«Mi sono venuti in mente quei versi dell’Inferno appena ho visto quel relitto, non so perché, anzi, lo so benissimo. Siamo a Venezia, o in ogni caso non molto distante, sul fondo della laguna a poche spanne dalla superficie c’è una nave risalente al quattordicesimo secolo, lunga una trentina di metri, che gli archeologi stanno liberando dal fango che la ricopre, e il fasciame comincia a riapparire… Uno spettacolo, ti assicuro, una tecnica costruttiva formidabile, una perfezione nelle connessure che faceva pensare a un violino, non allo scafo di una galea. Stavano liberando la scassa dell’albero: c’era ancora la stoppa tutto attorno e le zeppe per fissarlo…»
Lucio Masera si accalorava mentre descriveva ciò che aveva visto durante la sua immersione nelle acque non proprio limpide di San Marco in Boccalama e il suo amico Rocco Barrese lo ascoltava con grande interesse. Barrese era un filologo romanzo che insegnava letteratura medievale a Ca’ Foscari, e che aveva pubblicato un importante studio sulle fasi compositive della Divina Commedia, suscitando anche una certa polemica negli ambienti degli specialisti. L’ipotesi di Barrese era che Dante fosse tornato sul suo testo fino all’ultimo momento e che certi ripensamenti o certe aggiunte erano state fatte addirittura poco prima della sua morte e non solo nella terza cantica del Paradiso, ma in tutto il poema. Barrese era inoltre un linguista poliglotta di sterminata dottrina, capace di distinguere a prima vista, o al primo ascolto, impercettibili sfumature semantiche e fonetiche, sia nel campo delle lingue che in quello dei numerosi dialetti che padroneggiava perfettamente. Il suo studio al secondo piano di una casa del Ghetto vecchio era talmente ingombro di libri che a malapena si riusciva a passare da un ambiente all’altro e sulla scrivania ce n’erano almeno una mezza dozzina di aperti, tra i quali la biografia di Dante del Petrocchi.
Barrese, che era un tipo sedentario, un vero topo di biblioteca, si era subito interessato al racconto di Masera che gli sembrava quanto di più avventuroso si potesse immaginare, per uno come lui che non aveva mai guidato un’auto né inforcato una bicicletta, né mai percorso a piedi più di un chilometro senza fermarsi a riposare e a meditare. Inoltre l’idea che un passaggio della Commedia fosse collegato a una scoperta archeologica, anche se soltanto per una semplice associazione di idee e per una coincidenza cronologica, lo eccitava.
«Lo vuoi un caffè?» chiese accostandosi al fornello.
«Volentieri. Il caffè come lo fai tu è più buono che al bar.»
«Perché lo faccio con la napoletana» rispose «e con il tempo che ci vuole. Il caffè è come un buon articolo scientifico: ci vuole il suo tempo perché venga bene. Tu, a proposito, come sei messo con il concorso?»
«Come vuoi che sia messo? Da cani. La commissione che hanno estratto a sorte, guarda caso, mi è in gran parte contraria e il vincitore è già stato deciso da almeno due mesi.»
«Se la pensi a questo modo del mondo accademico,» disse Barrese armeggiando con la caffettiera «perché non te ne vai?»
«E dove? E a far che? L’unica cosa che so fare è questa: razzolare con la cazzuola a raccattare cocci, sia per terra che per mare.»
«E adesso che cosa succede?» domandò Barrese tornando al primo argomento di conversazione. «Voglio dire, una volta individuato il relitto che fate, lo tirate fuori dall’acqua?»
«Nemmeno per sogno. Innanzitutto lo liberiamo completamente dalla terra di riempimento, dopo di che comincia la fase più spettacolare dell’operazione. Si monta un palancolato di ferro conficcato sul fondale della laguna creando una specie di recinto tutto attorno al relitto. Poi si posizionano delle idrovore e si comincia a pompare l’acqua fuori dal recinto fino a mettere all’asciutto il fondale della laguna e il relitto stesso. È un sistema inventato dagli archeologi inglesi per le zone umide: si chiama well point.»
«Ma come fate a tener fuori il mare?» chiese stupito Barrese.
«Dopo un po’ le connessure del palancolato si sigillano da sole con la fanghiglia in sospensione nell’acqua; semmai si cola un po’ di segatura per accorciare i tempi e ti assicuro che non passa una goccia.»
«E poi?»
«A quel punto ripuliamo lo scafo fino a mettere a nudo il legno, fotografiamo, documentiamo, disegniamo. Da ultimo ricopriamo con un telo di tessuto sintetico e facciamo entrare l’acqua.»
«Cosa?» esclamò Barrese restando con la caffettiera in mano a mezz’aria, «dopo tutta quella fatica e quel lavoro la rimettete sotto? Ma non sono soldi sprecati?»
«Nient’affatto. Lo scopo dell’archeologia non è recuperare oggetti ma dati conoscitivi. E comunque il costo maggiore sarebbe il recupero. Certo uno scavo che non porti a casa oggetti, tesori, qualcosa di visibile insomma, e possibilmente di esponibile, non sarebbe compreso, per cui io penso che i nostri finanziatori faranno un ulteriore sforzo per un secondo intervento che ci consenta il recupero e l’esibizione dello scafo come trofeo della nostra campagna. Te lo immagini far bella mostra di sé nei locali dell’Arsenale dove fu costruito più di sei secoli or sono? Non sarebbe fantastico?»
Barrese prese due tazzine da un armadietto e cominciò a versare il caffè: «Altro che,» rispose «ma dimmi, chi è che finanzia lo scavo?»
«La Fondazione Foster.»
«E chi sono?»
«A dirti la verità non lo so. Credo sia la struttura culturale di una grossa azienda di telecomunicazioni, la Intercom, che ha sede a Londra. Pare che il presidente, Sir Basil Foster, sia un maniaco dell’archeologia navale. Suo è il recupero, l’anno scorso, della nave vichinga di Bjornstroem e qualcuno gli attribuisce perfino una spedizione sull’Ararat sulle tracce dell’arca di Noè, anche se stento a crederlo. Fra una settimana verrà giù a vedere la nave. Sullo scavo sono tutti in fibrillazione.»
«E fino a ora non avete trovato niente? Voglio dire, reperti, oggetti di interesse…»
«Oh, sì certo. Intanto abbiamo scoperto che la nave è stata affondata deliberatamente praticando una serie di fori nello scafo e inoltre abbiamo trovato i resti di un uomo a bordo. Anzi, guarda, ho qui qualcosa.»
Barrese si voltò e quasi lasciò cadere il vassoio con le tazzine: davanti a lui, appoggiato su una pila di libri, c’era un teschio umano, nero come la pece, che sembrava guardarlo con le sue occhiaie vuote.
«Santo cielo, ma che è? Metti via quella roba, mi dà i brividi!»
«È un teschio come vedi, e se potesse parlare probabilmente potrebbe raccontarci una storia molto interessante. Ma non è il solo, sai: laggiù ce n’è a migliaia, il fondo ne è pieno.»
«Migliaia? Ma di che cosa si tratta?… Non è una cosa comune, mi pare.»
«No, infatti. Tutt’altro che comune. Pensiamo che si sia trattato di un’epidemia. C’era un’isola una volta in quel posto, che in seguito è andata sommersa. È probabile che l’abbiano usata come discarica per i cadaveri della peste.»
«Allegra, come ipotesi» disse Barrese sedendosi. «Preferisco la filologia.»
Lucio sorbì il suo caffè poi infilò il teschio in una borsa di plastica della Coop e si congedò: «Lo porto in laboratorio per le analisi» disse alzandosi.
«Torna presto a trovarmi» gli rispose Barrese. «Sono sempre solo come un cane e le tue storie mi appassionano, mi movimentano la vita.»
«Sì, certo,» rispose Lucio «appena ho un minuto.» Aprì la porta e scese le scale buie e umide fino al campo. Era il tramonto: il cielo era attraversato da voli di rondini e il campo da grida di ragazzini che giocavano a palla. Lucio passò prima dall’Istituto Kemp a depositare un frammento di legno dello scafo per un radiocarbonio 14, poi depositò il teschio all’Istituto di antropologia dell’università: trecentocinquanta dollari la prima analisi, quindici euro la seconda, pagamenti ambedue anticipati. Rientrò nella sua abitazione presso il ponte dell’Accademia che faceva già scuro e andò in sala da pranzo. Assunta, la sua cameriera napoletana, aveva lasciato il piatto della pasta sul tavolo coperto da un altro piatto e una mezza bottiglia di Chianti dalla sera precedente. Niente pane, solo grissini. Forse avrebbe dovuto sposarsi, pensò, ma le cose sarebbero migliorate? Quale moglie avrebbe sopportato i suoi ritmi, i suoi orari, le sue paturnie? E inoltre la sua ultima ragazza, Milena, lo aveva appena piantato per incompatibilità quasi totale di carattere, orari lavorativi e tempo libero. Un fiasco totale.
Spense il cellulare, afferrò il telecomando e accese il televisore che stava all’altro capo del tavolo sicché la giornalista che annunciava il telegiornale sembrava una ragazza carina che avesse accettato un invito a cena: uno degli espedienti usati da Lucio per avere compagnia a tavola visto che non era quasi mai in grado di programmare un orario e quindi di invitare qualcuno, senza contare gli straordinari per Assunta che avrebbero peggiorato il suo già problematico bilancio. Le notizie importanti erano appena passate, ora toccava alla cultura e infatti, immancabilmente, la telecamera sorvolò il pezzo di laguna circoscritto dal palancolato e zoomò sulla lunga ombra affusolata che corrispondeva al relitto. Poté anche vedere se stesso in tuta e stivaloni intento a sondare con uno scandaglio la profondità dell’acqua nell’angolo sudovest della recinzione e, poco distante, il suo collega Michael Liddel-Scott, il rappresentante della Fondazione Foster intento a scattare fotografie. D’estate i giornali e i telegiornali non avevano molto di cui occuparsi e quell’operazione così spettacolare era come manna dal cielo per i media che si erano scatenati inventandosi anche storie e misteri inesistenti per rendere più appetitosi i loro reportage.
Liddel-Scott gli stava sulle scatole con la sua spocchia oxfordiana, le sue manie da superuomo e tutto quello snobismo di usare ancora carta e penna anziché il computer e per carità niente cellulare, lo detestava, e detestava tutti quegli imbecilli che ne avevano uno, ossia venticinque milioni di italiani e altrettanti inglesi. Ogni volta che parlava non esprimeva un punto di vista, emetteva una sentenza inappellabile. Non andava a genio nemmeno agli altri suoi colleghi, Alberto Fossa e Stefano Marras, che sgobbavano dall’alba al tramonto nelle loro mute intrise di fango puzzolente per sentirsi dire alla fine: «I would have preferred a different approach to the problem, if I may say so…».
«Pallone gonfiato, pomposo imbecille…» ringhiava Marras fra i denti nel suo accento gallurese e perfino le bolle del suo respiratore salivano in superficie più effervescenti quando era in immersione costretto a eseguire disposizioni che considerava assurde. A quel punto Lucio sperava soltanto di concludere nel migliore dei modi la prima tranche dei lavori, incassare il suo compenso e partire per una vacanza su qualche isola greca, ma una sorta di presentimento gli diceva che le sue aspettative erano destinate ad andare deluse. Spense la tv, lavò piatti e posate e passò nel suo studio per mettersi a lavorare. La piccola luce verde dei messaggi pulsava nella segreteria telefonica e Lucio premette il bottone dell’ascolto: Milena chie...