Nuovi Argomenti (51)
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Nuovi Argomenti (51)

L'UMILE ITALIA: 6 paesaggi

  1. 216 pagine
  2. Italian
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L'UMILE ITALIA: 6 paesaggi

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Informazioni sul libro

Hanno collaborato: Alberto Arbasino, Raffaele Manica, Vincenzo Pardini, Elisa Ruotolo, Marino Magliani, Angelo Australi, Caterina Carone, Alessandro Zaccuri, Ernesto Aloia, Vittorio Giacopini, Flavio Santi, Blanca Varela, Antonello Borra, Vanni Pierini, Azzurra D'Agostino, Francesco Longo Carlo Mazza Galanti, Attilio Scarpellini, Graziano Dell'Anna.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852035692
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SCRITTURE

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I VIAGGIATORI

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di Alessandro Zaccuri

a Giuseppe Conte
Era l’epoca in cui al bar del Santa Isabel servivano ancora il miglior mojito dell’isola. Ci ritrovavamo lì tutte le sere e ogni volta ci stupivamo per l’abilità con cui don Attilio riusciva a centellinare il suo cocktail, facendolo durare il tempo esatto della conversazione. Non si trattava di uno stratagemma per risparmiare sul conto: don Attilio in quell’hotel ci abitava, almeno nei lunghi periodi in cui, lasciate le piantagioni, decideva di trasferirsi all’Avana. La vita del latifondista lo aveva annoiato da sempre e il tabacco, per lui, serviva unicamente ad alimentare la rendita che gli faceva da vitalizio. Gli altri possidenti non perdevano occasione per pronosticargli la catastrofe: se vai avanti così perderai tutto, dicevano, con pochi spiccioli qualcuno si prenderà le terre che la tua famiglia si è conquistata a fatica.
Si capisce che ciascuno di loro, mentre parlava, sperava di essere un giorno il fortunato speculatore. Si capiva che don Attilio lo sapeva benissimo, ma non se ne preoccupava. Veniva all’Avana, scendeva al Santa Isabel, prendeva posto in giardino sulla poltrona di vimini, ordinava il mojito e aspettava che ci unissimo a lui. La serata si sarebbe conclusa nel momento in cui don Attilio avesse bevuto l’ultima goccia dal suo bicchiere. Per questo ne ordinava soltanto uno. Era il suo modo per ribadire la supremazia su di noi. A intervalli imprevedibili offriva lui tutte le consumazioni della serata, cena compresa. Così, per ricordarci che non era, né mai sarebbe stata, questione di soldi.
Quella volta era già arrivato a metà corsa. Di solito era il momento in cui posava il bicchiere sul tavolino e lo lasciava riposare per un po’. Succedeva sempre, anche quando la conversazione non aveva ancora trovato il suo argomento e barcollava incerta da un aneddoto all’altro, indecisa tra una considerazione banale e una constatazione di cortesia. Non era il caso di quella notte di fine luglio. Lo scandalo di doña Inez, fuggita di casa con uno dei barbudos di Castro, si stava rivelando una risorsa inesauribile per merito dello stesso don Attilio, capace di ripercorrere a ritroso gli innumerevoli precedenti piccanti di cui era costellata la storia segreta di Cuba. E invece, all’improvviso, anziché prendersi una pausa, don Attilio si era sentito in dovere di tirare un’altra sorsata. Il bicchiere gli era rimasto stretto fra le dita ed era stato allora che aveva detto quella frase: «Non li ho mai capiti, i viaggiatori».
L’affermazione non era solamente incongrua rispetto alle peripezie erotiche di doña Inez, ma rischiava anche di risultare offensiva nei nostri confronti. Con l’unica eccezione di don Attilio medesimo, infatti, tutti coloro che sedevano nel giardino del Santa Isabel erano viaggiatori, tali si consideravano e da quella definizione traevano vanto. A cominciare da me, che in estate lasciavo il nostro studio notarile a Spaccanapoli per una crociera d’istruzione in Marocco, Svezia o Tasmania. L’itinerario cambiava di anno in anno, rimaneva però immutata la meta finale: Cuba, L’Avana, il giardino del Santa Isabel, le conversazioni scandite dal mojito di don Attilio.
Il vecchio Espinosa veniva da Barcellona ed era, anche lui, un giramondo convinto. Le mani tozze e le unghie squadrate ne rivelavano le origini proletarie. Nato poverissimo, in un malconcio borgo andaluso, aveva fatto fortuna grazie all’amicizia con un paio di gerarchi franchisti. Un sodalizio stretto nel pieno della guerra civile, durante la quale Espinosa si era guadagnato la fiducia dei capi con imprese destinate a rimanere inconfessate e indistinte. Quali che fossero i suoi meriti, il regime aveva stabilito di ricompensarli con un appalto in esclusiva per la manutenzione delle strade in Catalogna. Espinosa aveva impiegato gli ultimi anni della sua maturità per organizzare l’impresa, provvedendo a rappezzare di persona l’asfalto sbrecciato sulle camionabili più impervie. I suoi sei figli guardavano, imparavano il mestiere e, in capo a qualche anno, erano in grado di sostituirlo in tutto e per tutto, ma non nella contabilità, che il patriarca continuava ad amministrare su grossi quaderni a quadretti. L’azienda guadagnava bene, ma il vecchio non si era mai abbassato all’idea di una sede di rappresentanza. Si era trasferito a Barcellona perché questo era l’ordine che gli era stato impartito, aveva preso casa non lontano dalla Sagrada Familia e lì, seduto al tavolo del tinello, continuava a riempire di cifre i suoi quaderni. L’unico lusso che si concedeva era, appunto, questo dei viaggi. Si era messo in testa di visitare tutti i Paesi in cui il castigliano fosse la lingua ufficiale. Era già anziano quando aveva intrapreso il suo patriottico progetto e procedeva per tappe forzate. A Quito, per esempio, poco era mancato che l’altitudine gli provocasse un collasso. Anche per lui, dunque, L’Avana era l’ultima destinazione prima di salire sul piroscafo con cui avrebbe fatto ritorno all’appartamento ombroso di passatge de Bofill. Non si fermava mai meno di una settimana, né più di dieci giorni, rispettando il calendario su cui ci eravamo accordati l’anno precedente.
L’appuntamento riguardava anche Connolly, un irlandese di New York che, secondo le sue stesse dichiarazioni, si guadagnava da vivere scrivendo annunci pubblicitari per le riviste dell’East Coast. Ramo redditizio, garantiva, e poi c’era la comodità di darci dentro per sei mesi, guadagnare molto più del necessario e spendere la differenza in viaggi e viaggetti. Noi tutti, lì al Santa Isabel, avevamo il sospetto che le trasferte servissero a Connolly per arrotondare il bilancio, sempre che quello della réclame fosse il suo vero mestiere. Con Espinosa immaginavamo traffici in opere d’arte, mentre don Attilio era più propenso a considerare l’irlandese come un pioniere nel nascente mercato degli stupefacenti. Le etichette incollate sui suoi bagagli erano in prevalenza di origine asiatica e da quelle terre si sarebbe potuto commerciare sia in reperti khmer sia in pani di oppio. Ci tenevamo i nostri dubbi e consideravamo Connolly un gentiluomo adatto al nostro consesso, nonostante la sua propensione per i fianchi delle mulatte e, più ancora, per ogni sorta di distillato alcolico.
Era un bevitore privo di pregiudizi. L’unica regola alla quale pareva uniformarsi consisteva nel riservare la mattina alla degustazione della cerveza locale. Dal primo pomeriggio alternava con disinvoltura robusti vini rossi e dolciastre misture di rhum, intrugli rimediati nei chioschi lungo la spiaggia e calici di champagne pagati ben oltre ogni ragionevole valutazione. Durante la cena si sbizzarriva negli accostamenti più spericolati, suscitando non di rado l’espressa riprovazione del maître, la cui coscienza veniva tuttavia tacitata da metodiche donazioni in dollari. Daiquiri e Dom Perignon, bourbon e bordeaux, Guinness e cognac: al tavolo dell’irlandese arrivava di tutto e tutto sembrava che l’irlandese reggesse senza accusare il colpo. Appena prendevamo posto in giardino ordinava tre gin & tonic, li allineava davanti a sé e li sorbiva sonnacchioso, alternando i bicchieri in un suo rito inspiegabile.
Fra noi quattro era il conversatore più misurato, per quanto durante il giorno fosse capace di monologhi irrefrenabili. La sera, al contrario, lo rendeva malinconico. Sulla questione di doña Inez, in particolare, aveva asserito che la señora gli ricordava una fulva bellezza callipigia conosciuta molto tempo prima in un locale della Broadway: «Un’altra vacca dal viso d’angelo», aveva concluso prendendo un sorso dal gin & tonic posto al centro del terzetto. Non aveva aggiunto altro, né aveva reagito quando don Attilio se n’era uscito con la frase sui viaggiatori.
«Non li capite perché non c’è nulla da capire, forse», avevo provato a trarmi d’impaccio io. «Si preparano i bagagli, si parte, si arriva in un qualche posto, ci si ferma il tempo necessario per sistemare gli abiti nell’armadio di un albergo, poi si mette tutto in valigia e si parte di nuovo. Si torna a casa.»
«E il risultato quale sarebbe? Un mucchio di panni sporchi? Una giacca sgualcita?», aveva contrattaccato don Attilio. Per l’eleganza aveva un’autentica fissazione. Indossava soltanto completi di lino bianco, che riusciva a conservare immacolati anche nelle situazioni più inzaccherate. Una volta un cameriere aveva rovesciato sul nostro tavolo un’intera comanda di caffè e pasticcini. Connolly era stato raggiunto in pieno e aveva bestemmiato qualcosa a proposito del Gordon’s contaminato dall’espresso, Espinosa si era rassegnato al rigagnolo scuro che gli sgocciolava sui pantaloni, io avevo inutilmente tentato di evitare che le scarpe color corda mi si macchiassero in punta. Solo don Attilio era rimasto immobile al suo posto. Lindo come una sposa, si era limitato a tamponare con un tovagliolo l’alone che il caffè aveva lasciato attorno al suo bicchiere.
«Io viaggio per il piacere di sentir parlare la nostra bella lingua nel mondo», aveva aggiunto Espinosa con la sua sincerità rude e risentita, tamburellando ogni sillaba con l’indice sul bracciolo della poltrona.
«Ma questa è un’enormità, amico mio», aveva protestato don Attilio, però più dolcemente, come se non volesse aggiungere altra asprezza a quella già esibita dal vecchio. «Se davvero questo è il motivo, potreste restarvene a casa, a Barcellona…»
«Quelle bestie parlano català, capite? Ca-ta-là, un dialetto da carrettieri», si era definitivamente inalberato Espinosa. «In tutta la città non c’è verso di sentire pronunciare una frase come Dio comanda. Non c’è verso in tutta Barcellona, vi dico. Meglio Bogotá, allora. Molto meglio Lima o Santiago. Più di ogni altra, meglio L’Avana».
Lo spagnolo aveva alzato il suo Torres accennando un brindisi. Era un modo per far intendere che la questione si poteva considerare chiusa. Avevamo risposto con un tocco simbolico, rassicurante, ai nostri bicchieri. Perfino Connolly aveva sfiorato il gin & tonic di destra, in segno di amichevole distensione. Nonostante la tregua, don Attilio non si era dato per vinto. Nella concitazione che l’argomento suscitava in lui era perfino tornato a bere, cosicché del mojito restava ormai un dito scarso.
«Non avete mai immaginato», aveva ripreso, «che cosa accadrebbe se tutti nel mondo fossero viaggiatori? Provate a pensarci, su. Non basterebbero le stazioni, i porti sarebbero talmente trafficati che a stento le navi riuscirebbero a salpare, il cielo si oscurerebbe per via degli aeroplani sempre in volo. Un manicomio, un manicomio di case disabitate, un cronicario di alberghi a corto di stanze, un caos di valigie smarrite, una geenna di bagagli scambiati. Tutti vivremmo come nomadi, profughi e sfollati. E che cosa si andrebbe a vedere, poi? Altra gente che viaggia, altri sbandati in caccia di un giaciglio per la notte. Nessuno saprebbe più spiegarti perché la tal chiesa si chiama in quel modo o chi è il tizio a cui è dedicato il monumento giù in piazza. Nessuno conoscerebbe più la propria lingua, Espinosa, tutti parlerebbero un esperanto delirante, impuro, da farvi rimpiangere il catalano. Il Baedeker sarebbe la nuova Bibbia, la sacra scrittura universale di questo popolo senza terra né idioma. Una follia benedetta soltanto dall’agenzia Cook, che tuttavia, per coerenza, dovrebbe diventare una compagnia itinerante, un Barnum del Grand Tour. Noi tutti diventeremmo le loro scimmie ammaestrate, i loro cavalli lipizzani, i leoni rinchiusi nella loro gabbia infinita.»
Al tavolo l’imbarazzo era ormai evidente. Connolly si sciacquava la bocca con una dose attinta dal bicchiere alla sua sinistra. Espinosa mi guardava con l’ingenua aspettativa che un uomo intelligente e incolto può riservare a una persona istruita. Io, per parte mia, avrei voluto dirgli che ci sono, neg...

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