Nuovi Argomenti (49)
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Nuovi Argomenti (49)

TABÙ: Il gioco delle parole proibite

  1. 216 pagine
  2. Italian
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TABÙ: Il gioco delle parole proibite

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Informazioni sul libro

Hanno collaborato: Emanuele Trevi, Roberto Saviano, Sandro Veronesi, Melania Mazzucco, Alessandro Leogrande, Lorenzo Pavolini, Elisa Davoglio, Federica Manzon, Vincenzo Pardini, Marino Magliani, Alain Elkann, Gaia Manzini, Roberto Deidier, Raúl Brasca, Massimo Gezzi, Franco Sepe, Slavoj Zizek, Giuseppe Antonelli, Mauro F. Minervino, Carlo Mazza Galanti.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852035715
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SCRITTURE

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BROGGI

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di Vincenzo Pardini

Ventre e culatte incrostate di concime, dopo l’inverno nella stalla, Broggi venne portato in un prato, sul declivio dell’altopiano. Ci arrivò trascinandosi sulle zampe malferme, gli zoccoli che sembravano lunghe ciabatte di gomma. Sebbene nato deforme, il padrone non l’aveva venduto vitello: intendeva farlo crescere e ingrassare per smerciarlo al mattatoio. Broggi era grosso e tozzo, una bella testa come il fratello, selezionato per la monta. Anche lui avrebbe montato. Quando portavano le vacche in estro, e il padrone menava fuori il fratello, s’alzava sulle ginocchia mugghiando basso, tra affanno e lamento. Poi sfoderava il nerbo, rosso e guizzante, un lungo pugnale che esce e rientra nella guaina. Ma non gli restava che ascoltare le voci degli uomini, che elogiavano l’abilità cui il fratello infilzava la vacca di turno. Gemelli, avevano due anni. (A chiamarlo Broggi erano stati i bifolchi, in memoria di un reduce, le gambe mutilate fin quasi alle natiche nella guerra del 1915-18, che si trascinava con l’ausilio delle braccia azionandole a mo’ di remi, il corpo imbracato in un contenitore di cuoio. Una granata l’aveva falciato sul Carso. Ma lui non parlerà quasi mai di questo. Raccontava invece i suoi sogni dove, sempre, faceva lunghe corse o scalava montagne.) Proprietario del toro era Lionetto Tertoli Velotti, che intendeva disfarsene durante l’autunno.
Colono e allevatore, viveva con la vecchia madre, in una casa nel mezzo di un podere circondato da muri a secco, alla maniera di come li issavano etruschi e liguri, che da quelle parti avevano abitato. Alto, magro e di carnagione rossa, portava in capo un fazzoletto, una pezzuola, la chiamavano, annodata ai quattro angoli. Sovente aveva barba e capelli lunghi; rasato, mostrava un volto spigoloso, rubizzo e dai baffetti ispidi. Argomento delle sue conversazioni era fare soldi e divenire capitalista. Avaro fino al centesimo, non spendeva pressoché nulla di ciò che ricavava dalla vendita di bestiame, burro e formaggio. Vedova, sua madre lo aiutava e lo sosteneva. Lui, non di rado, la maltrattava, talvolta percuotendola per futili motivi. Ma lei taceva perfino con la figlia, il nipote e il genero. Entrambi, alla stregua di diversi abitanti di quelle contrade, erano stati al manicomio. Ne raccontava ancora le vessazioni subite dalle infermiere. La malmenavano e le stavano sedute perfino sulla pancia. Smarrita e depressa, una parente del marito, lo consigliò di ricoverarla allo psichiatrico, dove l’avrebbero assistita e curata. Invece finì all’inferno. La figlia, quando l’andò a trovare, stette a lungo male, e invocò il padre di riprendere la mamma. Era più che mai magra, lo sguardo nel vuoto. Piangendo, invocava di essere portata via. Lionetto non parlava mai di come si fosse trovato al manicomio. Non vi stette molto. Chi lesse la sua cartella clinica, disse che aveva un comportamento inerte, quasi autistico, salvo avere, di tanto in tanto, degli stati di eccitazione. Tornato a casa poco prima del Sessanta, altro non pensò che a lavorare. L’anno in cui portò Broggi nel pascolo non era stato, a suo avviso, molto prolifico: aveva venduto due tuorli in meno rispetto al precedente. Broggi e il fratello, nonostante il mangime che ci aveva sprecato, non erano ingrassati come avrebbe voluto. Se ne lamentava coi vicini, i quali sostenevano, ma senza dirglielo in faccia, che non sapeva tenere gli animali: lasciava poltrissero nel concime, che levava assai di rado. Le sue stalle erano spelonche buie e acide di urine: chi si affacciava alla porta scorgeva a stento l’ombra delle bestie. Broggi e il fratello stavano in quella dislocata nei pressi di un cucuzzolo. Una stalla squadrata, di pietra grigia con una porta che s’apriva a fatica, dirimpetto a un fienile. Incatenati alla mangiatoia, i due tori vedevano l’aria solo quando lui spalancava l’uscio per dargli il foraggio. Mentre mangiavano, gli toglieva il concio. Presa col secchiello l’acqua dalla cisterna, gli offriva da bere. Poi andava nella stalla vicino casa, al margine della strada di viandanti e mulattieri. Vi teneva vacche e vitelli. Di primavera, mandava la mandria al pascolo. La madre lo coadiuvava nei lavori, soprattutto nel taglio del fieno. Lavoro lungo e faticoso, che impegnava entrambi fino a estate inoltrata. Più numerosi in famiglia e disinvolti, i confinanti portavano a termine l’impresa molto prima. Non ancora in uso i decespugliatori, si procedeva con falce e frullana; compito, quest’ultimo, degli uomini. Lionetto era ritenuto un buon frullanatore: sapeva prendere un ampio raggio di terreno con pochi movimenti, recidendo molta erba. Durante il lavoro non si mostrava incline alla conversazione. Sempre che non trovasse con chi conversare dei suoi argomenti: donne, bovini e denaro. Ma, quest’ultimo, lo preferiva di gran lunga. Aver soldi, molti soldi, il sogno della vita. Ecco perché, se qualcuno si fermava a guardare le sue bestie, subito, gli chiedeva quanto le stimasse di peso. Lo faceva scrutando l’interlocutore negli occhi, con un sorriso sprezzante. Chi lo conosceva ed era esperto di bestie tergiversava o dava un giudizio di peso superiore per non finire in discussione, durante la quale si sarebbe eccitato strabuzzando gli occhi piccoli di un blu che pareva fiamma. La voce gli si alzava di tono, scandendo frasi con lentezza, che accompagnava con gesti di mano e di braccia. Gli piaceva vagliare e, se non d’accordo con l’antagonista, giungere fin quasi alla lite. Cosa sovente avvenuta coi mercanti il cui interesse era di tenere bassa la stazza della bestia. L’avrebbero pagata di meno. Con uno di questi venne a diverbio in un luogo scosceso, nei pressi di un dirupo. Trattavano la vendita di una mucca divenuta soda. Non si trovarono d’accordo e si presero a pugni. Qualcuno li divise, proprio nell’attimo in cui Lionetto stava avendo la peggio e cercava d’impugnare il coltello: altra sua passione. Lo portava in tasca, legato a una catenella; non porterà invece mai l’orologio. Ma, pochi quanto lui, sapevano indovinare l’orario dalla luce del sole.
Broggi stava volentieri all’aria di primavera. Alle spalle aveva delle rocce con frassini e eriche che gli facevano frescura nei momenti di caldo. Brucava di continuo l’erba attorno e riusciva a spostarsi in ginocchio; qualche volta fu addirittura visto alzarsi sulle zampe posteriori, i lunghi, deformi zoccoli divaricati sul terreno. Faceva qualche passo ma, come abbassava il muso per brucare, cadeva emettendo il rumore di un otre pieno d’acqua. I bambini dell’altopiano andavano a fargli visita, gettandogli manciate d’erba. Lui stava con la testa immobile e, spesso, allungando il muso emetteva un basso mugghio. Il suo saluto. Convinti che volesse dialogare, gli rivolgevano parole e complimenti. Qualcuno, più coraggioso, gli cingeva le corna con le mani raccontando quanto fossero dure e acuminate. Broggi lasciava fare. Atteggiamento raro in un maschio adulto dei bovini che, preso per le corna, reagisce sentendosi sfidato. Ne sapeva qualcosa Lionetto. Il fratello di Broggi cercava sovente di colpirlo, perfino quando lo liberava per la monta. Dopo la quale poteva accadere che, legato a una lunga fune, lo portasse a bere alla pila dell’altopiano, nei pressi di un’antica chiesetta e un circondario di pietre grigie e muscose. Una sua esibizione. Voleva mostrare il toro, che lui reputava di gran lunga migliore di quello che possedeva un altro mandriano, la cui famiglia deteneva la titolarità della stazione di monta. Lionetto, in tal senso, era abusivo. Incrostato di concime, e nero come il catrame, il toro si guardava attorno e fiutava l’aria. Poi accostava il muso alla superficie dell’acqua. La gente restava a guardare da lontano: nel caso avesse dato alle cattive Lionetto non sarebbe stato in grado di trattenerlo: affetto da una lussazione all’anca destra con accorciamento dell’arto e da ernia sovraombelicale non avrebbe resistito ai suoi strattoni. Durante l’inverno, l’animale aveva già caricato un passante proprio in quel luogo. Non riuscì a investirlo perché precipitò a terra, scivolando sulla neve ghiacciata. Minacciato di denuncia, Lionetto era stato qualche tempo senza portarlo in giro ma, con l’inizio di quell’estate, aveva ripreso. Inutili gli ammonimenti della madre: non solo non doveva portare il toro all’abbeveratoio, ma venderlo. Stessa cosa gli dicevano amici e parenti. Lui controbatteva che non aveva ancora raggiunto il peso di quattro quintali come avrebbe dovuto. Ci sarebbe arrivato a fine estate. Barba incolta, pezzuola in capo e indumenti militari, gli stivali di gomma a mezza gamba, quel giorno Lionetto riportò il toro alla stalla senza inconvenienti. A Broggi somministrò mangime e una cesta di erba e frasca. «Tieni e cerca di venire bello tondo che, d’autunno, ti faccio la festa», gli disse a voce alta. Poi gli girò alle spalle pizzicottandogli le culatte con le dita: voleva sentire se la pelle s’era tesa sopra la carne. Sarebbe stato il segno che stava ingrassando. Infatti, la pelle gli s’era riempita e il pelo gli lustrava: aria libera e cibo in abbondanza cominciavano a sortire l’effetto sperato.
Lionetto desinava a mezzogiorno. Il sole a perpendicolo sul podere.
Alto nel cielo, non molto lontano da casa, si alzava un ciliegio, carico di frutti che nessuno raccoglieva. Lui, per via dell’anca, non sarebbe riuscito a inerpicarsi fin lassù. Quelle cerage non venivano raccolte dal tempo di suo padre che, invece, s’arrampicava bene, nonostante la mole pesante. Scalzo, una fune legata alla cintura, conquistava il tronco palmo palmo. Alla fune, la moglie appendeva i canestri che, una volta pieni, lei avrebbe portato al mercato, poggiandoli sulla testa, sopra il corologlioro. Temeva molto suo marito. Irascibile, non avrebbe esitato a mollarle ceffoni si fosse ribellata a un ordine, oppure non avesse atteso al lavoro. Stesso atteggiamento lo teneva nei confronti dei figli. I quali, quando la madre finì al manicomio, vennero affidati agli zii materni, che abitavano nella parte bassa del paese, in un agglomerato di case e di capanne proprie. Il podere, la forza di quella società: chi possedeva molta terra aveva il dominio su chi ne possedeva poca e, ancora di più, su chi non ne possedeva nessuna, e viveva di mezzadria. Gli zii di Lionetto erano discreti possidenti; ognuno aveva ereditato casa e terreno, sì da poter essere autonomi. Sposata una donna molto ricca, un suo zio divenne latifondista. Non per questo fu felice. Stupida e ridicola, la moglie gli dette due figli assai minorati. Mentre lui era un uomo intelligente, che aveva studiato in seminario con ottimi risultati. E vivere con quella donna, con la quale il dialogo si esauriva nei fatti semplici e animali della vita, finì col gettarlo in uno stato di frustrazione. Cominciò a bere vino e scrivere satire contro i paesani. Per questa sua condotta finirà davanti i giudici. Ma non riuscirono a incastrarlo: a suo carico non verranno mai rilevate prove concrete. Di questo, menava gran vanto, irridendo accusatori e carabinieri.
Lionetto, quando abitò con zio e cugini, subì un’infestazione di pidocchi, e dovette raparsi la cute. Inoltre, sull’occipitale della scatola cranica gli s’era formato un gonfiore purulento. Le zie, temendo che potesse recargli danno al cervello, chiamarono il dottore, che giunse dalla mulattiera in sella all’asino, un meriggio di canicola, tra mosche e canto di cicale. La campagna era stordita da un sole che toglieva il respiro. Lionetto, piccolo e magro, la testa gonfia per il cecchio, fu di fronte al medico, in camicia bianca e sguardo lunatico. Che, osservatagli il gonfiore, chiese un paio di forbici o un ferro da calza. Gli dettero le forbici. Accostatele alla fiamma del fornello qualche attimo, le tuffò in un lavamano d’acqua. Poi, rivolto a una delle zie, le ordinò di tenere fermo il pidocchioso. In un baleno gli incise l’ascesso, facendo uscire sangue rappreso e materia. Lionetto non emise un lamento. L’insensibilità al dolore sarà una costante della sua vita. Anche quando suo padre lo percuoteva, lui non si lamentava. Una sera che mormorava considerazioni sul paiolo appeso alla catena del focolare, che la fiamma sembrava facesse muovere, il padre gli allungò...

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