Albertine scomparsa
eBook - ePub

Albertine scomparsa

  1. 3,572 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Giudicato da Proust stesso "ciò che ho scritto di meglio", Albertine scomparsa (1925) chiude il dittico della ragazza di Balbec narrando il lutto del Narratore per la sua morte e il lento trascolorare della sofferenza nell'oblio, sullo sfondo di una Venezia insieme immaginata, rievocata e reale. Ispirato a un episodio autobiografico e permeato più di tutti di un potente erotismo, il penultimo libro della Recherche permette all'autore di approfondire il registro tragico dell'opera, indagando in profondità il dolore del mondo e dando il via a un percorso di autoanalisi che ha pochi pari nella storia della letteratura.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Albertine scomparsa di Marcel Proust, Luciano De Maria, Giovanni Raboni in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Literature e Classics. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852034541
Argomento
Literature
Categoria
Classics

Capitolo primo

Il dolore e l’oblio

images
«Mademoiselle Albertine se n’è andata!» Come si spinge più in là della psicologia, la sofferenza, in fatto di psicologia! Un attimo prima, analizzandomi, avevo creduto che questo separarsi senza rivedersi fosse precisamente ciò che desideravo, e confrontando la mediocrità dei piaceri offertimi da Albertine con la ricchezza dei desideri che mi impediva di realizzare, avevo concluso, trovandomi sottile, che non volevo più vederla, che non l’amavo più. Ma quelle parole: «Mademoiselle Albertine se n’è andata» avevano prodotto nel mio cuore una sofferenza tale, che sentivo di non potervi resistere oltre. Così, quel che avevo creduto non essere niente per me era, molto semplicemente, tutta la mia vita. Come ci si ignora. Bisognava farla cessare immediatamente, la mia sofferenza; tenero verso me stesso come mia madre verso la nonna morente, mi dicevo, con la stessa buona volontà con cui si cerca di non lasciar soffrire chi si ama: «Abbi un secondo di pazienza, ti si troverà un rimedio, sta’ tranquillo, non ti si lascerà soffrire così». Fu a quest’ordine di idee che si rivolse il mio istinto di conservazione alla ricerca dei primi calmanti da mettere sulla mia ferita aperta: «Tutto ciò non ha nessuna importanza, perché la farò tornare subito. Penserò a quali mezzi usare, ma in ogni caso stasera sarà qui. Dunque, è inutile tormentarsi». «Tutto ciò non ha nessuna importanza», non mi ero limitato a dirmelo, avevo tentato di darne l’impressione a Françoise evitando di mostrarle la mia sofferenza, giacché il mio amore, persino nel momento in cui lo provavo con tanta violenza, non dimenticava di voler apparire come un amore felice, un amore condiviso, soprattutto agli occhi di Françoise che non amava Albertine e aveva sempre dubitato della sua sincerità. Sì, poco fa, prima che entrasse Françoise, avevo creduto di non amare più Albertine, avevo creduto di non trascurare nulla, da analista meticoloso; avevo creduto di conoscere perfettamente il fondo del mio cuore. Ma la nostra intelligenza, per grande che sia, non può cogliere gli elementi che lo compongono, e che rimangono insospettati finché, dallo stato volatile in cui si mantengono per la maggior parte del tempo, un fenomeno capace di isolarli non li abbia sottoposti a un principio di solidificazione. Mi ero ingannato credendo di veder chiaro nel mio cuore. Ma la conoscenza che non m’era venuta dalle più fini percezioni dell’intelletto, ecco che me l’aveva data, dura, lampante, strana, come un sale cristallizzato, la brusca reazione del dolore. Avevo una tale certezza d’avere Albertine accanto a me, e l’Abitudine, di colpo, mi appariva con un nuovo volto. Fino a quel momento l’avevo considerata soprattutto come un potere annichilente, che sopprime l’originalità e fin la coscienza delle percezioni; adesso la vedevo come una divinità temibile, così ribadita su di noi, col suo volto insignificante così incrostato nel nostro cuore, che quando si distacca, quando si distoglie da noi, ci infligge – questa divinità che quasi non distinguevamo – sofferenze più terribili di qualsiasi altra, ed è tanto crudele, allora, quanto la morte.
La cosa più urgente era leggere la lettera di Albertine, dato che volevo prendere una decisione circa i mezzi per farla tornare. Sentivo di possederli, perché, essendo l’avvenire ciò che ancora non esiste se non nel nostro pensiero, esso ci sembra ancora modificabile con l’intervento in extremis della nostra volontà. Ma, nello stesso tempo, ricordavo d’averlo visto soggetto a forze diverse dalla mia, e contro le quali, se anche avessi disposto di più tempo, non avrei potuto nulla. A che serve che l’ora non sia ancora suonata se non possiamo nulla su quanto vi accadrà. Quando Albertine era in casa mia, ero ben deciso a conservare l’iniziativa della nostra separazione. E adesso se n’era andata. Aprii la lettera di Albertine. Era così concepita:
Amico mio, perdonatemi se non ho osato dirvi a viva voce le poche parole che seguono, ma sono così vile, ho sempre avuto tanta paura di fronte a voi, che neppure sforzandomi ho avuto il coraggio di farlo. Ecco quello che avrei dovuto dirvi: Fra noi la vita è diventata impossibile, del resto avete visto, con la vostra scenata dell’altra sera, che c’era qualcosa di cambiato nei nostri rapporti. Ciò che si è potuto accomodare quella notte diventerebbe irreparabile fra qualche giorno. Meglio dunque, dato che abbiamo avuto la ventura di esserci riconciliati, lasciarci da buoni amici; è per questo, caro, che vi mando questo biglietto, e vi prego d’essere tanto buono da perdonarmi se vi do un po’ di dolore, pensando a quello immenso che avrò io. Mio adorato, non voglio diventare vostra nemica, mi sarà già abbastanza duro diventarvi a poco a poco, e ben presto, indifferente: poiché, dunque, la mia decisione è irrevocabile, prima di farvi consegnare questa lettera da Françoise le chiederò i miei bauli. Addio, vi lascio il meglio di me. Albertine.
Tutto questo, mi dissi, non significa niente, è persino meglio di quanto pensassi, giacché, dal momento che non pensa niente di tutto questo, evidentemente l’ha scritto solo per far colpo, perché io prenda paura e smetta d’essere insopportabile con lei. Bisogna provvedere al più presto perché Albertine sia di ritorno stasera. È triste pensare che i Bontemps siano gente losca, che si serve della nipote per estorcermi del denaro. Ma che importa? Se anche dovessi, per ottenere che Albertine sia qui stasera, dare metà del mio patrimonio a Madame Bontemps, ne resterà abbastanza, ad Albertine e a me, per una vita piacevole. E contemporaneamente calcolavo se avrei avuto il tempo, in mattinata, di ordinare lo yacht e la Rolls Royce che lei desiderava, non pensando nemmeno più, scomparsa ogni esitazione, che regalarglieli m’era potuto apparire poco ragionevole. Anche se l’adesione di Madame Bontemps non sarà sufficiente, se Albertine non vorrà obbedire a sua zia e per tornare porrà come condizione d’avere finalmente la piena indipendenza, ebbene!, per quanto mi possa dispiacere, gliela concederò; uscirà da sola, a suo piacimento; bisogna saper accettare dei sacrifici, per dolorosi che siano, per la cosa a cui si tiene di più e che, contrariamente a quanto credevo stamane sulla base dei miei esatti e assurdi ragionamenti, è che Albertine viva qui. Posso dire, del resto, che concederle quella libertà mi sarebbe stato davvero doloroso? Direi una bugia. Già di frequente avevo sentito che la sofferenza di lasciarla libera di compiere il male lontano da me era ancora minore, forse, del genere di tristezza che m’accadeva di provare sentendola annoiarsi con me, in casa mia. Probabilmente, nel momento preciso in cui m’avesse chiesto di andare da qualche parte, di lasciarla fare, con l’idea che ci fosse qualche orgia organizzata, per me sarebbe stato atroce. Ma dirle: «Prendete la nostra barca, o il treno, andate per un mese in questo o quel paese che non conosco, dove non saprò niente di quel che farete», questo m’aveva spesso allettato col pensiero che lontano da me, per confronto, lei mi avrebbe preferito, e al ritorno sarebbe stata felice. Lei stessa, d’altronde, sicuramente lo desidera; non esige affatto quella libertà alla quale, d’altronde, offrendo ogni giorno ad Albertine nuovi piaceri, riuscirei facilmente ad imporre, giorno dopo giorno, qualche limitazione. No, quello che Albertine ha voluto è che io non fossi più insopportabile con lei, e soprattutto – come, un tempo, Odette con Swann – che mi decidessi a sposarla. Una volta sposata, alla sua indipendenza non ci terrà più; ce ne staremo qui tutt’e due, così felici! Certo, significava rinunciare a Venezia. Ma quanto le città più desiderate, come Venezia – a maggior ragione, le padrone di casa più gradevoli, gli svaghi e, molto più di Venezia, la duchessa di Guermantes, il teatro –, quanto città come Venezia diventano pallide, indifferenti, morte quando siamo uniti a un altro cuore da un legame tanto doloroso e che ci impedisce di allontanarci! Albertine ha, del resto, perfettamente ragione su questa faccenda del matrimonio. Persino la mamma trovava ridicoli quei ritardi. Sposarla era ciò che avrei dovuto fare da molto tempo, ciò che sarà necessario fare, ciò che l’ha indotta a scrivere quella lettera di cui non pensa una sola parola; e solamente perché ciò si realizzi ha rinunciato per qualche ora a qualcosa che deve desiderare tanto quanto io desidero che lei lo faccia: tornare qui. Sì, è questo che ha voluto, è questa l’intenzione del suo atto, mi diceva la mia compassionevole ragione; ma sentivo che, nel dirmelo, la mia ragione si situava sempre all’interno della stessa ipotesi che aveva adottata sin dall’inizio. Ora, capivo bene che era stata l’altra l’ipotesi a ricevere una serie ininterrotta di conferme. Probabilmente questa seconda ipotesi non avrebbe mai spinto la propria audacia sino a contemplare espressamente che Albertine potesse aver avuto una relazione con Mademoiselle Vinteuil e la sua amica. E tuttavia, quando ero stato sommerso dall’invasione di quella notizia terribile, nel momento in cui entravamo nella stazione di Incarville, era stata la seconda ipotesi a venir confermata. Essa, poi, non aveva mai previsto che Albertine potesse lasciarmi di sua iniziativa, in questo modo, senza preavvisarmi né darmi il tempo di impedirglielo. Ma se, comunque, a seguito del nuovo immenso balzo che la vita mi aveva appena fatto fare, la realtà che mi si imponeva era nuova quanto quella a cui ci mettono di fronte la scoperta di un fisico, le inchieste di un giudice istruttore o i ritrovamenti di uno storico sui retroscena d’un delitto o d’una rivoluzione, tale realtà superava sì le gracili previsioni della mia seconda ipotesi, ma, ciononostante, le avverava. Questa seconda ipotesi non era quella dell’intelligenza, e il timor panico che avevo provato la sera in cui Albertine non m’aveva baciato, la notte in cui avevo sentito il rumore della finestra, questo timore non era ragionato. Ma – e quanto segue lo mostrerà più compiutamente, così come alcuni episodi hanno già potuto indicarlo – il fatto che l’intelligenza non sia lo strumento più sottile, più potente, più appropriato per cogliere il vero, non è che una ragione in più per cominciare dall’intelligenza e non dall’intuitivismo dell’inconscio, da una fede preconcetta nei presentimenti. È la vita che, a poco a poco, caso per caso, ci consente di accorgerci che quanto è più importante per il nostro cuore, o per il nostro spirito, non lo apprendiamo col tramite del ragionamento, ma con quello di altri poteri. Ed è allora la stessa intelligenza che, rendendosi conto della loro superiorità, abdica col ragionamento in loro favore, e accetta di diventare loro collaboratrice e inserviente. Fede sperimentale. L’infelicità imprevista con cui ero alle prese mi sembrava – anch’essa, come l’amicizia di Albertine con due lesbiche – d’averla già conosciuta, per averla letta in tanti segni nei quali (malgrado le affermazioni contrarie della mia ragione, basate sulle parole della stessa Albertine) avevo ravvisato la sua stanchezza, il suo orrore di vivere così da schiava, e che lasciavano una traccia, come con dell’inchiostro invisibile, sul rovescio delle pupille tristi e sottomesse di Albertine, sulle sue guance bruscamente accese da un rossore inesplicabile, nel rumore della finestra che s’era bruscamente spalancata! Certo, io non avevo mai osato interpretarli sino in fondo, e formare espressamente l’idea della sua partenza repentina. Con l’animo equilibrato dalla presenza di Albertine, avevo pensato solo a una partenza combinata da me per una data indeterminata, cioè posta in un tempo inesistente; di conseguenza, avevo avuto solo l’illusione di pensare a una partenza, come chi si figura di non aver paura della morte perché ci pensa quando sta bene, non facendo altro, in realtà, che introdurre un’idea puramente negativa nel mezzo d’una buona salute che l’approssimarsi della morte farebbe appunto venir meno. D’altra parte, se anche l’idea della partenza di Albertine, da lei stessa voluta, mi si fosse presentata alla mente mille volte e nel più chiaro, nel più netto dei modi, non per questo avrei mai potuto sospettare cosa sarebbe stata per me, vale a dire nella realtà, quella partenza, che cosa originale, atroce, sconosciuta, che male assolutamente nuovo. A quella partenza, se l’avessi prevista, avrei potuto pensare di continuo per anni senza che tutti quei pensieri, messi uno in fila all’altro, avessero il minimo rapporto, non solo d’intensità ma di somiglianza, con l’inimmaginabile inferno che Françoise m’aveva svelato dicendomi: «Mademoiselle Albertine se n’è andata». Per rappresentarsi una situazione ignota l’immaginazione prende a prestito elementi noti, e per questo non se la rappresenta affatto. Ma la sensibilità, anche la più fisica, riceve per così dire il solco del fulmine, la firma originale e lungamente indelebile del nuovo evento. E a malapena osavo dire a me stesso che se l’avessi prevista, quella partenza, sarei forse stato incapace di rappresentarmela nel suo orrore e persino – se Albertine me l’avesse annunciata e io l’avessi minacciata, supplicata – di impedirla! Quanto mi era lontano, adesso, il desiderio di Venezia! Come un tempo a Combray quello di conoscere Madame de Guermantes quando veniva l’ora in cui non tenevo più che a un’unica cosa, avere la mamma in camera mia. Ed erano proprio, in effetti, tutte le inquietudini provate sin dall’infanzia che, richiamate dalla nuova angoscia, erano accorse a rafforzarla, ad amalgamarsi con essa in una massa omogenea che mi soffocava.
Certo, il colpo fisico che una tale separazione infligge al cuore e che, grazie al terribile potere di registrazione posseduto dal corpo, fa del dolore qualcosa di contemporaneo a tutte le epoche della vita in cui abbiamo sofferto – certo quel colpo al cuore, sul quale specula forse un poco – tanto poco ci si cura del dolore degli altri – colei che desidera portare il rimpianto al massimo d’intensità, sia che, non abbozzando che una falsa partenza, la donna voglia solo sollecitare condizioni migliori, sia che, partendo per sempre – per sempre! –, desideri invece colpire, o per vendicarsi, o per continuare ad essere amata, oppure spezzare con violenza, nell’interesse della qualità del ricordo che lascerà, la rete di stanchezze, di indifferenze che aveva sentito tessersi – quel colpo al cuore, certo, ci eravamo ripromessi di evitarlo, ci eravamo detti che ci saremmo lasciati bene. Ma è veramente raro, alla fine, lasciarsi bene, perché se si stesse bene non ci si lascerebbe! E poi, la donna con la quale più ci mostriamo indifferenti sente lo stesso, oscuramente, che pur stancandocene, in virtù d’una medesima abitudine, ci siamo sempre più attaccati a lei, e pensa che uno degli elementi essenziali per lasciarsi bene sia andarsene preavvertendo l’altro. E tuttavia, preavvertendo, teme di impedire. Ogni donna, quanto più grande è il suo potere su un uomo, sente che l’unico modo d’andarsene è fuggire. È così: fuggitiva perché regina. C’è una distanza enorme, sicuramente, fra la stanchezza che ci ispirava un attimo fa e questo furioso bisogno di riaverla, perché è partita. Ma ci sono – a parte quelle già fornite nel corso di quest’opera, e altre che lo saranno più avanti – delle ragioni. Innanzitutto, la partenza avviene spesso nel momento in cui maggiore, all’estremità dell’oscillazione del pendolo, è l’indifferenza, reale o presunta. La donna si dice: «No, non può più continuare così», proprio perché l’uomo non parla che di lasciarla, o ci pensa; ed è lei ad andarsene. Allora, tornando il pendolo all’altra estremità, la distanza è massima. Ci mette un secondo per tornare a quel punto; ancora una volta, a parte tutte le ragioni già fornite, è talmente naturale! Il cuore batte; e, d’altra parte, la donna che se n’è andata non è più la stessa che era qui. Alla sua vita accanto a noi, troppo conosciuta, s’aggiungono di colpo le vite alle quali inevitabilmente si mescolerà, ed è forse per mescolarsi ad esse che lei ci ha lasciati. Questa nuova ricchezza della vita di colei che se n’è andata retroagisce così su colei che avevamo accanto e che, forse, premeditava d’andarsene. Alla serie dei fatti psicologici che possiamo dedurre e che fanno parte della sua vita con noi, della nostra eccessiva stanchezza nei suoi confronti, della nostra gelosia anche (e per i quali gli uomini che sono stati lasciati da più donne lo sono stati quasi sempre nello stesso modo, a causa del loro carattere e di reazioni sempre identiche che è possibile calcolare: ciascuno ha il suo proprio modo d’esser tradito così come ha il suo modo di prendere il raffreddore), a questa serie non troppo misteriosa per noi corrispondeva, probabilmente, una serie di fatti che abbiamo ignorati. Da un po’ di tempo lei intratteneva di sicuro relazioni scritte o verbali, tramite messaggeri, con un certo uomo o una certa donna, aspettava un certo segnale che noi stessi, forse, le abbiamo dato senza saperlo dicendole: «Ieri è venuto a trovarmi il signor X», posto che avesse convenuto con il signor X che questi sarebbe venuto a trovarmi il giorno prima di quello in cui lei doveva raggiungerlo. Quante ipotesi possibili! Possibili, niente di più. Ero così bravo a costruire la verità, ma soltanto nel possibile, che un giorno, aperta per sbaglio una lettera per una mia amante, lettera scritta in modo cifrato e che diceva: Aspetto sempre segnale per andare dal marchese di Saint-Loup, avvertitemi domani con telefonata, io ricostruii una sorta di fuga progettata; il nome del marchese di Saint-Loup serviva unicamente a indicare qualcun altro, giacché la mia amante non conosceva Saint-Loup ma mi aveva sentito parlare di lui, e d’altronde la firma era una specie di soprannome senza alcun significato. Ora, la lettera non era affatto indirizzata alla mia amante, ma a una persona della casa con un nome diverso, che però era stato letto male. La lettera non era in cifra, ma in cattivo francese perché l’aveva scritta un’americana, effettivamente amica di Saint-Loup come questi mi disse. E lo strano modo in cui quell’americana tracciava certi caratteri aveva dato l’apparenza d’un soprannome a un nome del tutto reale ma straniero. Mi ero dunque completamente sbagliato, quel giorno, nei miei sospetti. Ma l’armatura intellettuale con cui avevo collegato quei fatti, tutti quanti falsi, era di per sé una forma così giusta, così inflessibile della verità che quando, tre mesi dopo, la mia amante (la quale, a quei tempi, pensava di restare con me tutta la vita) mi aveva lasciato, l’aveva fatto in maniera assolutamente identica a quella ch’io avevo immaginato la prima volta. Arrivò una lettera che aveva le stesse caratteristiche da me falsamente attribuite alla prima lettera, ma stavolta, appunto, con il senso del segnale; ed era, questa, la più grande infelicità di tutta la mia vita. E, malgrado tutto, la sofferenza che essa mi provocava era ancora superata, forse, dalla curiosità di conoscerne le cause: chi Albertine avesse desiderato, ritrovato. Ma le sorgenti di questi grandi fatti sono come quelle dei fiumi, abbiamo un bel percorrere la superficie della terra, non le troviamo mai. Così Albertine aveva premeditato da tempo la sua fuga; e non ho detto (perché allora m’era parso solo del manierismo e del malumore, quello che per Françoise si chiamava «fare il muso») che dal giorno in cui aveva smesso di baciarmi Albertine era stata l’immagine stessa della scontentezza, tutta rigida, impalata, con una voce triste nelle cose più semplici, lenta nei movimenti, senza più un sorriso. Non posso dire che qualcosa provasse una qualche connivenza con l’esterno. Françoise mi raccontò poi, è vero, che due giorni prima della partenza, entrata in camera sua, non ci aveva trovato nessuno, chiuse le tende, ma sentendo, dall’odore dell’aria e dal rumore, che la finestra era aperta. E, in effetti, aveva trovato Albertine sul balcone. Ma non si vede con chi, dal balcone, avrebbe potuto corrispondere, e d’altra parte le tende chiuse sulla finestra aperta potevano spiegarsi, perché sapeva come io temessi le correnti d’aria, e le tende, pur proteggendomene poco, avrebbero impedito a Françoise di vedere dal corridoio che le imposte erano aperte così di buonora. No, non vedo niente, tranne un piccolo fatto che prova soltanto come, il giorno prima, lei sapesse che sarebbe partita. Il giorno prima, infatti, prese in camera mia, senza che me ne accorgessi, una gran quantità di carta e di tela da imballaggio, e se ne servì per imballare tutta la notte, onde partire la mattina, i suoi innumerevoli accappatoi e vestaglie. È il solo fatto, non ci fu altro. Non posso attribuire importanza al particolare che mi restituì quasi di forza, quella sera, mille franchi che mi doveva, non c’è niente di speciale perché era, nelle questioni di denaro, d’una scrupolosità estrema.
Sì, la carta da imballaggio la prese il giorno prima, ma non solo dal giorno prima sapeva che se ne sarebbe andata! Non fu la tristezza, infatti, a farla andar via, ma fu l’aver deciso d’andarsene, di rinunciare alla vita che aveva sognata, a darle quell’aria triste. Triste, quasi solennemente fredda con me, salvo l’ultima sera quando, dopo esser rimasta da me più a lungo di quanto non volesse – il che mi stupiva in lei, sempre così desiderosa di protrarre –, mi disse dalla porta: «Addio piccino, addio piccino mio». Ma, al momento, non ci feci caso. Françoise mi ha detto che l’indomani mattina, quando le disse che se ne andava (ma, del resto, la cosa è spiegabile anche con la stanchezza, perché non si era svestita e aveva passato tutta la notte a imballare, esclusi gli oggetti che doveva chiedere a Françoise e che non si trovavano in camera sua e nel suo bagno), Albertine era ancora talmente triste e talmente più rigida, talmente più impalata rispetto ai giorni precedenti, che quando le disse: «Addio Françoise», Françoise credette che stesse per cadere. Quando si vengono a sapere queste cose, si capisce come la donna che ci piaceva talmente meno, adesso, di tutte quelle che si incontrano con tanta facilità nel corso delle più semplici passeggiate, e alla quale facevamo una colpa di dovergliele sacrificare, sia invece quella che preferiremmo mille volte. La questione, infatti, non si pone più fra un certo piacere – divenuto, per l’uso e forse la mediocrità dell’oggetto, quasi nullo – e altri piaceri invece allettanti, seducenti, ma fra questi piaceri e qualcosa d’assai più forte, la pietà per il dolore.
images
Promettendo a me stesso che Albertine sarebbe stata di ritorno la sera stessa, avevo rimediato a quanto era più urgente e medicato con una nuova fede lo strappo da colei con la quale avevo vissuto sino a quel momento. Ma, nonostante la rapidità con cui aveva agito il mio istinto di conservazione, quando Françoise m’aveva parlato ero rimasto per un secondo senza alcun soccorso, e avevo un bel sapere, adesso, che Albertine sarebbe stata di ritorno la sera: il dolore che avevo provato durante l’istante in cui non avevo ancora informato me stesso di quel ritorno (istante seguito alle parole: «Mademoiselle Albertine ha chiesto i suoi bauli, Mademoiselle Albertine se n’è andata»), quel dolore rinasceva da solo dentro di me, uguale a ciò ch’era stato, cioè come se io avessi ancora ignorato il prossimo ritorno di Albertine. D’altronde bisognava che tornasse, ma di sua iniziativa. In qualsiasi ipotesi, dare l’impressione di far compiere un passo, pregarla di tornare, sarebbe stato controproducente. Certo non avevo più la forza di rinunciare a lei come l’avevo avuta con Gilberte. Più ancora che rivedere Albertine, quello che volevo era metter fine all’angoscia fisica che il mio cuore, più malandato d’un tempo, non poteva più sopportare. Inoltre, a forza d’abituarmi a non volere, si trattasse di lavoro o d’altro, ero diventato più vile. Ma soprattutto, questa angoscia era incomparabilmente più forte per molte ragioni, la più importante delle quali non era, forse, che con Madame de Guermantes e con Gilberte non avevo mai gustato piaceri sensuali, ma che non vedendole ogni giorno, ad ogni ora, non avendone la possibilità e per conseguenza il bisogno, c’era in meno, nel mio amore per loro, la forza immensa de...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Marcel Proust
  3. Albertine scomparsa
  4. Nota Introduttiva - di Alberto Beretta Anguissola
  5. ALBERTINE SCOMPARSA
  6. Capitolo primo - Il dolore e l’oblio
  7. Capitolo secondo - Mademoiselle de Forcheville
  8. Capitolo terzo - Soggiorno a Venezia
  9. Capitolo quarto - Nuovo aspetto di Robert de Saint-Loup
  10. Argomento del volume - a cura di Giovanni Raboni
  11. Copyright