Manifesto animalista
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  1. 200 pagine
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"A ogni capitolo di questo libro corrisponde un punto del nostro programma politico e culturale: abolire la vivisezione, riconoscere agli animali lo status di esseri senzienti, portatori di diritti, e punire più severamente maltrattamento e abbandono, combattere a fondo il randagismo, rivendicare la nostra libertà di convivere serenamente con gli animali, vietare l'allevamento e l'uccisione di animali per produrre pellicce, abolire zoo e spettacoli con animali, abolire palii e sagre che comportano lo sfruttamento di animali, abolire gli allevamenti intensivi e promuovere una cultura vegetariana, abolire la caccia, difendere il pianeta e impegnarsi, a partire dai piccoli gesti della vita quotidiana, per uno sviluppo sostenibile.
Il compito è grande e faticoso. Ma siamo in tanti e ben motivati. L'uomo deve fare pace con la Terra e con tutti gli esseri viventi che la abitano. Solo così avrà un futuro. Scrive la scienziata indiana Vandana Shiva: "Possiamo continuare a camminare come sonnambuli verso l'estinzione o possiamo divenire consapevoli delle nostre potenzialità e di quelle del pianeta". Difendere l'ambiente, tutelare i diritti degli animali, favorire stili di vita più sostenibili vuol dire scrivere i primi articoli di un nuovo trattato di pace tra gli uomini e la Terra. Scriviamolo insieme."
Michela Vittoria BrambillaL'autrice destinerà i diritti d¿autore derivanti dalle vendite dei libro per aiutare gli animali in difficoltà.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852032509

1

Green Hill, la collina della vergogna

La vivisezione deve essere abolita

Molti scienziati dissentono quando gli esperimenti che effettuano sugli animali vengono definiti “vivisezione”. Considerano questa parola, con il suo riferimento etimologico, troppo evocativa e non più adeguata. Io credo invece che vi sia continuità tra la vecchia fisiologia ottocentesca “squartatrice” e le pratiche dei ricercatori di oggi. L’una e le altre, infatti, hanno come premessa essenziale la degradazione dell’animale a mero strumento inanimato, da utilizzare per i più svariati scopi, come si usa il cucchiaio per mangiare o la penna per scrivere. Perciò trovo assolutamente legittimo l’uso del termine “vivisezione” e per nulla tramontate o inattuali, su questa materia, osservazioni e considerazioni formulate da molto tempo. Pochi ricordano, per esempio, quale strenuo avversario della vivisezione fu Richard Wagner. Mentre attendeva alla composizione di Parsifal, lesse l’opuscolo di Ernest von Weber Le camere di tortura della scienza – l’equivalente ottocentesco dell’Imperatrice nuda di Hans Ruesch – e ne rimase così impressionato da rispondergli con una Lettera aperta (1879), nella quale condannava senza appello il punto di vista utilitaristico e promuoveva, sulla base della filosofia di Arthur Schopenhauer, un’etica “integrale” della compassione (Mitleid): “L’uomo si distingue dall’animale in virtù della compassione verso l’animale stesso”. Alla terribile domanda se il prezzo del progresso scientifico debba essere la rinuncia al senso morale, o anche solo il suo indebolimento, il compositore rispondeva con un secco “no”. Un’opinione che anticipa le riflessioni dei movimenti animalisti contemporanei ed è ancora oggi condivisa da moltissime persone, me compresa.
La ragione fondamentale per cui mi oppongo alla vivisezione è che, in linea di principio, il fine non giustifica i mezzi. Ma questi mezzi sono davvero indispensabili al raggiungimento del fine? Recentemente, la Food Standards Agency del Regno Unito ha annunciato di aver completamente rimpiazzato il test, doloroso e spesso fatale, che veniva condotto sui topi per identificare i contaminanti tossici nei molluschi e nei crostacei, iniettando nel loro addome estratti delle partite da controllare. Il metodo sostitutivo, chiamato cromatografia liquida-spettrometria di massa (LC-MS), che misura l’effettiva quantità della tossina presente nei molluschi, è scientificamente superiore, molto meno costoso e renderà inutile il sacrificio di centinaia di migliaia di topi. È solo un esempio, e riguarda un animale che normalmente non suscita particolare empatia. Se non fosse stato per le insistenze delle associazioni animaliste, forse l’Unione europea non avrebbe neppure messo al bando il vecchio esperimento. Quanti sono i casi del genere? Quante volte abusiamo degli animali in nome di una scienza pigra e “interessata”, cristallizzata in norme superate che, difendendo anacronisticamente la vivisezione, pare volere relegare l’Europa nelle retrovie del progresso scientifico?
La seconda ragione per cui mi oppongo alla vivisezione è proprio perché la parte più avanzata del mondo scientifico la ritiene inutile e perfino dannosa per l’uomo e offre numerosi studi a sostegno di questa tesi. Mi limito, per brevità, a trascrivere le considerazioni del tossicologo francese Claude Reiss, che è direttore di ricerca presso il Consiglio nazionale per la ricerca francese (CNRS): “Il fatto che qualunque specie non rappresenti un modello affidabile per le altre è una questione di buon senso, ma può essere anche provata rigorosamente. Una specie è, infatti, definita dal suo isolamento riproduttivo: un gatto non può incrociarsi con un cane, né un cavallo con una mucca. Questo perché l’informazione genetica di ogni specie, depositata nei suoi cromosomi, è strettamente specie-specifica e non può essere complementare a quella di nessun’altra. Se, per esempio, un individuo di una specie ‘modello’ (come un ratto) è esposto a una sostanza chimica o affetto da una malattia, reagirà accendendo o spegnendo certi suoi geni. Un’altra specie (come l’uomo) risponderà, invece, al medesimo stress attivando o inibendo geni differenti da quelli del ratto... Affermare che gli animali sono ‘modelli per le malattie umane o per le valutazioni di tossicità’ è una pura mistificazione. La sperimentazione animale non solo è superflua, ma fornisce false credenze, dannose per la salute umana”.
Il 15 maggio 2012, durante un seminario al Parlamento europeo, è stato presentato il progetto “Human Toxome”, coordinato da Thomas Hartung della Johns Hopkins University. Anch’esso parte dall’assunto che testare sostanze chimiche sugli animali non ci aiuta a comprendere il loro impatto sulla nostra salute. Negli ultimi vent’anni, come attestano numerose pubblicazioni su prestigiosissime riviste specializzate, sono stati fatti progressi enormi per validare metodi alternativi. Per questo la National Academy of Science degli Stati Uniti ha avviato nel 2007 il programma “Toxicity-21 century”: utilizzando la biologia molecolare, la biotecnologia e la robotica, sarà possibile testare più velocemente, con spesa minore e in modo più adeguato, le decine di migliaia di sostanze chimiche presenti sul mercato e le nuove sintesi attraverso la progressiva sostituzione dei test in vivo con quelli in vitro, cioè su cellule umane coltivate in laboratorio, e in silico, ossia le simulazioni fatte al computer. Negli Stati Uniti, l’Istituto nazionale della salute pubblica, la Food and Drug Administration e un gruppo di privati che comprende multinazionali della chimica e della farmaceutica, istituti di ricerca e organizzazioni no profit, stanno investendo milioni di dollari sul team guidato dal professor Hartung (basato negli Stati Uniti, a Baltimora, e in Germania, a Costanza) per superare definitivamente i costosi e antiquati test sugli animali. La Humane Society International calcola, allo scopo di consolidare l’approccio in vitro, che sarebbe necessario investire 100.000.000 di dollari l’anno, per dieci anni. Può sembrare una cifra enorme, ma non lo è se si considera che la valutazione con metodi tradizionali dei rischi associati a un solo pesticida può costare oltre 10.000.000 di dollari e cinque anni di lavoro all’azienda e più di 1.000.000 di dollari all’agenzia governativa di monitoraggio. Troppo, anche per un’industria che di solito non bada a spese, consapevole dell’entità dei possibili profitti.
Equivita, comitato che unisce e coordina medici contrari alla sperimentazione animale, fornisce numeri “parlanti”. Il 92 per cento dei farmaci che risultano innocui sugli animali è poi scartato durante le prove cliniche sull’uomo (dati che provengono dall’archivio PubMed, Gran Bretagna). Secondo Ralph Heywood, ex direttore del centro di ricerca Huntington Life Sciences, la percentuale di coincidenza tra le reazioni dell’animale e quelle dell’uomo è compresa tra il 5 e il 25 per cento. L’82 per cento è invece la quota di medici inglesi preoccupati per i danni prodotti dalla sperimentazione animale (studio di TNS Healthcare). Se andiamo poi a vedere di quanto differiscono le risposte dei test eseguiti sui topi rispetto a quelle fornite dai ratti, loro stretti parenti, il dato è del 60 per cento. Figuriamoci la differenza, con buona pace di Steinbeck, fra uomini e topi. Concludiamo con lo 0: è questo l’indice di successo della sperimentazione sulle scimmie per curare l’AIDS. Dei 100 vaccini elaborati, non uno solo ha potuto essere applicato all’uomo, nonostante gli effetti positivi riscontrati su questi animali. Un risultato fallimentare che in nessun altro campo della scienza sarebbe tollerato, specie se si considera che queste ricerche comportano enormi investimenti di denaro. Con la “tombola” potrei andare avanti a lungo, ma i numeri sono comunque sufficienti per concludere che troppo spesso la sperimentazione sugli animali ostacola lo sviluppo di una ricerca basata su metodi alternativi sicuri per la nostra salute e, anche per questo, va abolita.
Negli ultimi anni, soprattutto in tossicologia, sono state messe a punto decine di queste nuove tecniche, ma la loro validazione procede troppo a rilento. Strano, se consideriamo i clamorosi errori prodotti dalla sperimentazione animale. Come quelli che hanno ritardato inesorabilmente la diffusione del vaccino antipolio. Nel 1911 un guru della medicina dell’epoca, Simon Flexner, insufflava il virus della polio nei nasi delle scimmie e su questa base concludeva che si trattava essenzialmente di una patologia del cervello e del midollo spinale, le aree in cui in realtà ne forzava l’attecchimento. Solo quando si cominciò a studiare bambini poliomielitici si scoprì che è invece una malattia della zona intestinale e gli scienziati si resero conto che era possibile condurre le ricerche su un tessuto umano in provetta. Fu relativamente facile coltivare abbastanza virus per la produzione di un vaccino di massa. Intanto, però, erano passati trent’anni e milioni di bambini nel mondo si erano ammalati. Molto simile, cioè fortemente negativo, il ruolo avuto dalla sperimentazione animale nella messa a punto della chirurgia del by-pass. I ricercatori americani tentavano l’applicazione dell’innesto nel sistema arterioso dei cani, senza successo, in quanto la fisiologia di questo animale è ovviamente diversa da quella dell’uomo. Tutto si bloccò per decenni, fino a quando si studiò questa tecnica direttamente sul paziente, con i risultati positivi che conosciamo.
Voglio aggiungere solo un ultimo drammatico esempio: alla fine dell’estate 2012 sono arrivate le scuse della compagnia farmaceutica tedesca Grünenthal, dopo un silenzio lungo cinquant’anni, durante i quali non è mai andata oltre generiche espressioni di dispiacere per le vittime del talidomide. Si tratta di un sedativo sperimentato per tre anni sugli animali e commercializzato dal 1957 al 1962 in una quarantina di paesi. Fu ampiamente utilizzato dalle gestanti per alleviare la nausea e i dolori della gravidanza, finché non nacquero bambini con gravi malformazioni come la focomelia (assenza o ridotto sviluppo delle ossa lunghe di braccia e gambe). Le prime segnalazioni, si disse poi, risalivano addirittura al 1956. Nel novembre del 1961 il pediatra tedesco Widikund Lenz fornì centinaia di riscontri all’ipotesi che vi fosse una correlazione tra farmaco e malformazione del feto. Ma, per diverso tempo, mentre il farmaco veniva liberamente venduto, gli scienziati somministrarono il talidomide a chissà quante femmine gravide di animali, per ottenere gli stessi effetti rilevati nell’uomo.
Scrive Ruesch: “La Chemie Grünenthal e vari altri laboratori ripresero le prove animali del talidomide, incrementando costantemente le dosi del farmaco: ma tutte le razze impiegate di cani, gatti, topi, ratti, e ben 150 specie e sottospecie diverse di conigli, continuavano a dare risultati negativi. Fu solo quando si arrivò al coniglio bianco neozelandese che si ottennero alcuni coniglietti deformi: dopo anni di prove e milioni di animali impiegati. Senonché gli sperimentatori ammonirono che le deformazioni potevano essere dovute alle dosi esagerate, somministrate per ottenere a tutti i costi qualche risultato positivo”.
Il 27 novembre 1961 il talidomide fu ritirato dal mercato tedesco, negli altri paesi fu ritirato nel corso del 1962. Nonostante lo scandalo, l’azienda rifiutò di ammettere le proprie responsabilità, sostenendo di aver fatto tutti gli accertamenti richiesti. Ma solo il 31 agosto 2012 l’amministratore delegato della Grünenthal, Harald Stock, ha presentato ufficialmente le sue scuse. “Vi preghiamo di perdonarci per i cinquant’anni in cui non vi abbiamo mai parlato faccia a faccia, e invece siamo rimasti in silenzio” ha detto durante la cerimonia di inaugurazione di un monumento per le vittime – una statua di bronzo che rappresenta un bambino senza arti – nella città tedesca di Stolberg. “Il talidomide” ha continuato “sarà sempre parte della storia della nostra compagnia. Noi abbiamo una responsabilità e la affrontiamo apertamente.” Le stime parlano di circa 20.000 bambini nati malformati nei paesi in cui fu commercializzato, 700 solo in Italia. Certamente le scuse non basteranno a risarcire le tantissime persone la cui vita è stata devastata per sempre da questo ennesimo errore, al quale ha significativamente contribuito il pregiudizio sulla validità dei test su animali. Vale la pena di citare, invece, ciò che si legge sul sito ufficiale della Grünenthal: “Fu solo nel 1962, dopo il ritiro dal mercato, che gli scienziati riuscirono a dimostrare la teratogenicità del principio attivo talidomide con studi su animali, i conigli della Nuova Zelanda. Quest’effetto è dimostrato solo in alcuni animali e razze di animali. Per esempio, altre specie di coniglio non lo manifestano”. Come la mettiamo, signori della vivisezione?
Finalmente, qualcosa è cambiato. Anche gli italiani hanno aperto gli occhi. Dopo aver trascorso decenni a prendere in giro l’opinione pubblica, contando sulla sua ignoranza dei “misteri della scienza”, per le lobby delle imprese farmaceutiche è giunta l’ora della resa dei conti. Oggi, infatti, anche ai più distratti capita di vedere video o foto che documentano l’abominio della vivisezione, le persone navigano su internet e sanno che sicuri metodi alternativi, attraverso colture di cellule e tessuti, permettono di sostituire il fallace modello di sperimentazione animale con quello umano, l’unico affidabile per noi. L’argomento principe del perfetto vivisettore (“È indispensabile per salvare vite umane”) non viene più accolto acriticamente, ma sottoposto ad attenta verifica. E si scopre che le cose non stanno precisamente così, perché ce lo dice quella parte del mondo scientifico che non ha terrore di perdere i finanziamenti delle multinazionali ed è perciò intellettualmente più libera. Si scopre che la vivisezione è oggi soprattutto un grande business, che garantisce generosi finanziamenti ai centri di ricerca per programmi manipolabili all’infinito. Serve per foraggiare carriere con pubblicazioni che nel 90 per cento dei casi, ed è un eufemismo, non passeranno alla storia. Ha prodotto errori macroscopici e comunque non dà garanzie.
In nome di questa scienza senza coscienza, ogni anno, nei laboratori d’Europa continuano a soffrire (e a morire) più di 12.000.000 di animali, poco meno di 900.000 nei laboratori italiani. Vengono utilizzati nella ricerca di base delle università, nello studio di malattie umane e veterinarie, nelle neuroscienze, nella messa a punto di nuovi farmaci, ma anche a scopo didattico, nel monitoraggio ambientale (per esempio per valutare gli effetti dei pesticidi) e nell’industria bellica per il collaudo di nuove armi. Si usano animali anche per valutare le sostanze chimiche con cui entriamo quotidianamente in contatto. Oltre l’80 per cento degli esperimenti viene effettuato su ratti, topi e conigli, ma si utilizzano anche cani e gatti. Una strage che deve essere fermata, cambiando le leggi che oggi rendono obbligatori certi test. Le mie convinzioni sono maturate da tempo e ben radicate. Ma un recente incontro ha toccato profondamente il mio cuore e ha rinnovato la mia determinazione a combattere questa pratica crudele.
Lo sguardo spento, la coda tra le gambe, la disperazione di chi dalla vita non può sperare nulla. Non avevano un nome ma solo un numero appeso alle sbarre. È questa la prima immagine che mi si è presentata quando sono entrata nel capannone-nursery della Green Hill, l’unico allevamento superstite in Italia di cani beagle destinati alla vivisezione: circa 2500 creature vendute ogni anno dalla multinazionale Marshall, proprietaria della struttura, ai laboratori di mezza Europa, dove la loro breve esistenza terminava fra atroci sofferenze. Era la fine del mese di ottobre del 2011. Il IV governo Berlusconi era ancora in carica e io ero ministro del Turismo.
Per arrivare alla collina che ospita la fabbrica di morte, percorrevo una stradina immersa nella nebbia bresciana. Ripensavo a tutte le motivazioni che mi portavano ad affrontare l’imminente battaglia con la determinazione di chi si batte da decenni contro l’orrore della vivisezione. Il mio ruolo istituzionale mal si conciliava con quello che intendevo fare, così mi avevano ripetuto i miei consiglieri a Roma. Un ministro della Repubblica “non deve” prendere posizione in materie controverse. Ma era quello che facevo quotidianamente, convinta come sono che la responsabilità di chi governa vada ben al di là della semplice “amministrazione”. Se rivesti un ruolo importante, se pro tempore rappresenti lo Stato, forse devi anche osare ed essere d’esempio. Sempre che tu abbia qualcosa da dire, naturalmente. E su questo tema io avevo e ho molto da dire.
Ho fondato la sezione della mia provincia della Lega antivivisezionista lombarda (LEAL) all’età di tredici anni. Aveva folgorato la mia anima di ragazzina che viveva in simbiosi con gli animali l’incontro con il fondatore e leader storico dell’associazione, Kim Buti. Era un signore di origini inglesi, dall’aspetto forse trascurato ma di grande carisma. Mi aveva aperto gli occhi sulle crudeltà che l’uomo può commettere nei confronti degli altri esseri viventi. Sui diritti che si arroga per il solo fatto di appartenere a una specie che ritiene superiore. Mi aveva fatto scoprire l’ipocrisia di chi traveste da ricerca quello che in realtà è puro business, lucro sulla sofferenza degli animali. Mi ero guadagnata la sua simpatia e passavo giorni interi ad ascoltarlo. Spesso mi parlava dei pregiudizi e degli ostacoli che doveva superare, di quanto era difficile battersi per chi non ha voce. Sono passati più di trent’anni, ma non è cambiato molto. Presto mi convinsi che il cuore del problema era la promozione di una “rivoluzione culturale” innanzitutto nell’opinione pubblica, disinformata o male informata. Così organizzai il mio primo evento sul tema della vivisezione: allestii sulla piazza centrale di Lecco una sorta di mostra fotografica. Otto cavalletti di legno reggevano fotografie di cani, gatti, scimmie e topolini con elettrodi in testa, immobilizzati con il ventre aperto, imprigionati in gabbie mortali. Kim Buti mi aveva spiegato che il primo intervento che questi poveri animali subivano era la recisione delle corde vocali, così che non potessero nemmeno urlare il loro dolore. Sentii un brivido, lo stesso che mi avrebbe dato, in anni a venire, la lettura di una pagina di Malaparte, dove si parlava della stessa cosa. La mia militanza animalista ebbe inizio allora, nel nome di quelle bestiole torturate.
Molti anni dopo, partecipai alle manifestazioni che chiedevano la chiusura di un altro allevamento di cani beagle destinati alla vivisezione, la Morini di San Polo d’Enza, vicino a Reggio Emilia. Con Green Hill si contendeva il mercato dei cani da laboratorio. Avevo scritto una montagna di lettere al presidente della regione Emilia Romagna e avevo partecipato alla protesta civile con tante altre persone. Poi, finalmente, la voce degli animalisti fu ascoltata: la regione approvò una legge che vietava l’allevamento, l’utilizzo e la cessione a qualsiasi titolo di cani e gatti ai fini di sperimentazione, alla quale seguirono ricorsi e impugnazioni. Alla fine, la Morini fu costretta a chiudere per le difficoltà economiche conseguenti alla situazione che si era creata e alla cattiva pubblicità.
Restava il lager di Montichiari. Anno dopo anno, l’intensità della protesta contro Green Hill era cresciuta e i responsabili avevano assunto un atteggiamento di forte chiusura, cacciando in malo modo chi osava presentarsi alla loro porta. Ma io in quel momento non ero più una semplice militante animalista, ero un ministro della Repubblica, ben decisa a far valere il mio ruolo per una buona causa. Le critiche sarebbero piovute, ma tanto, quando sei al governo, ti criticano sempre e comunque. Almeno questa volta sarebbe servito a richiamare l’attenzione su una vicenda di cui i media non sembravano curarsi troppo. Arrivata all’allevamento, sono stata accolta da dirigenti evidentemente molto contrariati e molto reticenti. Ma la mia determinazione ha avuto la meglio. Dopo due ore di discussione mi hanno accompagnato all’interno del primo capannone, quello che ritenevano “il migliore”.
La solitudine che leggo negli occhi delle cagne “riproduttrici” (così le chiamavano loro, per me erano semplicemente “mamme”) pur nell’incredibile frastuono e affollamento del capannone, è un sentimento indescrivibile, devastante. Le loro giornate, tutte uguali, erano scandite solo dal ciclo delle dodici ore di luce al neon alternate alle dodici ore di buio, nel box di qualche metro quadrato che per quelle povere creature aveva la misura dell’universo.
L’aria era pesante, irrespirabile, e i lucernari completamente chiusi. E tali dovevano restare, mi spiegano, “per non contaminare i prodotti”. I cani di Green Hill non avevano mai la possibilità di uscire da quelle gabbie, di vedere la luce del sole, di respirare a pieni polmoni la brezza autunnale della verde collina bresciana. Non sapevano che cosa volesse dire correre sull’erba. Utilizzate come macchine per produrre tanti piccoli sventurati come loro, le riproduttrici accudivano con disperata tenerezza i loro piccoli, perché avevano imparato che, prima o poi, qualcuno sarebbe venuto a portarglieli via.
Non riesco a trattenermi, protesto, esprimo ai responsabili della struttura tutta la mia desolazione per quella vita che non è vita. Mi rispondono: “Tanto queste cagne durano solo tre anni”. Solo tre anni? In che senso? Nel senso che, dopo tre anni, vengono rimpiazzate da riproduttrici più giovani e finiscono anche loro torturate in laboratorio. Torno a guardarle negli occhi e penso: forse il loro è, tra tutti, il destino peggiore.
Il capannone era stretto e lungo, un corridoio centrale separava due lunghe file di box. Tutti piccoli. Sul pavimento, non una cuccia. Solo un po’ di trucioli di legno, non abbastanza fitti da coprire tutta la superficie. In fondo a ogni box c’è una specie di vassoio e, sotto una lampada che emette calore, tanti teneri cuccioli addormentati. Da tre a sette per madre. Tutti rigorosamente della stessa taglia, nati da circa un mese. Perché tutto era artificiale a Green Hill, tutto era controllato dall’uomo, anche e soprattutto la riproduzione.
La vista di un cucciolo commuove sempre chi ha un animo sensibile: una nuova vita che si affaccia al mondo è il segno della continuità, della speranza. Ma vedere decine e decine di piccoli ammassati, ignari del tragico destino che li attendeva, mi ha devastato. I loro semplici sogni, le cure della mamma, il calore della cucciolata avrebbero presto lasciato il posto al dolore più atroce, alla morte più crudele.
Mentre cammino tra le file di box, trattengo a stento le mie emozioni e la mia indignazione. Il responsabile a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Manifesto animalista
  3. Prefazione
  4. 1. Green Hill, la collina della vergogna
  5. 2. Una strada già tracciata
  6. 3. Anime randagie
  7. 4. Finalmente entro anch’io
  8. 5. La coscienza degli animali
  9. 6. La giraffa della libertà
  10. 7. Vite in palio
  11. 8. Io non mangio i miei fratelli
  12. 9. Rambo e i suoi fratelli
  13. 10. Anche poco può fare molto
  14. Conclusioni
  15. Copyright