L'ex avvocato
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L'ex avvocato

  1. 372 pagine
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L'ex avvocato

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Chi è Malcolm Bannister? E cosa ha a che fare con la morte del giudice Fawcett? Quando un lunedì mattina il giudice non si presenta a un processo, i suoi collaboratori, preoccupati, chiamano l'FBI. Il corpo viene ritrovato nel seminterrato del suo cottage sul lago insieme a quello della giovane segretaria. La cassaforte aperta e svuotata. Nessuna impronta, nessun segno di scasso né di colluttazione, tranne piccole bruciature sul cadavere della donna.
Solo Malcolm Bannister sa chi è stato e cosa è realmente successo. Apprezzato avvocato di colore, anzi, ex avvocato radiato dall'albo della Virginia perché coinvolto in una vicenda di riciclaggio di denaro, è attualmente detenuto nel Federal Prison Camp, nel Maryland, dove dispensa consigli legali ai compagni. Ha già scontato metà della sua condanna, ma vuole a tutti i costi uscire il prima possibile, e ora sa come fare: la sua libertà in cambio del nome del colpevole. Non avendo alcuna pista da seguire, l'FBI è interessato ad ascoltare le sue rivelazioni, anche perché Bannister sembra essere informato su molte altre cose, per esempio sul contenuto della cassaforte.
Ma tutto ha un prezzo, soprattutto notizie così scottanti come quelle relative agli eventi che hanno portato alla morte del giudice Fawcett. Bannister è deciso a giocare le sue carte fino in fondo, e non è certo nato ieri. Ma niente è come sembra: i ruoli si capovolgono, gli scenari si alternano, in una sfida in cui ogni mossa è studiata nel minimo dettaglio. Come è stato ben definito dal "New York Times", L'ex avvocato è un romanzo trascinante, sorprendente e ingegnoso che appassiona il lettore fino all'ultimo colpo di scena confermando John Grisham grande scrittore e maestro indiscusso del legal thriller.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852032707

1

Sono un avvocato, e sono in prigione. È una lunga storia.
Ho quarantatré anni e ho già scontato metà dei dieci che mi sono stati comminati da un incapace e ipocrita giudice federale di Washington, DC. Tutti gli appelli hanno fatto il loro corso e nel mio arsenale legale, ormai esaurito, non restano altri strumenti, procedure, oscuri cavilli, tecnicismi, scappatoie o Ave Maria da utilizzare. Non ho più niente. Dato che conosco la legge, potrei fare quello che fanno alcuni detenuti, e cioè intasare i tribunali con valanghe di mozioni, istanze e altre inutili carte, senza che tutto questo giovi alla mia causa. Niente gioverà alla mia causa. La realtà è che non ho speranze di uscire da qui per altri cinque anni, meno forse qualche pidocchiosa settimana che alla fine potrebbe essermi condonata per buona condotta. E la mia condotta è sempre stata esemplare.
Non dovrei definirmi un avvocato perché tecnicamente non lo sono più. L’ordine degli avvocati della Virginia mi è piombato addosso e mi ha tolto la licenza poco dopo la sentenza. La regola è chiara, scritta nero su bianco: una condanna penale equivale alla radiazione dall’albo. Mi hanno tolto la licenza e le mie traversie disciplinari sono state debitamente riportate sul “Virginia Lawyer Register”. Siamo stati radiati in tre quel mese, più o meno la media standard.
Comunque, nel mio piccolo mondo sono noto come avvocato da galera e, in quanto tale, passo parecchie ore al giorno cercando di aiutare i miei compagni a risolvere i loro problemi legali. Studio appelli e inoltro istanze. Redigo semplici testamenti e, ogni tanto, un atto di compravendita immobiliare. Rivedo contratti per qualche colletto bianco. Ho citato in giudizio il governo in occasione di ricorsi motivati, però mai per motivi che considero infondati. E poi tratto un mucchio di divorzi.
Otto mesi e sei giorni dopo l’inizio della mia reclusione, ho ricevuto una busta voluminosa. I detenuti aspettano con ansia la posta, ma quello era un plico del quale avrei volentieri fatto a meno. Proveniva da uno studio legale di Fairfax, Virginia, che rappresentava mia moglie, la quale – sorpresa – voleva il divorzio. Nel giro di poche settimane, da sposa solidale e pronta ad aspettarmi, Dionne si era trasformata in vittima che voleva disperatamente chiamarsi fuori. Non potevo crederci. Ho letto i documenti in uno stato di shock assoluto, con le ginocchia molli e gli occhi colmi di lacrime, e nell’attimo stesso in cui ho temuto di cominciare a piangere sono rientrato in fretta nella mia cella. Si piange molto in prigione, ma sono sempre lacrime nascoste.
Quando ho lasciato la mia casa, Bo aveva sei anni. È il nostro unico figlio, ma mia moglie e io avevamo in programma di averne altri. Il conto è facile e io l’ho fatto migliaia di volte: quando uscirò, Bo avrà sedici anni, sarà un giovane adulto e io mi sarò perso dieci degli anni più preziosi che padre e figlio possano condividere. Fino ai dodici anni circa, i ragazzini adorano il padre e sono convinti che sia infallibile. Allenavo Bo a T-ball e a calcio, e lui mi seguiva ovunque come un cagnolino. Andavamo insieme a pesca e in campeggio, e ogni tanto il sabato mattina veniva in studio con me, dopo una colazione “solo-noi-uomini”. Bo era tutto il mio mondo, e spiegargli che sarei rimasto lontano da casa per molto tempo ha spezzato il cuore a entrambi.
Una volta dietro le sbarre, non ho mai permesso che venisse a trovarmi. Per quanto desideri abbracciarlo, non sopporto l’idea di un bambino che vede il proprio padre in galera.
È virtualmente impossibile opporsi a un divorzio, se sei in prigione e non uscirai tanto presto. Tutti i nostri beni, che tanto per cominciare non sono mai stati un granché, si erano esauriti dopo un martellamento durato diciotto mesi da parte del governo federale. Avevamo perso tutto, a parte nostro figlio e il nostro impegno reciproco. Il figlio è stato una roccia, l’impegno è finito nella polvere. Dionne mi aveva fatto qualche bella promessa riguardante il tenere duro e superare insieme le avversità, ma una volta che sono finito dentro, la realtà ha avuto il sopravvento. Dionne si è sentita sola e isolata nella nostra piccola città. “La gente mi guarda e mormora” mi aveva scritto in una delle sue prime lettere. “Mi sento così sola” si lamentava in un’altra. Non è passato molto tempo prima che le lettere diventassero notevolmente più brevi e più distanziate nel tempo. Così come le sue visite.
Dionne è cresciuta a Philadelphia e non si è mai adattata volentieri alla vita in campagna. E quando un suo zio le ha offerto un lavoro, ha avuto all’improvviso una gran fretta di tornarsene a casa. Si è risposata due anni fa e Bo, che adesso ha undici anni, viene allenato da un altro padre. Le ultime venti lettere che ho scritto a mio figlio sono rimaste senza risposta. Sono sicuro che Bo non le ha mai lette.
Mi chiedo spesso se lo rivedrò. Penso che farò un tentativo, anche se sono molto dubbioso. Come affronti un ragazzino che ami così tanto da starci male, ma che non ti riconoscerà neppure? Non vivremo mai più il tipico rapporto padre/figlio. Sarebbe giusto nei confronti di Bo che suo padre, scomparso tanto tempo prima, ricomparisse di colpo e insistesse per rientrare nella sua vita?
Ho fin troppo tempo per riflettere su tutto questo.
Sono il detenuto numero 44861-127 del Federal Prison Camp nei pressi di Frostburg, Maryland. Un “campo” è un carcere di bassa sicurezza per quelli di noi che vengono ritenuti non troppo violenti e devono scontare una condanna non superiore ai dieci anni. Per ragioni che non mi sono mai state spiegate, ho trascorso i miei primi ventidue mesi in una struttura di media sicurezza vicino a Louisville, Kentucky. Nell’infinita serie di sigle della burocrazia, quel carcere è classificato come FCI – Federal Correctional Institution – ed è un posto molto diverso dal mio campo di Frostburg. Un FCI è riservato a soggetti violenti con condanne superiori ai dieci anni. La vita là è molto più dura, anche se io sono riuscito a sopravvivere senza subire aggressioni fisiche. Il fatto di essere un ex marine mi è stato di enorme aiuto.
Nel contesto carcerario, un campo è considerato un luogo di villeggiatura. Non esistono muri di cinta, recinzioni, filo spinato o torrette di guardia. Ci sono solo alcuni agenti armati. Frostburg è relativamente nuovo e i suoi edifici sono più belli della maggior parte dei licei statali. E perché no? Negli Stati Uniti spendiamo quarantamila dollari per mantenere ogni detenuto e ottomila per l’istruzione di ogni alunno delle elementari. Qui a Frostburg abbiamo consulenti, dirigenti, assistenti sociali, infermiere, segretarie, collaboratori di vario tipo e decine di impiegati amministrativi, e sarebbero tutti in seria difficoltà se dovessero spiegare come riescono a riempire otto ore al giorno. Ma, dopo tutto, questo è il governo federale. Il parcheggio riservato ai dipendenti vicino all’ingresso principale è pieno di belle auto e costosi pickup.
Siamo circa seicento detenuti qui a Frostburg e, con poche eccezioni, costituiamo un gruppo tranquillo. Quelli con un passato violento hanno imparato la lezione e apprezzano l’ambiente civilizzato. Coloro che hanno trascorso la vita in galera hanno finalmente trovato una casa. Molti di questi professionisti del carcere non hanno alcuna voglia di andarsene. Ormai completamente istituzionalizzati, non sono in grado di funzionare nel mondo esterno. Un letto caldo, tre pasti al giorno, cure mediche gratuite… come potrebbero avere altrettanto là fuori, sulla strada?
Non sto dicendo che questo sia un posto gradevole. Non lo è. Ci sono uomini che, come me, non avrebbero mai immaginato di finire così, un giorno. Uomini con professioni, carriere, affari; uomini benestanti con una bella famiglia e la tessera del country club. Della mia Gang Bianca fanno parte Carl, un optometrista che ha manipolato un po’ troppo le sue fatture a Medicare; Kermit, uno speculatore immobiliare che ha dato in garanzia due o anche tre volte le stesse proprietà a varie banche; Wesley, un ex senatore della Pennsylvania che ha accettato una bustarella, e Mark, un referente prestiti ipotecari di provincia che ha preso qualche scorciatoia di troppo.
Carl, Kermit, Wesley e Mark. Bianchi, età media cinquantun anni. Tutti ammettono la loro colpevolezza.
Poi ci sono io. Malcolm Bannister, nero, quarantatré anni, condannato per un reato che non sapevo di commettere.
Si dà il caso che in questo momento io sia l’unico nero a Frostburg che sta scontando una pena per un reato da colletto bianco. Una bella distinzione.
I requisiti per l’ammissione alla mia Gang Nera non sono definiti con altrettanta chiarezza. Per la maggior parte si tratta di ragazzi provenienti dalle strade di Washington e di Baltimora, arrestati per reati connessi alla droga. Quando escono in libertà vigilata, le loro possibilità di evitare un’altra condanna sono pari al venti per cento. Privi di istruzione, senza alcuna qualifica professionale e con la fedina penale sporca, come si suppone che possano cavarsela?
In realtà non ci sono gang in un campo federale, e non c’è nemmeno violenza. Se ti azzuffi con qualcuno, o lo minacci, ti sbattono fuori a calci e ti spediscono in un posto di gran lunga peggiore. Ci sono moltissimi litigi, soprattutto a causa della televisione, ma devo ancora veder volare un pugno. Alcuni dei miei compagni sono stati in carceri di Stato e le storie che raccontano sono orripilanti. Nessuno vuole scambiare questo posto con un’altra struttura.
Perciò ci comportiamo tutti bene e contiamo i giorni. Per i colletti bianchi la punizione è costituita dall’umiliazione e dalla perdita di status, posizione e stile di vita. Per i neri la vita nel campo è più sicura di quella da cui vengono e alla quale torneranno. La loro punizione è costituita da un’altra tacca nella loro fedina penale, da un altro passo nella trasformazione in criminale di carriera.
A causa di tutto questo, mi sento più bianco che nero.
Ci sono altri due ex avvocati qui a Frostburg. Ron Napoli è stato per molti anni un esuberante penalista di Philadelphia, poi però la cocaina l’ha rovinato. Era specializzato nella normativa relativa agli stupefacenti e ha rappresentato parecchi dei massimi spacciatori e trafficanti degli Stati del medio Atlantico, dal New Jersey alle Caroline. Gli piaceva farsi pagare sia in contanti che in coca, e alla fine ha perso tutto. Il fisco l’ha inchiodato per evasione e Napoli adesso è circa a metà della sua condanna a nove anni. In questi giorni non se la passa molto bene. Sembra depresso e non vuole, per nessun motivo, fare esercizio fisico e cercare di prendersi cura di sé. Sta diventando sempre più grasso, più indolente, più irritabile e più malato. Era solito raccontare storie affascinanti sui suoi clienti e sulle loro avventure nel narcotraffico, ma adesso si limita a starsene seduto in cortile, mangiando un sacchetto di Fritos dopo l’altro con espressione smarrita. C’è qualcuno che gli manda dei soldi, e lui li spende soprattutto in cibo spazzatura.
Il terzo ex avvocato è uno squalo di Washington che si chiama Amos Kapp, insider di lungo corso ed equivoco intrallazzatore che si è costruito una solida carriera operando ai margini di ogni grosso scandalo politico. Kapp e io siamo stati processati insieme, giudicati colpevoli insieme e condannati a dieci anni dallo stesso giudice. Eravamo otto imputati: sette di Washington più io. Kapp è sempre stato colpevole di qualcosa, ed era sicuramente colpevole agli occhi della giuria. Lui però sapeva allora, e sa anche adesso, che io non ho mai avuto niente a che fare con la cospirazione, ma era troppo codardo e troppo delinquente per dichiarare qualcosa in merito. A Frostburg la violenza è rigorosamente bandita, ma datemi cinque minuti da solo con Amos Kapp e quell’uomo si ritroverà con il collo spezzato. Lui ne è consapevole, e sospetto che l’abbia detto al direttore del carcere molto tempo fa. Lo tengono nel campus ovest, quanto più lontano possibile dal mio territorio.
Dei tre avvocati, io sono l’unico disposto ad aiutare gli altri detenuti per quanto riguarda i loro problemi legali. È un lavoro che mi piace. Rappresenta una sfida e mi tiene occupato. Serve anche a mantenere in allenamento le mie capacità, anche se dubito di avere un grande futuro come avvocato. Quando uscirò potrò presentare domanda per essere riammesso all’ordine, ma è una procedura lunga e difficile. La verità è che non ho mai fatto molti soldi. Ero un legale di provincia, oltretutto nero, ed erano pochi i clienti che potevano pagarmi una parcella decente. C’erano decine di altri avvocati ammassati lungo Braddock Street, e tutti lottavano per accaparrarsi gli stessi clienti; la concorrenza era dura. Non so bene cosa farò quando questa storia avrà fine, ma dubito seriamente di dedicarmi di nuovo alla carriera legale. A quell’epoca sarò un quarantottenne single e, spero, in buona salute.
Cinque anni sono un’eternità. Ogni giorno faccio una lunga passeggiata, da solo, sulla pista da jogging in terra battuta che sfiora i bordi del campo e ne segue il confine, o “linea”, come viene comunemente chiamata. Supera la linea e sei considerato un evaso. Nonostante ospiti una prigione, questa campagna è molto bella e offre panorami spettacolari. Ogni volta che cammino e guardo le colline in lontananza, devo lottare contro l’impulso di proseguire, di andare oltre quella linea. Non c’è una recinzione che possa bloccarmi, nessuna guardia che possa strillare il mio nome. Potrei svanire nella fitta boscaglia e scomparire per sempre.
Vorrei che ci fosse una barriera, un muro di solidi mattoni alto tre metri sormontato da spirali di luccicante e tagliente filo spinato, un muro che mi impedisca di guardare le colline e di sognare la libertà. Questa è una prigione, maledizione! Non è permesso andarsene. Tirate su un muro e smettetela di solleticarci.
La tentazione è sempre presente e, per quanto io la combatta, giuro che giorno dopo giorno diventa sempre più forte.

2

Frostburg si trova qualche chilometro a ovest di Cumberland, Maryland, al centro di una fetta di territorio schiacciata dalla Pennsylvania a nord e dal West Virginia a ovest e a sud. Se si osserva una carta geografica, salta subito all’occhio che questa esiliata parte dello Stato è la risultanza di un pessimo rilievo topografico e non dovrebbe affatto appartenere al Maryland, anche se non è chiaro a chi dovrebbe spettare. Io lavoro in biblioteca e sulla parete sopra la mia piccola scrivania c’è una grande carta dell’America. Passo fin troppo tempo a studiarla, sognando a occhi aperti e chiedendomi come ho fatto a diventare un detenuto federale in una zona remota dell’estremo ovest del Maryland.
Circa novanta chilometri a sud di Frostburg c’è Winchester, Virginia, cittadina di venticinquemila abitanti e mio luogo di nascita, infanzia, scuole, carriera e, alla fine, Caduta. Mi dicono che è cambiato ben poco da quando me ne sono andato. Lo studio legale Copeland & Reed continua la sua attività negli stessi locali con vetrina sulla strada dove un tempo ho lavorato anch’io. Si trova in Braddock Street, nella città vecchia, di fianco a una tavola calda. Il nome, dipinto a caratteri neri sulla vetrata, una volta era Copeland, Reed & Bannister, ed era l’unico studio legale totalmente nero nel raggio di centocinquanta chilometri. Pare che Mr Copeland e Mr Reed se la stiano cavando bene, di certo non prosperano né stanno diventando ricchi, ma hanno abbastanza lavoro per poter pagare le due segretarie e l’affitto. È più o meno quello che facevamo quando ero socio anch’io: riuscivamo a tirare avanti. All’epoca della Caduta avevo già seri ripensamenti sulle mie possibilità di sopravvivenza in una cittadina così piccola.
Ho saputo anche che Mr Copeland e Mr Reed si rifiutano di parlare di me e dei miei guai. Hanno evitato per un soffio di essere incriminati anche loro e di vedere la loro reputazione macchiata. Il procuratore federale che mi ha inchiodato sparava cannonate contro chiunque fosse anche solo lontanamente collegato alla sua grandiosa cospirazione e ha quasi spazzato via l’intero studio legale.
Il mio crimine è stato accettare il cliente sbagliato. I miei due ex soci non hanno mai commesso alcun reato. Ciò che è successo mi dispiace per molti motivi, ma la macchia sul loro buon nome continua a tenermi sveglio la notte. Sono entrambi prossimi ai settant’anni e all’inizio della professione hanno dovuto vedersela non solo con la sfida di tenere a galla uno studio legale generico in una piccola città, ma hanno anche dovuto combattere alcune delle ultime battaglie ai tempi delle leggi Jim Crow. In aula a volte i giudici li ignoravano e deliberavano contro di loro senza alcun valido motivo legale. I colleghi erano spesso scortesi e poco professionali. L’associazione degli avvocati della contea non sollecitava la loro iscrizione. Ogni tanto gli impiegati del tribunale smarrivano le loro pratiche. Le giurie bianche non credevano a quello che dicevano. E, ancora p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’ex avvocato
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Capitolo 11
  15. Capitolo 12
  16. Capitolo 13
  17. Capitolo 14
  18. Capitolo 15
  19. Capitolo 16
  20. Capitolo 17
  21. Capitolo 18
  22. Capitolo 19
  23. Capitolo 20
  24. Capitolo 21
  25. Capitolo 22
  26. Capitolo 23
  27. Capitolo 24
  28. Capitolo 25
  29. Capitolo 26
  30. Capitolo 27
  31. Capitolo 28
  32. Capitolo 29
  33. Capitolo 30
  34. Capitolo 31
  35. Capitolo 32
  36. Capitolo 33
  37. Capitolo 34
  38. Capitolo 35
  39. Capitolo 36
  40. Capitolo 37
  41. Capitolo 38
  42. Capitolo 39
  43. Capitolo 40
  44. Capitolo 41
  45. Capitolo 42
  46. Capitolo 43
  47. Capitolo 44
  48. NOTA DELL’AUTORE
  49. Copyright