Il profeta
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Il profeta

Vita di Carlo Maria Martini

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  1. 480 pagine
  2. Italian
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Il profeta

Vita di Carlo Maria Martini

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Carlo Maria Martini ha segnato un'epoca nella storia della Chiesa. La sua scomparsa ha tenuto per giorni le prime pagine dei quotidiani e le aperture dei telegiornali. Almeno duecentomila persone, credenti e non credenti, hanno partecipato all'ultimo saluto all'arcivescovo. Come si spiega un affetto tanto profondo? La gente è accorsa "perché ha colto che in Martini il cuore dell'uomo veniva prima della pur importante teologia; la misericordia e la comprensione, la capacità di interrogarsi e di mettersi in discussione ispiravano l'approccio del cardinale, mai il giudizio o l'erigersi in cattedra".
Martini è stato un profeta del nostro tempo, ha saputo cioè interpretarlo, esserne coscienza critica, indicare delle mete. La volontà di raggiungere tutti è stata il filo conduttore della sua missione, il dialogo la parola-chiave del suo ministero: con i terroristi, quando Milano era frontiera dei terribili "anni di piombo"; con le altre confessioni cristiane, come presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europee; con tutte le religioni, in particolare quella ebraica; con il pensiero laico, attraverso l'iniziativa della "Cattedra dei non credenti"; con l'uomo contemporaneo e le sue inquietudini; con una scienza in grado ormai di ridisegnare i confini della vita e della morte. Per questo suo "stile", per l'instancabile propensione al confronto, l'arcivescovo di Milano è stato amato e avversato, sognato o temuto come possibile pontefice.
Marco Garzonio, giornalista e amico personale del cardinale, ripercorre in questo saggio le tappe fondamentali della sua esistenza: il precoce ingresso nell'ordine dei Gesuiti, gli incarichi presso il Pontificio Istituto Biblico e la Pontificia Università Gregoriana, da dove un'audace intuizione di Giovanni Paolo II lo proietterà, nel 1980, al governo della più grande diocesi cattolica. Dalla cattedra che fu di sant'Ambrogio e di san Carlo Borromeo, di Schuster e di Montini, Martini vedrà in ventidue anni il flusso della storia attraversare la città e l'Italia, e verrà riconosciuto dalla comunità come punto di riferimento morale. Dopo la fine del suo mandato, tornerà agli studi nell'amata Gerusalemme per poi rientrare in Italia negli ultimi anni, segnati dal progredire della malattia ma sempre spesi generosamente al servizio della Parola.
Un ritratto, quello che emerge dalle pagine di Garzonio, lontano dalle enfatizzazioni dei media, ma an- che da ogni tentativo di eludere le domande più scomode e coraggiose del cardinale. Una ricostruzione approfondita e rigorosa che restituisce in tutta la sua forza e autorevolezza la voce di un profeta, autentico erede del Concilio Vaticano II, che la Chiesa e la società sono oggi più che mai chiamate ad ascoltare.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852031342
Categoria
Religion

TUTTO È COMPIUTO

Dal Duomo alla Città Santa, andata e ritorno
In dieci anni è inscritta la parabola dell’ultimo Martini. Il 15 febbraio 2002, avendo compiuto i 75 anni, si era dimesso da arcivescovo e aspettava solo che Roma nominasse il suo successore per poter partire alla volta dell’agognata Gerusalemme. Uno degli ultimi saluti alla diocesi volle darlo con una visita a San Vittore, il 23 giugno. Da lì aveva incominciato le visite pastorali più di vent’anni prima e lì era tornato numerose volte, come abbiamo visto nei capitoli precedenti. Nel carcere pensava di trovare una conclusione capace di esprimere lo spirito evangelico di servizio agli ultimi che aveva ispirato il suo ministero. Operatori e detenuti gli riservarono un’accoglienza che neanche lui si immaginava. Il direttore gli regalò la chiave d’ingresso dell’istituto di pena, sottolineando il valore che essa aveva di simbolo «della libertà e dell’interesse che il cardinale ha sempre avuto per noi». Nel reparto femminile le detenute gli fecero una gran festa e si rivolsero al presule con queste parole: «Vorremmo seguirla nel suo viaggio a Gerusalemme, portarle la valigia, farle da mangiare». Quindi gli regalarono «una vestaglia da camera per quando si sentirà solo, delle ciabatte per quando sarà stanco, un pullover per proteggerla dal freddo e una bella penna perché non si dimentichi di noi e ci scriva, magari, anche una cartolina da Gerusalemme».
Ma lo scenario domestico del cardinale nel ritiro accogliente e raccolto della Città Santa non durò quanto tutti si aspettavano e lui, in prima persona, avrebbe voluto. Non era evidentemente nei disegni del cielo che l’arcivescovo emerito della diocesi più grande del mondo concludesse la sua avventura terrena a Gerusalemme. Il cardinale dovette rientrare definitivamente in Italia all’indomani della Pasqua del 2008. Il Parkinson avanzava in modo inesorabile, rendendolo bisognoso di accudimento e di cure. Trascorse così gli ultimi quattro anni presso l’Aloisianum di Gallarate. Il collegio dove Martini, da giovane studente, aveva trascorso i tre anni di formazione filosofica era diventato casa di accoglienza per gesuiti anziani. Lì si accinse a svolgere il magistero in modo nuovo, tra la malattia che ogni giorno erodeva pezzo dopo pezzo la sua autonomia corporale e un amore alla vita, agli altri, alla Parola che come brace ardente scaldava incontri (con persone singole e con gruppi), celebrazioni liturgiche seguitissime (sin che la voce, sempre più flebile, non si ridusse a un soffio leggero), colloqui con i lettori del «Corriere della Sera». A mezzogiorno del 30 agosto 2012, al termine della celebrazione eucaristica cui non aveva mai rinunciato, sussurrò impercettibilmente le sue ultime parole: «Andate, la messa è finita». I collaboratori compresero che la fine era imminente. In effetti si spense alle 15 e 45 del giorno successivo, venerdì, poco dopo il tocco delle campane che ogni venerdì ricorda la morte di Gesù sulla croce.
A mezzogiorno di sabato 1° settembre le spoglie, rivestite dei paramenti sacri, vennero trasferite nel Duomo di Milano, dove ebbe subito inizio un pellegrinaggio incessante che obbligò le autorità religiose a tenere aperta la cattedrale anche la notte. La salma venne tumulata lì, ai piedi dell’altare della Croce di San Carlo, lungo la navata di sinistra, al termine dei funerali celebrati lunedì 3 settembre. La liturgia fu presieduta dal suo successore, Angelo Scola, che diede parole all’«imponente manifestazione d’affetto».
Martini tornava nel grembo della città che lo aveva avuto arcivescovo per più di ventidue anni. Lui stesso, due mesi prima, sentendo la fine vicina aveva comunicato di aver deciso per la sepoltura in Duomo; rimaneva così confinato nei sogni di giorni lontani il desiderio di confondersi con la terra di Gerusalemme, dove aveva comperato una tomba nella valle di Giosafat. «Ma lei ormai appartiene a Milano» gli aveva detto con affettuoso rabbuffo Giovanni Paolo II, quando, nel 1999, il cardinale era andato in Vaticano sperando – invano – che il papa accondiscendesse al suo desiderio di dimettersi e di tornare agli studi. E la conferma di quanto Martini fosse ormai milanese a tutti gli effetti venne dalla folla che assiepava il sagrato non avendo trovato posto in Duomo per le esequie. Del capoluogo lombardo aveva fatta sua la virtù principale del patrono Ambrogio: il vescovo deve essere il defensor civitatis, luce e coagulo di tutti. Per questa dedizione totale alla causa comune dello stare e del crescere insieme secondo giustizia viene amato oltreché stimato. «Quanto è fortunata quella cittadinanza che ha moltissimi giusti» aveva detto il cardinale a palazzo Marino il 28 giugno 2002 citando proprio Ambrogio nel discorso di ringraziamento per la medaglia d’oro conferitagli dalla municipalità in segno di riconoscenza per il suo episcopato.
Tra i giusti della Gerusalemme Celeste, archetipo di ogni cittadinanza spirituale e umana, va annoverato Martini. Un gesto contribuirà a rendere memoria dello speciale legame del cardinale con la Città Santa. Il suo sogno di riposare nella terra d’Israele, infatti, non è svanito, si è solo trasformato. Giuseppe Laras, rabbino emerito di Milano, e la Fondazione Maimonide hanno fatto arrivare da Gerusalemme due sacchetti di terra da porre nel sepolcro di Martini, in Duomo. Da morto, il cardinale ha ricevuto il riconoscimento di come, in vita, già veniva considerato dagli «amici ebrei»: uno di loro.
Ma andiamo con ordine e riepiloghiamo i principali accadimenti che videro Martini protagonista nel decennio 2002-2012. Per grandi linee riprendiamo alcuni dei momenti specifici indicativi: Gerusalemme e il ruolo giocato dalla Città Santa; il Conclave; i rapporti con Joseph Ratzinger; le prese di posizione sui temi etici; il rientro in Italia; la fine.
Un tipo sospetto
Al Biblico di Gerusalemme Martini giunse qualche giorno dopo il passaggio di consegne col suo successore Dionigi Tettamanzi. La nomina di questi era stata annunciata l’11 luglio, ma il rito solenne fu celebrato in Duomo domenica 29 settembre 2002. La Città Santa divenne la nuova cattedra del cardinale. Il suo magistero non si discostò mai dalle linee praticate quand’era arcivescovo di Milano: ricerca continua dei punti d’incontro tra la Parola e le sollecitazioni dell’esistenza, la propria e quella degli uomini. Ma la condizione oggettiva di non esser più gravato dalle responsabilità di governo della diocesi andò conferendo sempre maggior rilevanza ed eco alle sue parole, tanto da determinarne un peso crescente nell’opinione pubblica cattolica e non. Simmetricamente si dovettero presto registrare reazioni non sempre fraterne all’interno della comunità ecclesiale italiana e di parte della gerarchia, tra le cui file serpeggiarono in più occasioni sufficienza, fastidio e un malcelato allarme per quel che Martini diceva, quasi egli stesse assumendo il ruolo di «battitore libero» o di «mina vagante» più che di persona di grande fede e di assoluta obbedienza al papa (in ottemperanza al voto fatto come gesuita), mai dimentica però dell’invocazione contenuta nell’antica liturgia ambrosiana, e che egli volle reinserire nelle preghiere della Chiesa di Milano: «O Dio, dona sempre al tuo popolo pastori che inquietino la falsa pace delle coscienze e le ridestino agli impegni della rinascita battesimale». E che da semplice cardinale potesse apparire un tipo sospetto Martini ebbe l’opportunità di comprenderlo subito, da un piccolo episodio accaduto proprio al momento di lasciare l’Italia alla volta di Gerusalemme.
Al posto di controllo della sicurezza israeliana a Fiumicino il poliziotto incominciò a fargli domande, ma le risposte che ricevette generarono diffidenza nella zelante guardia. Martini non aveva una data prevista per il rientro in Italia e diceva di non puntare a mete turistiche. Alla richiesta di fornire, allora, almeno un’indicazione su quanto tempo intendeva rimanere in Israele rispose: «Penso che mi fermerò a lungo». Il poliziotto andò in allarme. Si rivolse a monsignor Luigi Testore, uno dei primi segretari di Martini, il collaboratore che lo aveva seguito in tutti i viaggi nelle località più lontane e lo aveva accompagnato all’aeroporto, e gli chiese a bruciapelo: «Conosce questo signore?». «Certo, è l’ex arcivescovo di Milano» fu la risposta, che però non dovette risultare rassicurante. Anzi. Anche perché ci aveva messo del suo pure Martini che si era presentato con i documenti di cittadino italiano, non invece col passaporto di servizio vaticano. Dovette intervenire di persona l’ambasciatore israeliano a Roma Oded Ben Hur per «liberare» l’amico Martini e consentirne la partenza. All’arrivo a Gerusalemme sarebbero arrivate le scuse del ministero degli Interni e, per farsi perdonare, le autorità israeliane offrirono poi al cardinale il permesso di soggiorno permanente, invece di quello a tempo, da rinnovare.
Fu subito chiaro come Martini avrebbe inteso la propria esistenza in quello spicchio di Terra Santa, che aveva l’Istituto Biblico come vertice d’osservazione. Nella stanza ricavata per lui all’interno del glorioso edificio collocato poco fuori le mura della Città Santa, di fronte alla porta di Jaffa e alla Torre di Davide, incominciò a vivere l’ultima parte della sua vita secondo la disposizione d’animo che aveva più volte manifestato a chi gli aveva chiesto che cosa sarebbe andato a fare laggiù: «Avvinto dallo Spirito vado a Gerusalemme, senza sapere che cosa mi capiterà». San Paolo, da cui la frase è tratta, divenne un punto di riferimento costante dell’ultimo Martini. L’identificazione con l’Apostolo di Tarso fu così stretta che l’arcivescovo prese ufficialmente congedo dalla diocesi con un pellegrinaggio a Efeso, là dove Paolo aveva concluso la propria missione in Palestina, secondo gli Atti degli Apostoli. Due giorni, dal 17 al 19 giugno 2002, per pregare ed esortare i milanesi ad accogliere con gioia chi sarebbe venuto dopo e a collaborare fattivamente con lui, senza nostalgie o riserve mentali.
E, ancora, come Paolo che, salutando gli anziani di Efeso per salire a Gerusalemme, aveva evocato Gesù quando disse: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere», Martini prese a spendere parte del proprio tempo nel rispondere a chi gli chiedeva una parola, una celebrazione, un indirizzo di carattere spirituale. Far visita a Martini entrò a far parte delle ambizioni dei gruppi che si apprestavano ad andare in pellegrinaggio in Terra Santa. Nel gennaio del 2004, a una delegazione di Brescia che aveva voluto far memoria del quarantesimo anniversario della visita di Paolo VI a Gerusalemme, Martini raccontò così la sua esistenza:
Qui vivo molto bene, sono molto contento di essere qui perché Gerusalemme è veramente un luogo di simboli straordinari, è un luogo in cui si respira la storia biblica, dai patriarchi, ai profeti, fino a Gesù, alla sua passione, morte e resurrezione. È un luogo pieno di fascino per il cristiano, per il credente, perché qui è stato Gesù, questa è stata la terra che Lui ha visto, il cielo che Lui ha contemplato, le pietre che Lui ha calpestato, i luoghi dove ha sparso il suo sangue, i luoghi in cui si è diffusa la parola: «È risorto». Io trovo qui un’ispirazione continua per la mia preghiera, per la mia meditazione. Vivo, inoltre, la preghiera che definisco d’intercessione, nel senso etimologico della parola, «cammino in mezzo» a diversi contendenti senza voler dare ragione o torto né all’uno né all’altro, ma pregando ugualmente per tutti. La situazione politica odierna è così intricata e aggrovigliata che anche un competente farebbe fatica a spiegare oggettivamente ciò che è avvenuto, perché e come. Non conosco l’arabo, so l’ebraico biblico, ma non quello moderno. Non ho titoli per giudicare. Ho preferito ... mettere in pratica la parola di Gesù: «Non giudicate e non sarete giudicati». Qui soffrono tutti molto. È difficile dire: «Soffre di più quello, soffre di più questo». Chi comincia la lista delle ragioni, dei torti? Si va all’infinito. E non si uscirà se non con qualche passo nuovo.
La presenza di Martini a Gerusalemme non fu mai neutra. Anzi. Egli si sentiva profondamente calato nella realtà umana e religiosa dei luoghi, anche se fu sempre attentissimo nel muoversi per non urtare la suscettibilità di nessuno, a incominciare dai vertici del Patriarcato Latino, sospettosi circa un eventuale ruolo di tipo, diciamo così, «politico» che il cardinale avrebbe potuto svolgere, ma che non assunse mai. Sensibile nei rapporti di tipo istituzionale e rispettoso di ogni realtà, come lo era stato a Milano, non certo equidistante nei confronti delle difficoltà e dei protagonisti di esse. Una mentalità e un approccio che gli consentivano di guardare oltre le sollecitazioni pur pressanti del momento. «Questo luogo non è solo luogo di conflitto, è soprattutto di dialogo» ebbe a dire a un gruppo di pellegrini che, disponendo di solito delle immagini e dei notiziari dei telegiornali, volevano capire che cosa stesse accadendo realmente in Terra Santa. E spiegò:
Qui si svolgono molti dialoghi a livello di base: dialoghi tra ebrei e cristiani, dialoghi tra ebrei e musulmani, dialoghi triplici tra ebrei, musulmani e cristiani. Ci sono moltissime istituzioni a Gerusalemme che coltivano queste forme di dialogo. E ci sono anche tante iniziative di accoglienza, di perdono, di riconciliazione, di aiuto, di assistenza, di volontariato. Ciò è veramente straordinario. Ho incontrato qualche tempo fa due persone che sono molto conosciute nella vita professionale di questo paese, un ebreo e un arabo. Entrambi hanno avuto in famiglia un lutto per la violenza e hanno deciso di mettersi insieme per capire l’uno la sofferenza dell’altro. Così è nato un gruppo di famiglie, ciascuna delle quali ha un figlio o una figlia uccisi dal terrorismo, dalla guerra. Queste famiglie si ritrovano regolarmente, si parlano tra loro, fanno iniziative di pace. A mio parere questa è la strada, la via della giustizia. Bisogna rendere giustizia a chi merita giustizia, e qui molti gridano perché meritano giustizia. Come dice Giovanni Paolo II e lo ha ripetuto più volte, «non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono».
E se qualcuno cercava di ottenere da lui una valutazione sugli schieramenti in campo, evitava di prender le parti dell’uno o dell’altro non per banale prudenza, ma per quella radicalità evangelica cui si era sempre ispirato e che dai luoghi santi traeva costante sorgività, potenziale rigenerativo:
Non vedo aperture politiche di pace se non in un cambio di mentalità. Bisogna sperare che questi dialoghi a livello di base portino, a poco a poco, a una cultura che all’inizio diventi opinione pubblica e domani diventi anche fatto politico. La speranza c’è, la preghiera per la pace è continua. So che la mia intercessione e la mia preghiera valgono poco, però le metto come goccia nel fiume immenso della preghiera della Chiesa, che poi è la preghiera di Cristo intercessore.
L’accostamento alla Parola, predicato e praticato nel ministero episcopale, tornò a essere per Martini oggetto di ricerca, di cose nuove e cose antiche. A Gerusalemme divenne realtà quel sogno di tornare agli studi che aveva creato incomprensioni con parte dei suoi stessi collaboratori a Milano ed evidenziato diversità di vedute con il pontefice che non gli consentì di dimettersi anzitempo, come abbiamo visto. Il cardinale riprese in mano finalmente i manoscritti biblici. Si mise di buona lena. Nel giro di poco tempo riuscì a fare una prima pubblicazione: l’edizione critica del papiro Bodmer VIII, un papiro del secolo III, il più antico documento esistente delle Lettere di Pietro. Ne fece dono a Giovanni Paolo II e Karol Wojtyła apprezzò gli esiti scientifici, certo, ma anche il valore simbolico dell’opera: la regalò a tutti i cardinali in occasione del suo venticinquesimo anniversario di pontificato. Il papa che mostrava sempre più i segni impedienti del Parkinson e il cardinale che teneva ancora sotto controllo gli effetti dello stesso male: due storie così diverse e così vicine erano tornate a incrociarsi, l’uno che muoveva a passi lenti e incerti verso la fine, l’altro che aveva incominciato a usare il bastone nelle lunghe passeggiate dentro la Città Vecchia unendo il moto salutare per il Parkinson e la preghiera.
Il 2 aprile 2005 Karol Wojtyła morì e Martini lasciò subito Gerusalemme alla volta di Roma, riuscendo a partecipare alle funzioni per il defunto. I fantasmi della rivalità tra i due, su cui ci siamo ampiamente soffermati nel capitolo V, stavano per materializzarsi proprio mentre si apriva il percorso della successione a un lungo pontificato che aveva contribuito a cambiare il mondo e ci si interrogava su chi avrebbe potuto assumere un’eredità tanto impegnativa. Martini era ben consapevole che l’attenzione di molti era rivolta a lui, ma ancor meglio sapeva che non sarebbe potuto capitare a lui.
Il momento sbagliato
Non è vero che Martini sia stato il candidato dei media, quasi un’invasione di campo dell’opinione pubblica e di una cultura dominante laicizzata nella dinamica interna della Chiesa. Solo una visione superficiale o interessata può ispirare una simile tesi. E se c’è stato chi ha riproposto l’argomento anche in occasione della morte del cardinale è perché nella comunità ecclesiale sono diffuse visceralità, invidia, scorie di frustrazioni per un potere perseguito a fini di affermazione personale, di gruppo, di «cordate». Martini è stato il candidato ideale a succedere a Pietro di una larga fetta della cattolicità, ma lo è stato nel momento sbagliato. Lo fu, infatti, nel decennio a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, quando incarnò molti sogni che cercavano cittadinanza: autoriforma e rigenerazione della Chiesa, maggior collegialità nella gestione di questa, valorizzazione delle Chiese locali, apporto dei laici, ecumenismo, dialogo, comprensione e amicizia verso l’uomo contemporaneo che non trovava più le ragioni del credere. Possiamo dire: un’autocoscienza delle possibilità rimaste bloccate da pastoie burocratiche, remore, scarso coraggio, carrierismo, accompagnata da un’apertura al mondo che lo stesso Karol Wojtyła aveva contribuito ad alimentare con vigore. Ci fu insomma una stagione percorsa da spinte al rinnovamento che si vennero affievolendo però proprio nel momento che era apparso più favorevole: all’indomani dei crolli dei muri. E con il possibile candidato Martini sarebbero stati allora, dieci-quindici anni prima di quel 2005, gli episcopati europei, che lo conoscevano bene come presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europee, molti vescovi di America Latina, Paesi orientali, Africa che continuavano a chiamarlo a predicar loro esercizi spirituali.
Tramontata quell’epoca, Martini fu ancora protagonista al momento di indicare le linee di sviluppo della Chiesa del dopo Wojtyła che pur sarebbero state gestite da un altro e non da lui. Lo si ebbe chiaro l’11 aprile 2005 quando si riunì la Congregazione generale presieduta dal cardinale decano Joseph Ratzinger per preparare il Conclave. Martini prese la parola per primo. Davanti a 134 porporati prospettò quello che secondo lui avrebbe dovuto essere il programma del nuovo papa, indicando una serie di argomenti che erano stati al centro del suo magistero pastorale. Uno, in particolare, lo aveva riproposto in precedenti occasioni, specificamente nel discorso che pronunciò il 7 ottobre 1999 al Sinodo dei vescovi, quando, come abbiamo visto nel capitolo V, enunciò tre sogni, tra cui quello che passò nell’opinione pubblica a livello mondiale come il «sogno di un Concilio» (che non era tanto un «Vaticano III», come qualcuno disse, ma la richiesta di «un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni temi nodali»). Le linee di Martini per il nuovo papa consistevano in argomenti che aveva già messo a fuoco pubblicamente dopo aver lasciato Milano per Gerusalemme. E cioè, sul piano generale, davanti alla Congregazione generale al completo il cardinale parlò di nuovi criteri di evangelizzazione, ecumenismo, scelta per i poveri e per la pace. Andando su aspetti specifici attinenti i comportamenti della Chiesa riprese i temi della collegialità (collaborazione tra papa e vescovi in modo da individuare strumenti adeguati di governo), della bioetica, della famiglia e della sessualità alla ricerca di nuovi linguaggi con cui parlare soprattutto ai giovani, in un Occidente e in un’Europa che sarebbero altrimenti perduti. Come si vedrà più avanti, Martini tornerà di continuo su tali questioni come per monitorare la coerenza della Chiesa di Benedetto XVI con i propositi da lui enunciati nella preparazione del Conclave e che avrebbero contribuito a far eleggere Ratzinger.
Mentre a Roma fervevano i preparativi e in Vaticano abboccamenti e incontri erano prassi, Martini trascorse le ore precedenti il Conclave nella casa dei Gesuiti di Borgo Santo Spirito, incontrando alcuni fidati collaboratori. Con loro scambiò riflessioni sulla composizione del collegio cardinalizio e sulle prospettive che si sarebbero determinate con l’elezione del pontefice. A tutti ribadì quel che appariva ormai chiaro: di non avere «né la possibilità né l’intenzione» di considerarsi tra gli eleggibili. In pre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il profeta
  3. Prologo
  4. I. Sulle orme di due giganti
  5. II. La terapia della Parola
  6. III. Ristrutturazioni, profitto, globalizzazione. I cristiani e la crisi
  7. IV. Tre «pesti»: violenza, solitudine, corruzione
  8. V. Il dualismo con papa Wojtyła
  9. VI. Cammina davanti a loro
  10. VII. Pellegrino per il mondo
  11. VIII. Ascolta il non credente che è in te
  12. IX. Cadono i muri ma le divisioni restano
  13. X. Comunicare fuori e dentro la Chiesa
  14. XI. La Lega voleva la rimozione del cardinale
  15. XII. Da capitale morale a Tangentopoli
  16. XIII. Indovina chi viene a cena
  17. XIV. Questa benedetta, maledetta città
  18. XV. Carcere, colpa, pena, riscatto
  19. XVI. Il sogno del vescovo
  20. XVII. In cammino verso Gerusalemme
  21. Tutto è compiuto
  22. Indice dei nomi
  23. Ringraziamenti
  24. Copyright