Quando Dio è contento
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Quando Dio è contento

Il segreto della felicità

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  1. 128 pagine
  2. Italian
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Quando Dio è contento

Il segreto della felicità

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Informazioni sul libro

Tolstoj affermava che "il segreto della felicità non è di far sempre ciò che si vuole, ma di voler sempre ciò che si fa". E come lui in molti si sono chiesti quale fosse la "ricetta" per una vita felice. Ma forse una verità così profonda non si ricava da teorie o aforismi; va cercata piuttosto nel cuore di ciascuno, chiamato a vivere un'esistenza piena e feconda al di là dei miraggi (denaro e potere, sesso e apparenza) che oggi la società tende a inseguire come mete della felicità.
È il cammino interiore cui ci invita Pippo Corigliano in queste pagine, nelle quali ripercorre gli incontri e le scelte che hanno segnato la sua esperienza, in un viaggio alla scoperta delle persone davvero felici che ha incontrato: non solo i suoi "maestri", Giovanni Paolo II e Josemaría Escrivà, che gli hanno insegnato quanta gioia possa scaturire da un sentimento di affetto sincero per il prossimo, ma uomini e donne che, in famiglia e sul lavoro, sono capaci di prendersi cura di chi hanno intorno, sanno essere miti, distaccati in modo giusto dai beni materiali, "seminatori di pace". Solo chi sa davvero voler bene, infatti, può aspirare a essere felice, perché la sua felicità si rispecchia nel dono che fa di sé agli altri.
È la logica del servizio, la stessa esortazione a "entrare nel mondo dell'altro" che Gesù fa nel Vangelo attraverso la parabola del buon samaritano. Perché, in fondo, percorrere la strada della felicità significa scegliere di "vivere come Gesù": lasciandosi alle spalle l'egoismo, accettando la sofferenza, facendosi di nuovo figli piccoli del Padre. Realmente felice - ci dice in definitiva Corigliano - è chi vede nel mondo intorno a sé il compito perfetto che in esso è chiamato a svolgere, un compito d'amore.
Allora tutto assume un sapore diverso e i "momenti del cuore", gli istanti di più intensa gioia, diventano quelli condivisi con gli amici, giacché solo "quando sono aperto alla grande felicità sono capace di apprezzare appieno le piccole felicità, quelle piccole gioie alla portata di tutti che in quest'ottica, però, cambiano di valore".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852034268

III

La mia ricerca della felicità

Ed eccoci quindi alla mia esperienza personale. Forse qui c’è il rischio di essere «personalistico», di fare riferimento solo a me stesso, e spero che questo non dia troppo fastidio. È mia intenzione parlare di esperienze di vita e quale esperienza è più diretta di quella che si fa personalmente? Perciò racconterò anche della mia vita…
Da piccolo, come tutti i bambini, cercavo in modo istintivo la felicità o, più semplicemente, ciò che mi piaceva. Dapprima erano i giochi e il sorriso di mia madre, cui alle volte preferivo la dolcezza di una zia più posata e accogliente. All’età di tre anni, avevo già un gusto particolare per le musichette dell’orchestrina di soldati americani che suonava giusto sotto casa, in piazza Leonardo a Napoli. Le mie preferite erano il «buki buki» (che si scrive boogie woogie, ma per me è restato sempre «buki buki») e Lili Marlene. Quest’ultima era per me una vera passione: la cantavo spesso e addirittura mi rifiutavo di uscire se l’orchestrina non la suonava. La terza canzone della mia hit parade era Rosamunda, che interpretavo in modo trascinante al momento del ritornello: «Rosamunda tu mi fai gioir, Rosamunda tu mi fai stordir…». Ancora non riuscivo a pronunciare bene le parole e così veniva fuori un indistinto «osciamunna», ma avevo egualmente successo con gli amici di famiglia, i quali morivano dal ridere quando mi esibivo spalancando la tenda-sipario che separava il soggiorno dallo studio di mio padre. Ho scoperto più in là di non essere il solo a conservare ricordi del genere: un mio coetaneo mi ha raccontato che da bambino si esibiva pure lui in spettacoli simili, salendo su un tavolo e cantando Dove sta Zazà?.
L’altra mia attrazione era la cioccolata. Ricordo che un soldato americano mi vide mentre tiravo la mano di mia madre verso la vetrina della cioccolateria Gay-Odin e mi fece segno col dito di avvicinarmi. Mia madre non poteva vederlo, perché il soldato stava all’interno del negozio, ma il mio sguardo interessato era andato oltre il riflesso del vetro e così riuscii a gridare: «Mamma, ma fa così col dito…». Ricordo ancora la gioia per quel pacchettino verticale pieno di cioccolatini e il sorriso imbarazzato di mia madre che ringraziava. Ho un amico americano, un giornalista, che è tutto contento quando mi capita di raccontare quest’episodio e penso che abbia ragione…
Che importanza hanno, però, questi racconti infantili ormai sepolti nella mia memoria? Penso che ognuno di noi abbia un tesoro nascosto in cui affondano le radici della propria personalità. Quello per me era il periodo in cui avvertivo che l’amore di mia madre era senza limiti e, in modo diverso, anche quello di mio padre. Oggi sono un po’ preoccupato per il dilagare di tante famiglie «allargate», in cui la mamma è mamma fino a un certo punto e così il papà. Per fortuna – come dice il proverbio medievale – «la Provvidenza provvede» e ognuno ha la sua storia, la sua bella storia, unica e personale.
A me è rimasto il gusto del sentirmi a casa. Sono ammirato dalle scintillanti cucine «futuriste» che oggi si montano nelle nuove case ma sento un non so che di dolce e profondo quando entro in quelle cucine grandi d’un tempo, con mobili vecchi e imponenti che sanno di vissuto. Come la cucina della casa di mio nonno, in Calabria, dove mia zia passava tante ore facendo da mangiare per noi, incurante del caldo estivo.
La cucina è davvero il cuore della casa, forse sarebbe più corretto dire che è lo stomaco, ma per me non può che essere il cuore. Vi confido che quando qualcuno m’invita a pranzo e mi «ammette» a mangiare in cucina, mi sento accolto come un vero amico, mi sento a casa.
Ricordo che proprio in cucina, quando mia madre tritava la carne con uno di quegli apparecchi a manovella, affascinato da quella magia rotante per cui la carne entrava in pezzi grandi e usciva tritata, talvolta mi buscavo da lei un colpo in testa. Allora guardavo mia madre, quasi per chiederle se dovevo dare importanza a quel suo gesto. E mia madre sdrammatizzava ridendo e dicendomi: «Capuzzié!». Così capivo che bisognava prenderla a ridere.
Sono piccolezze ma sono i primi bagliori di felicità che ti restano dentro.
E arrivò la stagione degli amori. Amori di bambino, ovvio, ma intensissimi. Avrò avuto sei o sette anni quando i miei mi portarono con loro a casa di amici, durante una serata di gioco a carte. La coppia di amici aveva quattro figlie, ma fu la maggiore che mi «adottò». Si chiamava Margherita, credo che avesse dieci anni o poco più, quanto bastava per dedicarsi a me con gentilezza. Mi tenne occupato, mi fece vedere un libro illustrato, mi raccontò delle storie e così io rimasi affascinato. Pensavo a lei continuamente con palpitazione.
In quegli anni si cantava molto: mia sorella, di otto anni più grande di me, comprava «Il Canzoniere», un libretto periodico che riportava i testi delle canzoni più in voga. Fra queste c’era Anema e core, allora un successo recente. Ebbene, siccome la mia fiamma si chiamava Margherita, io andavo sul balcone, dove c’era una pianta di margherite, e con l’aiuto del «Canzoniere», rivolgendomi a quei fiori, cantavo Anema e core da solo, senza che nessuno sapesse e mi sentisse. Il mio amore era un segreto assoluto. Forse anche altri hanno avuto esperienze simili e tuttora provano un certo pudore nel raccontarle… Certo è che i bambini hanno una capacità di innamoramento profonda e radicale.
Un’altra seria infatuazione ci fu quando avevo nove anni. La data è precisa perché di recente due bambine di allora sono riuscite a rintracciarmi e mi hanno mandato tre fotografie con tanto di anno: 1951. Sono le fotografie di una recita in cui si metteva in scena la famosa Cantata dei pastori, nella quale io facevo la parte di san Giuseppe, mentre quelle bambine di allora interpretavano rispettivamente la Madonna e l’arcangelo Gabriele.
Alcuni particolari che ricordo potrebbero dare luogo a interpretazioni curiose e dissacranti. La bambina che faceva la parte della Madonna aveva un caratterino dispettoso e fin da allora mi rendevo conto della situazione imbarazzante: san Giuseppe che litigava con la Madonna!
Inoltre – e questo rende il tutto più piccante – io ero innamorato cotto di una delle pastorelle. Nella fotografia della scena finale ho rivisto proprio lei, la pastorella dal volto paffuto che mi aveva rapito il cuore. Ricordo che la sera, a letto, pregavo perché anche lei corrispondesse al mio amore, un amore intenso quanto inespresso e, naturalmente, segretissimo. Credo che quella bambina, di nome Maria Teresa, si fosse accorta del mio sentimento, perché un pomeriggio, dietro le quinte del teatrino – sembra proprio una commedia trasgressiva mentre invece è la rappresentazione dell’innocenza – mi prese la mano sinistra e cominciò ad accarezzarla. La mia tremenda sfortuna fu che proprio in quel periodo avessi uno sfogo sul dorso della mano, un fastidio di cui non ho mai sofferto né prima né dopo, per cui la mia pelle era particolarmente ruvida. «Che cosa hai sulla mano?» mi chiese Maria Teresa e io, intimidito, risposi: «Uno sfogo». Di colpo allora lei lasciò andare la mano, che piombò giù assieme a tutta la mia felicità. Finì lì.
Non ricordo più nulla del resto della storia se non la sensazione di rapimento totalizzante che mi aveva accompagnato in quel periodo. Poi, come accade ai bambini, tutto passò.
Avevo anche molti amici della mia stessa età. Mi è capitato di rivederli dopo tanti anni ed è incredibile come il tempo non abbia mutato nulla nel nostro rapporto. Siamo sempre quei «piccoli ometti», con la nostra personalità e la nostra intesa.
In quel periodo sbocciò anche un altro amore. Mia madre non era una cattolica praticante e nemmeno mio padre. Però entrambi ci tenevano che avessi un’educazione religiosa e mi mandarono, dai sette ai tredici anni, in una scuola tenuta dai gesuiti. Di tutto quel periodo mi è rimasta la devozione affettuosa per un quadro della Madonna che era disposto alla sinistra dell’altare, nella chiesa della scuola. Quel dipinto, che non ho più visto, mi è restato dentro, o meglio, mi è restato nel cuore un grande affetto per la Madonna.
Dopo i tredici anni smisi qualsiasi pratica religiosa e andai alla vicina scuola statale. La mia visione della vita era diventata gaudente e pagana, eccezion fatta per lo studio che era un obbligo indiscutibile. All’apparenza ero in tutto e per tutto un ragazzo superficiale e viziato come tanti altri. Mi piaceva ballare, anche perché ero andato in crociera nei Caraibi e avevo assimilato uno spiccato senso del ritmo: amavo il mambo e Harry Belafonte col suo calypso. Mi piaceva il tennis, sciare d’inverno e nuotare d’estate. Non mi ponevo problemi, né qualcuno intorno a me mi invitava a farlo. Vivevo alla giornata. Solo una volta, mentre tornavo a tutta velocità da Cervinia, seduto sul sellino posteriore di una Vespa guidata da un incosciente spericolato, mi ritrovai a dire un’Ave Maria. Nel profondo della mia coscienza era rimasta la sensazione che la Madonna mi guidasse e mi difendesse dai pericoli. Per il resto, buio assoluto.
Una volta iniziato il liceo, poi, la storia della filosofia, che avevo cominciato a studiare con passione, mi trasmetteva lo stile di un mondo intellettuale mutante, senza alcuna verità solida e definitiva.
Nel frattempo, ancora alle scuole medie, era maturata un’amicizia vera e profonda, nata in modo del tutto occasionale. In prima media, a causa di qualche bricconata che non ricordo, il professore di disegno incaricò il primo della classe, Angelo Freda, di accompagnarmi dal preside per un’esemplare punizione. Il preside in quel momento non c’era, per cui ritornammo tutti e due verso la nostra aula. Quando stavamo per entrare, però, a entrambi venne da ridere in modo irrefrenabile. La cosa, all’inizio divertente, diventò poi preoccupante: come facevamo a entrare in classe ridendo in quel modo? La situazione era a tal punto imbarazzante che ci veniva da ridere ancora di più... Finché, passato un po’ di tempo, prima che l’ora di lezione finisse, entrammo. Io, che stavo nel primo banco, mi affrettai a sedermi e misi subito le braccia conserte sul banco e la testa sopra, in modo che i sussulti delle risate sembrassero i singhiozzi di un pianto. Al mio amico, invece, non andò così liscia. Riuscì appena a dire, fra le risate soffocate: «Il preside non c’era». Il professore se ne accorse e gli disse imperioso: «Sì, ma dimmi una cosa, Freda, tu perché ridi?». Provvidenzialmente suonò la campanella e tutto finì lì, ma la nostra amicizia ormai era nata.
Con Angelo cominciammo a frequentarci e a studiare insieme, a fare gite e giochi e, mano a mano che crescevamo, parlavamo del nostro futuro e dei nostri progetti, che non corrisposero affatto a quelli che la vita ci avrebbe riservato. Ora lui vive a Piacenza e ha la bellezza di otto figli. Ci sentiamo, se va bene, una volta all’anno ma è come se ci fossimo lasciati cinque minuti prima.
È cominciata così la mia esperienza felice dell’amicizia. Un altro amico vero lo avevo in Calabria, e con lui ho condiviso le avventure e la libertà del mare e della campagna: in giardino costruimmo un forno di mattoni e argilla senza avere idea di cosa vi avremmo cotto, andavamo a pesca subacquea, pensavamo di diventare campioni di nuoto, sentivamo i discorsi dei grandi attorno alla baracchina di famiglia giù in spiaggia... Diventati più grandicelli, ci iniziavamo a chiedere come funzionasse la testa delle ragazze, cosa che per noi allora era un mistero e forse lo è tuttora.
Peppino – così si chiamava – è morto precocemente e per me è rimasto un vuoto, uno spazio del cuore dedicato a lui. Ha lasciato due ragazzi splendidi che gli somigliano in modo impressionante e che per me sono come nipoti. I piccoli miracoli dell’amicizia.
A quindici anni nacque una simpatia con una ragazza più grande di me. Lei era già una studentessa universitaria mentre io ero ancora al ginnasio: una distanza enorme.
Fu quello il primo vero impatto che ebbi con l’universo femminile. Fino ad allora, infatti, a parte alcune conoscenze e amicizie superficiali, le uniche donne della mia vita erano state mia madre, mia sorella e le mie cugine calabresi. Mi volevano tutte un gran bene, a cominciare da mia madre che, come tutte le madri, stravedeva per me.
Quella ragazza si mostrò sorprendentemente esigente nei miei confronti. Ricordo il suo rimprovero: «A te interessa lo studio, poi il tennis e poi vengo io». Un rimprovero che mi stupì perché le altre donne che ruotavano intorno a me non erano così esigenti, volevano il mio bene e nulla più.
Fu allora che cominciai a capire che un rapporto d’amore non è soltanto istintivo: occorreva pensare, richiedeva obblighi, capacità di fare progetti. Ma mentre lei parlava di matrimonio io ero un bambino (quindicenne) alto un metro e ottanta, che vedeva il matrimonio in un futuro remoto, remotissimo. Ricordo con chiarezza che, quando lei pronunciò la parola «matrimonio», per me fu una vera mazzata in testa.
Quest’esperienza mi è servita, molti anni dopo, per aiutare gli adolescenti a capire che le ragazze non vanno viste solo come esseri attraenti ma sono prima di tutto persone. Sembrerà una scoperta lapalissiana, ma non lo è. Anzi, oggi più di ieri, i ragazzi sono immaturi e si trovano impreparati nella relazione con l’altro sesso. Credono di andare incontro a una dolce favola e spesso si sorprendono che possano sorgere problemi nei rapporti interpersonali. La mia educazione sentimentale, per esempio, era quella fornita da film di Marlon Brando come Sayonara, Bulli e pupe o altri di questo genere, nei quali l’amore viene presentato come un dolce incanto che riesce a superare ogni difficoltà. Tutto finiva lì. In una relazione amorosa c’è sì l’incanto ma – e questa è stata la scoperta successiva – va accompagnato da un reale desiderio di rendere l’altro felice, prendendosene cura. L’adolescenza che si prolunga negli anni porta a essere dei «farfalloni» incapaci realmente di «sposare» una persona: ancor prima del matrimonio, infatti, una persona andrebbe «sposata», nel senso di conosciuta e accettata, per come è.
Di recente ho letto alcune lettere scritte da un tenente siciliano di ventotto anni alla sua fidanzata… di quindici anni! Le lettere sono raccolte in un libro dal titolo eloquente: «Ti prometto un viaggio felice». È ammirevole il garbo e il rispetto con cui il giovane tenente prospetta all’amata una vita insieme, anche attraverso simpatici accordi su come correggersi l’uno con l’altro quando il momento è opportuno. Le lettere cominciano nel 1941 e il loro matrimonio è durato felicemente per più di sessant’anni. Una vera lezione di educazione sentimentale.
Di seguito trascrivo la parte finale di una di queste lettere che lui, Guido, scrive a lei, Maria Antonietta. Si fa riferimento a una rispostaccia che la ragazza ha dato alla madre, a cui è seguita una leggera stretta di mano da parte di lui a mo’ di segnale. Tanta finezza di espressione può sembrare inusitata ma, oggi più che mai, è necessario fra uomo e donna lo stesso accordo per parlarsi veramente; occorrono un clima di fiducia, lealtà reciproca e delicatezza nei rapporti.
Salemi, 15 dicembre 1942
Ogni tanto mi viene in mente che tu avresti potuto dispiacerti di quella leggera stretta di mano nel momento in cui parlavi un po’ concitatamente con tua Madre. Infatti avevo già avuto il tempo di pentirmi della cosa, del resto fatta quasi automaticamente e senza riflettere…
La vera comunione di vita, così come noi vogliamo realizzarla, esige, lo abbiamo detto entrambi tante volte, la più assoluta rettitudine e sincerità di sentire. Ora se io avessi represso quel moto istintivo che tendeva a richiamare la tua attenzione, distratta da uno scatto di nervi, sul fatto che tua Madre avrebbe potuto dispiacersi della tua maniera di esprimerti, io avrei tradito me stesso, te e noi due.
Me stesso perché avrei frenato un impulso opportuno e sentito; te perché certamente non era nelle tue intenzioni dare un dispiacere a tua Madre; noi perché avrei dovuto mettere tra te e me l’ostacolo di una anche piccola ipocrisia, peraltro non giustificata da ragioni fondate. Questo però non è che un episodio che, come ti ho detto prima, mi dà lo spunto e ti faccio una domanda pregandoti profondamente di rispondermi con la stessa sincerità: ti dispiace che io, non approvando per motivi a mio avviso plausibili qualcosa, te la comunichi, s’intende nella forma dovuta?
Da parte mia, da ora, accetto tutti quei suggerimenti, consigli e ammaestramenti che tu potrai farmi a tuo criterio e mi dichiaro felice di potere darti ragione ora per allora.
Questo che io ti dico in poche parole è, in fondo, il cardine di ogni vita in comune! La base della felicità…
Una volta che si è stabilito il principio che i due soggetti si vogliono bene, un bene solido e profondo, e ammessa quindi la buona fede in ogni caso, io penso che non vi dovrebbero essere ragioni per respingere «a priori» per malinteso orgoglio o per altri sentimenti, le osservazioni che in giuste forme e con i dovuti riguardi, possono essere fatte da uno dei due…
Sei del mio parere? Ognuno di noi due deve esigere dall’altro questa sincerità e questo aiuto, disposto naturalmente ad accoglierli, non con animo sospettoso o prevenuto, ma con animo di chi pensa: se mi dice così vuol dire che così ritiene di dire per nostro vantaggio, per la nostra convenienza, per la nostra felicità.
Vorrei che mi scrivessi su questo argomento per sapere quali sono le tue idee al riguardo. Mi perdoni per questa lettera «mattone»?
Ti bacio con infinita tenerezza e ti abbraccio.
Guido
Ed ecco la risposta di lei, poco più che «ragazzina»:
Palermo, 17 dicembre 1942
Guido carissimo,
avevo un concetto molto alto di te, ma ieri sera è cresciuto smisuratamente.
Ormai noto con soddisfazione che vado acquistando coraggio nel dirti TUTTO, e anche la confidenza…
Ti volevo bene e ora te ne voglio ancora di più. Tu sarai così bravo da togliermi questo vizio dell’aggressività!
Sono sicura e convintissima di questo che ti dico, nessun’altra persona potrà mai interessarmi, perché non potrà mai essere Guido. Sento questo profondamente e sinceramente.
Ti ho offerto tutta la mia vita e non l’avrei fatto se non fossi stata convinta che per me tu sei l’amore e per una donna l’amore è il suo destino.
Ti abbraccio.
Maria Antonietta tua
Talvolta penso che i siciliani abbiano una sensibilità superiore. Non è un giudizio teorico ma un dato sperimentale, e questo dialogo per me ne è un’ennesima conferma. Dove si trovano altrove tanto calore e nello stesso tempo tanta intelligenz...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quando Dio è contento
  3. Dello stesso autore
  4. Introduzione
  5. I. Il segreto della felicità
  6. II. Persone felici
  7. III. La mia ricerca della felicità
  8. IV. La strada della felicità
  9. V. I maestri di una vita felice
  10. VI. La sofferenza
  11. VII. Percorrere la strada della felicità
  12. VIII. Le piccole felicità
  13. Conclusione
  14. Copyright