L'incontro
eBook - ePub

L'incontro

Ritrovarsi nella preghiera

,
  1. 168 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

L'incontro

Ritrovarsi nella preghiera

,
Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

"Con il termine di Esercizi Spirituali s'intendono tutti i modi di esaminare la coscienza, di meditare, di contemplare e pregare con le parole o con la mente e ogni altra attività spirituale" scrive Ignazio di Loyola nel suo celebre manuale di istruzioni "per vincere se stessi e mettere ordine nella propria vita."
L'incontro raccoglie i testi degli Esercizi Spirituali predicati da Gianfranco Ravasi, dal 17 al 24 febbraio 2013, a Sua Santità Benedetto XVI. Nell'appassionata interpretazione del cardinal Ravasi i versi selezionati dal Salterio si alternano con un'ampia gamma di riferimenti culturali, che spaziano dalla letteratura, alla filosofia, alla musica: da Leopardi, che individua nella meditazione una medicina per l'anima, a Kierkegaard, che paragona la preghiera al respiro del corpo, a Heidegger, che definisce il pensiero una forma di ringraziamento, a Simone Weil e alla sua irrinunciabile Attesa di Dio, ad Antoine de Saint-Exupéry, autore del Piccolo principe, che in alcuni suoi versi, riferendosi alla preghiera, scrive: agli uomini d'oggi "nulla manca / tranne il nodo d'oro / che tiene insieme tutte le cose. / E allora manca tutto".
Il tema dell' Incontro, centrato su Dio e sull'Uomo, è suddiviso in due parti: il volto di Dio, il volto dell'Uomo. Il percorso della prima parte è ascensionale e conduce verso l'altezza della trascendenza, verso il mistero, "cioè Dio del quale la preghiera ci manifesterà i vari profili che la fede riesce a definire nei loro vari significati". Il percorso della seconda si fa discensionale: la luce risplendente del volto di Dio illumina "i molteplici lineamenti del volto umano. Dio e creatura umana, teologia e antropologia s'incontrano, quindi, nel crocevia della preghiera". Una lettura che offre una singolare occasione di partecipare al più esclusivo incontro di formazione spirituale tra il Papa e una delle più alte personalità della cultura religiosa.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a L'incontro di in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Teologia e religione e Cristianesimo. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852036040

Parte seconda

IL VOLTO DELL’UOMO

Sono solito definire il libro dei Salmi un’anatomia di tutte le parti dell’anima, perché non c’è sentimento nell’uomo che non sia qui rappresentato come in uno specchio.
Anzi, lo Spirito Santo ha messo qui, al vivo, tutti i dolori, le tristezze, i timori, i dubbi, le speranze, le preoccupazioni, le perplessità, fino alle più confuse emozioni che agitano l’animo degli uomini.
GIOVANNI CALVINO, Commento ai Salmi (1557)

VIII

«Come un bimbo svezzato»

L’uomo credente

Pierre Prigent, nel suo commento all’Apocalisse (1980), fa notare che c’è un versetto di tale bellezza e incisività da far cadere di mano agli esegeti gli strumenti sofisticati della loro analisi per lasciare spazio alla purezza del testo. È un quadretto posto a suggello dell’ultima delle sette lettere che aprono quel libro biblico, indirizzata a una chiesa dell’Asia minore, quella di Laodicea. Sembra il ritratto di molte comunità cristiane contemporanee, ma anche della stessa società in cui siamo immersi. Infatti, essa inalbera il vessillo grigio della tiepidezza, della superficialità, della mediocrità, della banalità, lontana com’è sia dall’ardore fiammeggiante del bene e dell’amore, sia dalla tragica consapevolezza del gelo del male. Non è immorale ma amorale. Ed è per questo che l’indice puntato del Cristo è feroce nell’accusa : «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca!» (Ap 3,15-16).
Ma alla fine della lettera questa nausea sembra dissolversi ed ecco la scena a cui facevamo riferimento: «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io entrerò da lui; cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Cristo, dunque, passa per le strade del mondo, «i tuoi piedi ancora sanguinano sui nostri selciati», cantava il poeta francese Pierre Emmanuel. Ecco, s’accosta a una porta e bussa: la sequenza contiene in sé una connotazione che può sfuggire. Essa, infatti, rimanda alla simbologia amorosa dell’innamorato che sta alla porta dell’amata, la quale si mostra ritrosa ad aprire. È un modulo poetico popolare, quello della canzone sotto la finestra della donna desiderata, è uno schema letterario noto al mondo greco come il paraklausithyron, «lo stare alla porta chiusa», è un tratto descrittivo del Cantico dei cantici quando per due volte l’amato «sta ritto dietro il nostro muro e occhieggia attraverso la finestra, spia attraverso le grate» (Ct 2,9) e, poi, a notte fonda «bussa: Aprimi, sorella mia … Introduce la mano nell’apertura» della porta (cfr. 5,2-5).
La scena, allora, fuor di metafora, celebra in prima istanza il primato della grazia, la cháris che diventa caritas, come abbiamo già visto all’inizio del nostro itinerario. Se Cristo non passasse e non bussasse, noi resteremmo chiusi nella nostra storia solitaria e autonoma. Abbiamo, così, quasi la sintesi della serie di teofanie salmiche finora tratteggiate. Ma c’è un nuovo elemento che entra in scena. Sta a noi ascoltare quel bussare e quella voce che chiama. Sta a chi è chiuso nel suo spazio e nel suo tempo spalancare la porta. È, questo, il momento della libertà umana, della pístis, la fede che accoglie la cháris, la chiamata, il dono, la teofania. C’è chi sceglie di non essere disturbato; oppure, distratto dai rumori, dalle chiacchiere, dal volume alto dei suoni, dalla pigrizia o dall’indifferenza, rimane seduto e ignora quella voce, un po’ come fa la donna del Cantico che accampa scuse per non alzarsi dal letto e aprire all’amato.
Ma per chi ha afferrato la maniglia della porta e l’ha aperta, ecco la sorpresa: è lui, il Signore! Allora, come Abramo s’era affrettato ad accogliere i tre ospiti misteriosi imbandendo una mensa sontuosa e ricevendo il dono della vita di Isacco (Gen 18), così anche quella famiglia che ha accolto Cristo lo ha come commensale. E il pranzo è per eccellenza un segno di comunione, di condivisione, di intimità. Inizia, così, la vita nuova, la dikaiosyne, la «giustificazione» paolina che dà origine alla nuova creatura. È l’abbraccio tra i due amori, la caritas divina e la fiducia amorosa del fedele. Proprio da questo incontro partiamo ora per la seconda parte del nostro viaggio. Se finora protagonista è stato Dio che ha bussato e si è presentato con la sua parola, la sua azione nel mondo, nel tempio, nella storia, nel suo Messia e nel cuore dell’uomo, ora sale sulla ribalta la creatura umana che risponde al suo Dio con la sua parola, le sue opere, la sua varia identità, la sua finitudine e colpevolezza, le sue attese e speranze.
Se con le tappe precedenti siamo stati in pellegrinaggio attorno alle sorgenti del Giordano e al lago di Tiberiade, il teatro delle opere e dei giorni di Gesù Cristo, del suo primo svelamento, ora – per continuare con la stessa metafora – navigheremo lungo il corso di quel fiume, un corso estremamente complesso, serpentiforme: infatti, per superare 104 chilometri in linea d’aria, il Giordano con le sue anse ne impiega ben 323, divenendo così un emblema della vita umana sinusoidale, dispersa e tormentata. Tuttavia, ciò che ci sostiene in questo percorso – che descriveremo tappa per tappa nelle successive meditazioni – è la fiducia, quella che i teologi chiamano fides qua, cioè la fede con la quale aderiamo a quel Dio che abbiamo conosciuto nella fides quae, ossia nei contenuti di verità scoperti contemplando il volto divino, come abbiamo fatto precedentemente. Ebbene, uno dei generi letterari salmici più intensi è proprio quello dei «Salmi di fiducia»: in essi risuona «la voce della Sposa che parla allo Sposo», come dice il Concilio Vaticano II (Sacrosanctum Concilium, n. 84), dopo che lo Sposo ci ha parlato. Era già san Girolamo che ci ricordava: «Preghi? Sei tu che parli allo Sposo. Leggi? È lui che ti parla» (Epistula 22,25).
Affidiamo il ritratto dell’orante fedele e fiducioso che rimane unito al suo Dio – in mezzo al riso e alle lacrime, alla luce e alla tenebra, alla vita e alla morte – a un delizioso e tenero inno fatto soltanto di una trentina di parole nell’originale ebraico, delle quali solo una quindicina indispensabili. È il Salmo 131, che ha al centro quasi un cammeo: una madre e il suo bambino a lei serenamente unito. La simbologia dell’infanzia spirituale è un classico nella teologia mistica: pensiamo solo a santa Teresa di Lisieux (1873-1897) e alla sua Storia di un’anima, con l’esaltazione della «piccola via», del «restare piccola», dell’«essere tra le braccia di Gesù», oppure alla nota invocazione di un maestro spirituale, Léonce de Grandmaison: «Santa Madre di Dio, conservatemi un cuore di bambino, puro e trasparente come una sorgente!». Che l’infanzia spirituale non sia un bamboleggiare sentimentale e vezzoso, ma un atto radicale di fede, appare proprio nella struttura stessa del Salmo, che comprende due momenti.
Il primo, in forma negativa, descrive l’antitesi della fiducia spirituale: «Non si esalta il mio cuore, non si levano superbi i miei occhi, non cammino verso cose grandi e per me prodigiose» (v. 1). In ebraico si hanno immagini «verticali», per cui la persona si erge quasi in segno di sfida: l’«esaltarsi» del cuore è gabah, un verbo che rimanda alle alture, al monte; il «levarsi» degli occhi è rûm, cioè un innalzarsi per guardare dall’alto con alterigia e disprezzo; mentre halak, il «cammino», ascende verso le vette della potenza e del successo clamoroso. Si ha, dunque, l’antipodo della fede, la superbia, che illude l’uomo di collocarsi nella stessa posizione di Dio: è il peccato «originale» dell’«essere come Dio, conoscitori del bene e del male» (Gen 3,4). Il pensiero corre alla stupenda elegia satirica di Isaia, in cui il re di Babel proclama con arroganza: «Salirò in cielo, sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nella vera dimora divina; salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo!» (Is 14,13-14).
Subentra a questo quadro agitato, esaltato e clamoroso la scena positiva nella quale emerge il volto del vero credente. L’atmosfera è quieta e silenziosa ed è l’orante a sussurrarla: «Io, invece, ho l’anima mia distesa e tranquilla: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia!» (v. 2). Si noti la ripetizione, tipica dei «Salmi delle ascensioni» al cui interno è collocato il nostro testo, che sembra ammorbidire e prolungare la quiete e la pace di quella stanza ove un bimbo è abbracciato alla sua mamma. Importanti sono anche qui le immagini di taglio «orizzontale»: l’anima è «distesa» come una pianura, ed è «tranquilla», in ebraico si usa il verbo dmm che rimanda al silenzio profondo. Ma è rilevante fissare lo sguardo su quel bambino che spesso è concepito come un neonato tranquillo e sazio dopo aver poppato il latte dal seno della madre.
In realtà, il vocabolo ebraico è gamûl e designa il «bambino svezzato», portato sulle spalle alla maniera orientale. Ora, lo svezzamento ufficiale era tardivo in quella società perché si collocava attorno ai tre anni e dava origine a una grande festa del clan familiare. Il bimbo, allora, è legato alla mamma da un rapporto più personale e intimo, quasi cosciente e non meramente stimolato dall’istinto fisiologico del cibo. L’autentica fiducia non è, dunque, un abbandono cieco: è adesione con la propria libertà e personalità, come scriveva santa Elisabetta della Trinità, un’altra figura mistica di grande intensità, vissuta solo ventisei anni: «Dio ha messo nel mio cuore una sete infinita e un grandissimo bisogno di amare che lui solo può saziare. Allora io vado a lui come il bambino va da sua madre perché egli colmi e invada tutto e mi prenda in braccio». È un legame talora anche impacciato ed esitante perché, come confessa in un tenero soliloquio il Signore nelle pagine del profeta-padre Osea: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato … Lo attiravo a me con legami di affetto e con vincoli d’amore: ero come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (cfr. Os 11,1-4).
In un tempo, come il nostro, che ha perso il gusto per la finezza e la tenerezza, per la semplicità e la limpidità dell’anima, è necessario ritrovare l’«essere bambini» non per vezzo o sentimentalismo, ma sulla scia del monito di Gesù a «diventare piccoli come bambini per entrare nel regno dei cieli» (cfr. Mt 18,1-5). Come è noto, lo stesso Gesù prega così: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). E se abbiamo perso questa limpidità della fede, ricordiamo ciò che lo scrittore Georges Bernanos (1888-1948) riconosceva di sé in una lettera: «Ho perso l’infanzia e non la potrò riconquistare se non attraverso la santità».
Anche tra le tentazioni dell’orgoglio, tra le tempeste delle tensioni impure, tra il fascino del successo e del potere, dobbiamo conservare un fondo di fiducia serena che ci fa pregare come il beato John Henry Newman (1801-1890), mentre la nave su cui viaggiava presso le Bocche di Bonifacio tra la Sardegna e la Corsica era scossa da una bufera: «Guidami oltre, Luce gentile, nell’oscurità che mi circonda, / guidami oltre! / La notte è buia, e io sono lontano da casa. / Guidami oltre! /… Non chiedo di vedere / la scena distante, / un solo passo in avanti mi è sufficiente».

IX

«Un soffio è ogni uomo»

L’uomo creatura fragile

«Signore, la migliore testimonianza / che noi possiamo dare della nostra dignità / è questo ardente singhiozzo che rotola di età in età / e viene a morire ai bordi della tua eternità.» Aveva colto tutti i «fiori del male» in una vita dissipata, ma il poeta Charles Baudelaire (1821-1867) aveva il coraggio di dare voce a tutti i sofferenti e peccatori della terra, lanciando questa invocazione estrema a Dio, accompagnata da un «ardente singhiozzo» di dolore e pentimento. È, questo, il grido che si leva a più riprese nel Salterio che, così, incarna il respiro di dolore che sale dalla terra verso il cielo. Un respiro che da sempre ha sollecitato la letteratura, come suggeriva già il tragico greco Eschilo il quale, nei Persiani, presentava questo anelito della creatura umana, ma lasciava cadere nel vuoto ogni risposta che venisse dall’alto, dal «segreto dell’ombra».
È, questa, un’esperienza che ha provocato tutte le teologie e che è divenuta la sostanza di infinite preghiere in tutte le religioni. È significativo notare che quasi un terzo del Salterio è costituito di suppliche personali o di lamentazioni comunitarie. Impressionante è la protesta rivolta a Dio e formulata in quel «Perché?», tipico di molte invocazioni lacerate dal dolore, o da quel quadruplice «Fino a quando?» del Salmo 13, martellato in crescendo: «Fino a quando, Signore, mi dimenticherai? Per sempre? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? Fino a quando nell’anima mia proverò incubi, tristezza nel cuore ogni giorno? Fino a quando si ergerà su di me il nemico?» (vv. 2-3). Ognuno di noi, quando sente ramificarsi nel corpo e nello spirito la mano gelida della prova, del male, della solitudine, della malattia e della morte, leva un sospiro, un lamento, un’implorazione, confessando ancora col Salmista: «Ho creduto anche quando dicevo: Io sono tanto infelice!» (Sal 116,10).
L’orante dei Salmi dà, quindi, voce a tutti noi quando sperimentiamo quello che in ebraico è chiamato sar, cioè «angustia», un vocabolo che indica una ristrettezza, una chiusura senza respiro, terribile per chi è abituato ai larghi spazi della vita. Per questo, il «liberare» (Sal 4,2: «Nell’angustia mi hai liberato») evoca le libere distese della campagna o della steppa spaziosa e solitaria in cui la persona può muoversi, correre, godere, vivere nella luce. Cercheremo, dunque, in questa e in alcune altre tappe del nostro pellegrinaggio spirituale, di incontrare i vari volti della sofferenza, perché – come diceva lo scrittore francese Michel Tournier – se il giorno è uguale per tutti, la notte è diversa per ciascuno perché ognuno la popola delle sue paure.
La nostra sarà, perciò, una selezione di esperienze in cui ci specchieremo per affidare a Dio ogni pena e attesa. Una premessa è indispensabile. La sofferenza e il male sono legati alla stessa creaturalità che è limitata e caduca; come scriveva Giovanni Paolo II nella Salvifici doloris, «è essenziale alla natura dell’uomo … inseparabile dalla sua esistenza terrena». La malattia, ad esempio, non è solo una questione fisiologica, biologica e medica, ma è anche una realtà esistenziale, sapienziale, filosofica, psicologica e teologica. È per questo che la scrittrice americana Susan Sontag, quando fu colpita da un cancro, raccontò la sua esperienza nel 1978 in un libro che intitolò significativamente La malattia come metafora. Al capezzale del sofferente non basta la scienza medica, ma è necessaria anche la «compassione»; la terapia non può ignorare l’umanità, l’anatomia corporale esige l’attenzione alla spiritualità (non per nulla si riflette, anche a livello neutro e «laico», sull’effetto terapeutico della preghiera nel malato).
I Salmi registrano a più riprese questa radice antropologica profonda della sofferenza. Ne è testimonianza alta il Salmo 39, «forse la più bella di tutte le elegie salmiche», come scriveva l’esegeta Heinrich Ewald. Essa è un’intensa e amara meditazione sul «male di vivere», sul limite creaturale, sulla miseria della condizione umana, sulla radicale fragilità dell’esistere. Il poeta annoda questa complessa esperienza sul «quanto fragile io sia» (v. 5) a un vocabolo caro a Qohelet, che lo usa ben trentotto volte, hebel, «soffio, vuoto, vanità», qui reiterato tre volte: «Sì, come soffio è ogni uomo; sì, come ombra è l’uomo che passa; sì, come soffio si agita … sì, un soffio è ogni uomo» (vv. 6-7.12). Potente è anche l’immagine – che sarà adottata da Shakespeare nel Macbeth – dell’uomo come ombra che cammina, immagine che diventa poi nel prosieguo del Salmo più biblica: «Io sono uno straniero, un pellegrino come tutti i miei padri» (v. 13), e che sarà ripresa da Goethe per il quale «l’uomo è un triste viandante sulla terra oscura».
È, dunque, una meditazione sulla finitudine creaturale, come ben si dice nell’apertura del carme quando si descrive il tormento interiore: «Sono rimasto totalmente muto, tacevo privo di felicità e il mio dolore si esasperava, s’infiammava il cuore nel mio petto, al rifletterci è divampato il fuoco» (vv. 3-4). Ed ecco, alla fine, l’esplosione delle labbra che gridano: «Rivelami, o Signore, la mia fine, quale sia la misura dei miei giorni», una misura fatta di «pochi palmi» perché «la mia durata è un nulla davanti a te» (vv. 5-6). È la stessa voce di Giobbe: «I miei giorni scorrono veloci come la spola, svaniscono senza più un filo di speranza. Vento è il mio vivere, i miei occhi non contemplano più la felicità … Lasciami, i miei giorni sono un soffio» (Gb 7,6-7.16). O anche quella di san Giacomo: «Ma cos’è mai la vostra vita? Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare» (Gc 4,14).
Queste e altre parole forti della Bibbia e della tradizione ascetica sono una sferzata necessaria in un’atmosfera così superficiale come quella in cui è immersa la società contemporanea, preoccupata al massimo di «accumulare senza sapere chi erediterà», come dice il Salmista (v. 7). C’è una rappresentazione feroce di questo stato già nel Diario di Kierkegaard: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani». I grandi mezzi di comunicazione, a partire dalla televisione e da internet, ci insegnano tutto sulle mode e sui modi di vivere, sul cibo e sui consumi, ma ignorano ogni interrogativo e risposta sul senso dell’esistenza.
È un clima che tutti respiriamo, a cui ci adattiamo e che spegne le grandi domande sul valore della vita. Il Salmista, al contrario, costringe a una torsione della mente verso ciò che si vuole ignorare, verso la nostra miseria radicale, verso la morte, la grande apolide nella cultura attuale, eppure mai così ben insediata nelle violenze quotidiane, negli incidenti, nei conflitti, nelle scelte costanti di morte che si compiono senza riflessione o remora etica. Impressiona, però, la preghiera finale del Salmo. È un’invocazione povera e nuda che affiora sulle labbra anche di tante persone semplici provate dalla vita, invocazione che dobbiamo rispettare pur nella sua brutalità, proprio perché la Parola di Dio ha lasciato che nelle sue pagine ci fossero sia il lamento acre di tanti oranti, sia il grido straziante di Giobbe, sia la compassata ma aspra reazione di Qohelet.
L’orante del Salmo 39, infatti, conclude così la sua supplica-meditazione: «Ascolta la mia preghiera, Signore, porgi l’orecchio al mio grido, non essere sordo ai miei singhiozzi … Distogli da me il tuo sguardo, che io possa respirare, prima che me ne vada e di me non resti più nulla!» (vv. 13-14). È evidente che l’orizzonte ultraterreno è ancora vuoto in questa concezione, come in altre pagine anticotestamentarie. Il Salmista...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'incontro
  3. Dello stesso autore
  4. Premessa
  5. Parte prima - IL VOLTO DI DIO
  6. Parte seconda - IL VOLTO DELL’UOMO
  7. Copyright