità con Dio
  9. V. Imparare l’amore
  10. VI. Per una Chiesa aperta
  11. VII. Combattere contro l’ingiustizia
  12. Copyright