All'ombra delle fanciulle in fiore
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All'ombra delle fanciulle in fiore

  1. 3,572 pagine
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All'ombra delle fanciulle in fiore

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All'ombra delle fanciulle in fiore Premio Goncourt nel 1919, All'ombra delle fanciulle in fiore rappresenta, all'interno di quel "tout vivant" che è la Recherche, il momento spirituale e biologico della giovinezza. Libro "corale", "estroverso", di un fascino duraturo, è anche un libro "marino", nel quale il paesaggio della costa normanna insolitamente assolata, tratteggiata con tocchi impressionisti, fa da sfondo al doppio amore del Narratore per Gilberte prima e per la piccola banda delle "fanciulle in fiore" poi, in cui spicca Albertine. Tra i molti incontri decisivi, quello con lo scrittore Bergotte e il pittore Elstir, che inizieranno il Narratore alla vita e all'arte.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852034619
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

Parte seconda

Nomi di paesi: il paese

(Primo soggiorno a Balbec, fanciulle in riva al mare)

Freccia che punta in alto a destra
Avevo raggiunto una quasi completa indifferenza nei confronti di Gilberte allorché, due anni dopo, partii con la nonna per Balbec. Quando subivo il fascino d’un nuovo viso, quando era sull’aiuto di un’altra fanciulla che fondavo la speranza di conoscere le cattedrali gotiche, i palazzi e i giardini d’Italia, mi dicevo tristemente che forse il nostro amore, in quanto amore di una determinata creatura, non è un’autentica realtà, perché se qualche associazione di fantasticherie piacevoli o dolorose può per un certo tempo legarlo a una donna fino a farci supporre che sia stata lei ad ispirarlo in modo necessario, basta per contro che da tale associazione noi ci svincoliamo, volontariamente o a nostra insaputa, perché quell’amore, come se fosse invece spontaneo e avesse la sua sola origine in noi, rinasca per darsi a un’altra donna. Tuttavia, al momento della partenza per Balbec e nei primi tempi del mio soggiorno, l’indifferenza era ancora intermittente. Spesso – la nostra vita è così poco cronologica, tanti anacronismi interferiscono nella successione dei giorni – vivevo in quelli, più lontani dell’ieri o dell’altroieri, in cui amavo Gilberte. Allora, d’improvviso, non vederla più mi era doloroso, come lo sarebbe stato a quell’epoca. L’io che, in me, l’aveva amata, già quasi del tutto sostituito da un altro io, risorgeva e, molto più frequentemente che una cosa importante, a restituirmelo era una cosa futile. Ad esempio – per fare un’anticipazione sul mio soggiorno in Normandia – da uno sconosciuto che incrociai sulla diga di Balbec sentii dire: «La famiglia del direttore del ministero delle Poste». Ora (dato che in quel momento ignoravo quale influenza avrebbe avuto sulla mia vita questa famiglia), un simile discorso avrei dovuto trovarlo ozioso, mentre mi provocò un’acuta sofferenza, la sofferenza che un io da tempo in gran parte abolito provava nel venir separato da Gilberte. Il fatto è che non avevo mai ripensato a una conversazione fra Gilberte e suo padre, avvenuta in mia presenza, a proposito della famiglia del “direttore del ministero delle Poste”. Ora, i ricordi d’amore non fanno eccezione rispetto alle leggi generali della memoria, a loro volta regolate dalle più generali leggi dell’abitudine. Poiché questa affievolisce tutto, quel che più ci ricorda una persona è proprio ciò che avevamo dimenticato (parendoci insignificante, gli abbiamo lasciato intatta la sua forza). Ecco perché la parte migliore della nostra memoria è fuori di noi, in un soffio piovoso, nell’odore di chiuso d’una stanza o nell’odore d’una prima fiammata, ovunque ritroviamo quanto di noi stessi la nostra intelligenza, incapace di servirsene, aveva disprezzato, l’estrema riserva del passato, la migliore, quella che, quando tutte le nostre lacrime sembrano disseccate, sa farci piangere ancora. Fuori di noi? Per essere più precisi, dentro di noi, ma sottratta ai nostri stessi sguardi, immersa in un oblìo più o meno prolungato. Solo grazie a questo oblìo possiamo, di tanto in tanto, ritrovare l’essere che siamo stati, metterci di fronte alle cose nella stessa posizione in cui era quell’essere, soffrire di nuovo, perché non siamo più noi, ma lui, e lui amava quello che oggi ci è indifferente. Alla luce piena della memoria abituale, le immagini del passato vanno a poco a poco sbiadendo, dileguano, non ne resta più nulla, non le ritroveremo più. O, meglio, non le ritroveremmo più se qualche parola (come “direttore del ministero delle Poste”) non fosse rimasta accuratamente custodita nell’oblìo, così come si deposita alla Bibliothèque Nationale un esemplare d’un libro che, altrimenti, rischierebbe di diventare introvabile.
Ma quella sofferenza e quel ritorno di fiamma dell’amore per Gilberte non durarono più a lungo di quelli che ricorrono in sogno, e stavolta, al contrario, perché a Balbec non c’era più a prolungarli l’antica Abitudine. E se gli effetti dell’Abitudine appaiono contraddittori, è per la molteplicità delle leggi cui essa obbedisce. A Parigi ero diventato sempre più indifferente nei riguardi di Gilberte grazie all’Abitudine. Il mutamento di abitudini, vale a dire la momentanea cessazione dell’Abitudine, perfezionò l’opera dell’Abitudine quando partii per Balbec. Essa indebolisce ma stabilizza, apporta la disgregazione ma la perpetua all’infinito. Ogni giorno, da anni, bene o male ricalcavo il mio stato d’animo su quello del giorno precedente. A Balbec un letto nuovo accanto al quale, la mattina, mi portavano una prima colazione diversa da quella di Parigi, non doveva più sostenere i pensieri che avevano nutrito il mio amore per Gilberte: vi sono dei casi (anche se, per la verità, piuttosto rari) in cui, dato che la vita sedentaria immobilizza le giornate, il modo migliore di guadagnare tempo è cambiare luogo. Il mio viaggio a Balbec fu come la prima sortita di un convalescente che non aspettava altro per accorgersi d’essere guarito.
Oggi quel viaggio lo si farebbe probabilmente in automobile, con l’idea di renderlo così più gradevole. Come si vedrà, fatto in quel modo esso sarebbe, in un certo senso, più vero, giacché si seguirebbero più da vicino, in un’intimità più stretta, le varie gradazioni con cui cambia la faccia della terra. Ma, in fin dei conti, il piacere specifico del viaggio non è di poter scendere lungo il percorso e fermarsi quando si è stanchi, bensì di rendere più che si possa profondo – e non già insensibile – il divario tra la partenza e l’arrivo, di sentirlo nella sua totalità, intatto, quale era dentro di noi quando la nostra immaginazione ci trasportava dal luogo in cui vivevamo fin nel cuore di un luogo desiderato, con un balzo che ci sembrava miracoloso non tanto perché colmava una distanza, quanto perché univa due distinte individualità della terra, conducendoci da un nome a un altro nome: balzo schematizzato (più che da una passeggiata in cui, per la possibilità di scendere dove si vuole, non esiste un vero e proprio arrivo) dall’operazione misteriosa che si consumava in quei luoghi speciali che sono le stazioni, le quali, sebbene in pratica non facciano corpo con la città, contengono l’essenza della sua personalità così come ne portano il nome su un cartello segnaletico.
Senonché, in ogni campo, il nostro tempo ha la mania di farci vedere le cose solo insieme a quanto le circonda nella realtà, sopprimendo con ciò l’essenziale, l’atto dello spirito che da quella realtà le ha isolate. Si “presenta” un quadro in mezzo a mobili, chincaglierie, tappezzerie della stessa epoca: scialba messa in scena in cui eccellono, nei palazzi d’oggi, le padrone di casa sino a ieri più ignoranti e ora intente a passare le giornate in archivi e biblioteche, e sul cui sfondo il capolavoro che osserviamo pranzando non ci dà certo la gioia inebriante che possiamo chiedergli solo nella sala d’un museo, la quale simboleggia mille volte meglio, con la sua nudità, con l’abdicazione a ogni elemento caratterizzante, gli spazi interiori dove l’artista s’è astratto per creare.
Purtroppo quei luoghi meravigliosi che sono le stazioni da cui si parte per destinazioni remote sono anche luoghi tragici dove, mentre si compie il miracolo grazie al quale paesi che esistevano solo nel nostro pensiero diventeranno i paesi in cui vivremo, per la stessa ragione dobbiamo rinunciare, uscendo dalla sala d’attesa, a ritrovare nell’immediato futuro la camera familiare dove ancora ci trovavamo fino a pochi minuti prima. Dobbiamo deporre ogni speranza di tornare a dormire a casa nostra, una volta che abbiamo deciso di penetrare nell’antro impestato per cui si accede al mistero, dentro una grande officina vetrata come quella – dove andai a prendere il treno per Balbec – di Saint-Lazare, che dispiegava sopra la città sventrata un cielo immenso e crudo, gravido di accatastate minacce di dramma, simile a certi cieli, d’una modernità quasi parigina, del Mantegna o del Veronese, e sotto il quale non poteva compiersi che un qualche atto terribile e solenne come una partenza in treno o l’erezione della Croce.
Finché m’ero limitato a guardare dal fondo del mio letto, a Parigi, la chiesa persiana di Balbec avvolta dai fiocchi della tempesta, il mio corpo non aveva fatto alcuna obiezione a quel viaggio. Aveva cominciato a farne solo quando aveva capito che sarebbe stato della partita e che, la sera dell’arrivo, nel momento in cui m’avessero indirizzato alla “mia” stanza, questa gli sarebbe risultata sconosciuta. La sua ribellione era tanto più profonda in quanto, proprio il giorno prima della partenza, avevo saputo che la mamma non ci avrebbe accompagnati, perché mio padre, trattenuto al ministero fino al momento di partire per la Spagna col signor di Norpois, aveva preferito affittare una casa nei dintorni di Parigi. D’altronde, la contemplazione di Balbec non mi appariva meno desiderabile per il fatto di doverla conquistare a prezzo di un male che, anzi, mi sembrava rappresentare e garantire la realtà dell’impressione di cui andavo in cerca, un’impressione certo non sostituibile con qualche spettacolo equivalente o preteso tale, qualche “panorama” di cui poter godere senza per questo perdere la possibilità di tornare a dormire nel mio letto. Non era la prima volta che avvertivo la non-identità fra chi ama e chi prova piacere. Ero convinto di desiderare Balbec non meno intensamente del medico che mi curava e che la mattina della partenza, stupito della mia aria infelice, mi disse: «State pur certo che se solo riuscissi a trovare otto giorni per andare a prendere il fresco su una spiaggia, non mi farei pregare. Andrete alle corse, alle regate, sarà magnifico». Personalmente avevo già imparato, e addirittura molto prima di sentire la Berma, che l’oggetto del mio amore, qualunque esso fosse, l’avrei raggiunto sempre e soltanto al termine di un inseguimento doloroso, nel corso del quale mi sarebbe toccato innanzitutto di sacrificare a quel bene supremo il mio piacere, anziché cercare di realizzare questo in quello.
La nonna, naturalmente, concepiva la nostra partenza in modo un po’ diverso e, desiderando come sempre che i regali a me destinati avessero una connotazione artistica, avrebbe voluto, per offrirmi di quel viaggio una “prova” almeno in parte antica, che rifacessimo – metà in treno, metà in carrozza – il percorso seguito da Madame de Sévigné quando era andata da Parigi a “L’Orient” passando per Chaulnes e “Le Pont-Audemer”. Ma era stata costretta a rinunciare a quel progetto dal divieto di mio padre, il quale, quando la nonna organizzava qualche spostamento in funzione del massimo profitto intellettuale che se ne potesse trarre, sapeva benissimo quanti treni perduti, bagagli smarriti, mal di gola e contravvenzioni si dovessero preventivare. Almeno, però, la consolava il pensiero che non correvamo il rischio, al momento di recarci alla spiaggia, d’esserne impediti dal sopraggiungere di quella che la sua diletta Sévigné chiama “una maledetta scarrozzata”, giacché a Balbec non conoscevamo nessuno, Legrandin essendosi ben guardato dall’offrirci una lettera di presentazione per la sorella. (Tale omissione non era stata ugualmente apprezzata dalle zie Céline e Victoire, le quali, avendo conosciuto da ragazza colei che fino a quel momento, per sottolineare l’antica intimità, avevano chiamato semplicemente “Renée de Cambremer”, e possedendo ancora, dell’amica, alcuni di quei regali che arredano una stanza e la conversazione ma non trovano riscontro nella realtà attuale, erano convinte di poter vendicare l’affronto fatto a noi non pronunciando mai più, in casa di Madame Legrandin madre, il nome della figlia e limitandosi poi, una volta uscite, a congratularsi reciprocamente con frasi come: «Non ho fatto nemmeno un’allusione a chi tu sai, penso che si sarà capito».)
Saremmo dunque partiti da Parigi semplicemente con quel treno dell’una e ventidue che m’ero dilettato, ricavandone ogni volta l’emozione e quasi la beata illusione della partenza, a cercare nell’orario ferroviario, troppo a lungo per non figurarmi di conoscerlo già. Poiché nella fantasia le linee d’una felicità si dispongono più secondo l’identità dei desideri ch’essa ci ispira che non sulla base delle informazioni che possediamo sul suo conto, questa ero convinto di conoscerla fin nei dettagli, e non dubitavo che nel vagone avrei provato un piacere speciale quando la giornata avesse cominciato a rinfrescare, che all’avvicinarsi di quella certa stazione avrei contemplato quel certo effetto; di modo che il treno in questione, evocandomi sempre le immagini delle stesse città, avvolte ai miei occhi nella luce delle ore pomeridiane ch’esso attraversa, mi sembrava diverso da tutti gli altri treni; e avevo finito, come si fa spesso con una creatura che non abbiamo mai vista ma della quale ci lusinga immaginare d’aver conquistato l’amicizia, con l’attribuire una particolare, immutabile fisionomia al viaggiatore dai capelli biondi e dal piglio d’artista che m’avrebbe portato con sé sulla sua strada, e al quale avrei detto addio ai piedi della cattedrale di Saint-Lô prima che s’allontanasse verso il tramonto.
Non rassegnandosi ad essere “spedita come un pacco” fino a Balbec, la nonna si sarebbe fermata ventiquattr’ore in casa di un’amica, mentre io ne sarei ripartito la sera stessa per non disturbare e anche per poter vedere, il giorno successivo, la chiesa di Balbec, che era, ci avevano detto, relativamente lontana da Balbec-Plage, tanto che forse non sarei più potuto andarci una volta cominciate le mie cure di bagni. E forse, per me, era meno doloroso concepire il mirabile oggetto del mio viaggio come antecedente a quella crudele prima notte durante la quale sarei entrato in una nuova dimora e avrei accettato di viverci. Ma, prima ancora, era stato necessario lasciare l’antica; mia madre aveva provveduto a installarsi quel giorno stesso a Saint-Cloud, e aveva preso, o finto di prendere, ogni misura per recarsi là direttamente dopo averci accompagnati alla stazione, senza dover ripassare da casa dove temeva ch’io volessi tornare con lei invece di partire per Balbec. E col pretesto di avere molto da fare nella casa appena affittata e d’essere a corto di tempo, in realtà per evitarmi la crudeltà di quel genere di addii, aveva addirittura deciso di non rimanere con noi fino alla partenza del treno, quando, dissimulata fino a quel momento in andirivieni e preparativi non inesorabili, una separazione appare bruscamente insopportabile mentre ormai, concentrata per intero in un istante smisurato di lucidità impotente e suprema, non è più possibile evitarla.
Per la prima volta sentivo che mia madre poteva vivere un’altra vita, senza di me e non per me. Andava ad abitare per conto suo con mio padre, al quale pensava forse che la mia salute cagionevole, i miei nervi, rendessero l’esistenza un po’ complicata e malinconica. Quella separazione mi rattristava ancora di più perché, mi dicevo, segnava probabilmente per mia madre la fine delle successive delusioni patite per causa mia, che mi aveva taciute e dopo le quali aveva capito la difficoltà di vacanze comuni; e anche, forse, il primo abbozzo di un’esistenza alla quale cominciava a rassegnarsi per il futuro, man mano che gli anni fossero trascorsi per mio padre e per lei, un’esistenza in cui l’avrei vista di meno e – cosa che non m’era ancora apparsa neppure negli incubi – sarebbe stata, ai miei occhi, già un po’ estranea, una signora che immaginavo nell’atto di rientrare sola in una casa nella quale io non ci sarei stato, e di chiedere al portiere se fosse arrivata qualche mia lettera.
A malapena mi riuscì di rispondere al ferroviere che volle prendermi la valigia. Mia madre saggiava, per consolarmi, i mezzi che le parevano più efficaci. Riteneva inutile far finta di non vedere la mia pena, ci scherzava sopra con dolcezza:
«Ebbene, che ne direbbe la chiesa di Balbec se sapesse che ti prepari a vederla con quest’aria afflitta? È questo il viaggiatore estasiato di cui parla Ruskin? Lo verrò a sapere, del resto, se sarai stato all’altezza della situazione, anche da lontano sarò sempre insieme al mio lupacchiotto. Domani avrai già una lettera della mamma.
– Figlia mia, disse la nonna, mi sembri Madame de Sévigné: con una carta geografica davanti, non ci perderai di vista un istante.»
Poi la mamma cercava di distrarmi, chiedeva cos’avrei ordinato per pranzo, ammirava Françoise, la complimentava per un cappello e un mantello che non riconosceva, sebbene in precedenza l’avessero fatta inorridire quando li aveva visti nuovi addosso alla prozia, il primo sormontato da un immenso uccello, il secondo sovraccarico di disegni abominevoli e di jais. Ma quest’ultimo, logorato dall’uso, Françoise l’aveva fatto rivoltare, ed esibiva ora un rovescio d’una bella tinta unita. Quanto all’uccello, s’era rotto da un pezzo ed era finito in soffitta. E come, a volte, ci si emoziona cogliendo qualche raffinatezza, di quelle cui mirano gli artisti più consapevoli, in una canzone popolare, sulla facciata di un casale rustico dove una rosa bianca o d’un giallo sulfureo sboccia sopra una porta proprio là dove ci voleva – così il nodo di velluto, il nastro intrecciato a fiocco che avrebbero mandato in visibilio in un ritratto di Chardin o di Whistler, Françoise li aveva collocati con gusto candido e infallibile sul suo cappello, rendendolo incantevole.
Volendo risalire più indietro nel tempo, poiché la modestia e l’onestà che conferivano spesso qualcosa di nobile al volto della nostra vecchia domestica si erano estese ai vestiti che, da donna riservata ma immune da meschinità, capace di “mantenere il proprio rango e stare al proprio posto”, aveva indossati per il viaggio al fine di figurare dignitosamente accanto a noi, senza però dare l’impressione di mettersi in mostra, Françoise, col panno color ciliegia seppur sbiadito del suo cappotto e il pelo non certo ruvido del suo colletto di pelliccia, faceva pensare a una di quelle immagini di Anna di Bretagna, dipinte in qualche libro d’ore da un vecchio maestro, in cui tutto è talmente a posto, il senso dell’insieme è così uniformemente diffuso in ogni dettaglio, che la ricca e desueta singolarità del costume esprime la stessa pia gravità degli occhi, delle labbra e delle mani.
Non sarebbe stato legittimo parlare di pensiero a proposito di Françoise. Non sapeva niente, nel senso totale in cui non sapere niente equivale a non capire niente, eccettuate le rare verità che il cuore è capace di attingere direttamente. Il mondo sterminato delle idee per lei non esisteva. Ma davanti alla chiarezza del suo sguardo, alle linee delicate di quel naso, di quelle labbra, davanti a tutte queste testimonianze, assenti in tante persone colte nelle quali denoterebbero la suprema distinzione, del nobile distacco d’una mente eccezionale, si rimaneva sconcertati come davanti allo sguardo buono e intelligente d’un cane cui pure sappiamo essere estranee tutte le concezioni umane, e ci si poteva chiedere se fra gli altri umili fratelli, fra i contadini, non esistano creature che sono come le persone superiori del mondo dei semplici di spirito o che, meglio, condannate da un ingiusto destino a vivere fra i semplici di spirito, sprovviste di ogni luce, e tuttavia imparentate agli esseri eletti più naturalmente, più essenzialmente della maggior parte degli uomini istruiti, sono come i membri dispersi, smarriti, privi di ragione, della santa famiglia, i parenti, bloccati all’infanzia, delle più alte intelligenze, ai quali – come traspare nel bagliore dei loro occhi, che non si può disconoscere ma non si applica a nulla – per avere talento è mancato solo il sapere.
Mia madre, vedendomi trattenere a stento le lacrime, mi diceva: «Regolo, nelle grandi occasioni, era solito... E poi, con la tua mamma, non è carino. Citiamo Madame de Sévigné, come la nonna: “Dovrò fare appello a tutto il coraggio che non hai”». E ricordando che l’affetto per gli altri distoglie dai dolori egoisti, cercava di rasserenarmi dicendosi certa che il suo tragitto fino a Saint-Cloud sarebbe andato benissimo e contenta del fiacre che aveva fatto aspettare, perché il cocchiere era gentile e la vettura comoda. Mi sforzavo di sorridere a questi dettagli e chinavo la testa in segno di consenso e di soddisfazione. Ma essi non mi aiutavano che a immaginare con maggior approssimazione alla verità la partenza della mamma, mentre la guardavo col cuore stretto come se fosse già separata da me, con quel cappellino tondo di paglia comprato per la campagna, quel vestito leggero indossato in previsione del lungo giro in pieno caldo, che la facevano apparire diversa, già parte della villa di “Montretout” dove io non l’avrei vista.
Per evitare le crisi di soffocamento cui sarei stato esposto in viaggio, il medico mi aveva consigliato di prendere, al momento della partenza, una dose un po’ generosa di birra o di cognac, in modo tale da venirmi a trovare in quello stato ch’egli definiva di “euforia”, durante il quale il sistema nervoso è momentaneamente meno vulnerabile. Non avevo ancora deciso se l’avrei fatto, ma desideravo almeno, da parte della nonna, il riconoscimento che una mia decisione in tal senso avrebbe avuto il conforto della legittimità e dell’assennatezza. Per questo ne parlavo come se la mia esitazione riguardasse soltanto il luogo dove sarei andato a bere, buffet della stazione o carrozza-bar. Ma a un tratto, vedendo che la nonna assumeva un’espressione di biasimo e non voleva nemmeno prendere in considerazione un’idea del genere: «Come!» esclamai, risolvendomi di colpo a quell’atto d’andare a bere, la cui esecuzione diveniva necessaria ad affermare la mia libertà dal momento che il suo annuncio verbale non era passato senza proteste, «sai quanto sono malato, sai cosa m’ha detto il medico, e questo è il consiglio che mi dai!».
Spiegato alla nonna il mio malessere, lei si mostrò così desolata, così buona nel rispondermi: «Ma allora, visto che ti fa bene, vai subito a cercare una birra o un liquore», che mi slanciai verso di lei per coprirla di baci. E se, nonostante tutto, andai a bere una ragguardevole dose d’alcol nel bar del treno, fu perché sentivo che, altrimenti, avrei avuto un accesso troppo forte, e questo l’avrebbe ancor più costernata. Quando, alla prima stazione, rientrai nel nostro scompartimento, dissi alla nonna com’ero felice di andare a Balbec, che tutto si sarebbe sistemato per il meglio, che in fin dei conti mi sarei presto abituato a stare lontano dalla mamma, che il treno era confortevole e il barista e i ferrovieri così simpatici che avrei voluto rifare spesso quel percorso per poterli rivedere. La nonna, però, non sembrava condividere la mia gioia per tutte queste buone notizie. Evitando di guardarmi, rispose: «Forse dovresti cercare di dormire un po’», e volse lo sguardo al finestrino sul quale avevamo abbassato la tenda, che non coprendone per intero il riquadro permetteva al sole di lambire il lucido legno di quercia della portiera e il panno del sedile (come una réclame della vita a contatto con la natura molto più persuasiva di quelle appese troppo in alto nello scompartimento, a cura della Compagnia, e raffiguranti paesaggi di cui non riuscivo a leggere il nome) con lo stesso chiarore tiepido e sonnolento della siesta nelle radure.
Ma quando la nonna credeva che avessi gli occhi chiusi, la vedevo a tratti, da sotto la sua veletta punteggiata, lanciare verso di me uno sg...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Marcel Proust
  3. All'ombra delle fanciulle in fiore
  4. Nota Introduttiva di Luciano De Maria
  5. Due postille
  6. ALL’OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORE
  7. Parte prima - Intorno a Madame Swann
  8. Parte seconda - Nomi di paesi: il paese
  9. Argomento del volume a cura di Giovanni Raboni
  10. Intorno a Madame Swann
  11. Nomi di paesi: il paese
  12. Copyright