Così in terra, come in cielo
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Così in terra, come in cielo

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  1. 140 pagine
  2. Italian
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Così in terra, come in cielo

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Informazioni sul libro

La sua cattedrale è la strada, i suoi insegnanti prostitute, barboni, tossici, tutte quelle vite perdute che sono anime salve. Don Andrea Gallo è da cinquant'anni un prete da marciapiede, fondatore della «Comunità di San Benedetto al Porto di Genova», che accoglie chi ha bisogno e chi vuole trovare un punto da cui ripartire a nuova vita. Con Così in terra, come in cielo don Gallo racconta la sua personale saga accanto agli ultimi, i suoi dissensi da una Chiesa che pure ama e a cui sente di appartenere, sviscera con ironia e preparazione le sue posizioni ribelli su temi quali il testamento biologico, l'immigrazione, la liberalizzazione delle droghe, l'aborto. Lui, ultraottantenne che viaggia in direzione ostinata e contraria e che nonostante i molti meriti resta orgogliosamente un prete semplice, sgrana il rosario laico di Fabrizio De André, raccoglie le storie di bassifondi e vicoli che tanto somigliano a quelle delle Scritture, cerca l'efficacia storica del messaggio evangelico e impasta mani e cuore nelle realtà più dolorose, lavorando senza risparmiarsi affinché questa terra diventi cielo. Un prete "prete", anarchico, discusso, amatissimo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852033506

Così in terra, come in cielo

“Invincibile non è chi sempre vince, ma chi
mai si fa sbaragliare dalle sconfitte, chi mai
rinuncia a battersi di nuovo.”
ERRI DE LUCA, amico e maestro
“I cristiani non hanno nulla da insegnare.
Siamo testimoni: sale, lievito, chicco di grano.
Imparare da chi? Da tutti i poveri e gli
oppressi del mondo.”
DON ANDREA GALLO, prete da marciapiede

Il vascello fantasma
Nel 1960 fui nominato cappellano della nave Garaventa, il riformatorio temuto da ogni ragazzo genovese. Accettai volentieri perché avevo studiato all’Istituto nautico e amavo il mare, ero entusiasta di stare con questi batôsi, come si chiamavano in dialetto, ovvero monelli, meno conosciuti degli scugnizzi o dei gavroche letterari, ma ugualmente fiori di strada, senza casa né famiglia. Eravamo in porto, nel ventre del vecchio posamine Crotone concessoci dalla Marina militare e la situazione a bordo era delicata.
All’inizio ero addetto alla lettura dei fascicoli, un lavoro noioso perché proprio non mi importava del loro passato. Mi interessava invece il loro futuro e per questo non credevo nei metodi repressivi che venivano usati. Chi infrangeva le regole doveva fare il giro di chiglia o veniva rapato a zero, incorreva in punizioni secondo me inutili. Cominciai a farli scendere da quel vascello fantasma. Li portavo a terra a piccoli gruppi, andavamo al luna park. Una volta due ragazzi scapparono. Il più piccolo raggiunse una zia a Torino, l’altro si diresse in Valle d’Aosta. Furono presto ritrovati e prima del loro ritorno a bordo dovetti fare una lunga chiacchierata con il resto dell’equipaggio che si preparava a pestarli perché avevano tradito il cappellano che stava dalla loro parte. Li convinsi a non vendicarmi. Entrai nel magazzino buio della banchina e da dietro una cassa spuntò uno dei due fuggitivi. Chiuse la porta alle mie spalle e prese una trave. Pensai, stavolta le busco. Mi arrivò a un palmo dal naso e disse: «Qui non ci vede nessuno. Ora lei mi restituisce le bastonate perché ho compiuto un’azione malvagia». Eccola la scuola di redenzione sul mare: non il collegio correzionale ma il rapporto di fiducia. La fuga stessa può essere uno strumento pedagogico.
Mi hanno rubato il prete
Fui rimosso dall’incarico nel 1963. La motivazione ufficiale non la conosco ancora, però sospetto abbia a che fare coi miei metodi “licenziosi”. Nel gennaio 1965 da salesiano diventai viceparroco alla Chiesa del Carmine, in pieno centro storico, sotto l’Albergo dei poveri. Era un quartiere popolare, di portuali e operai, con abitazioni inagibili e un mercato rionale quasi indecente. Giravo nei vicoli, sostavo fra i banchi, passavo in edicola, discutevo col salumiere che era convinto che mi piacesse il prosciutto ma comprassi la mortadella perché ero tirchio e volevo spendere meno. La zona era anche frequentata da famiglie borghesi in quanto vicinissima all’università e al liceo Colombo, dove nel 1968 nacque il movimento studentesco. Fu un periodo di grandi stravolgimenti: con il Concilio Vaticano II la Chiesa decideva di leggere i segni dei tempi, i giovani si impegnavano nel sociale, dibattevano sulla riforma scolastica e la guerra in Vietnam, nascevano piccole comuni, cresceva la partecipazione civile. Fu un risveglio e un contagio di idee, una primavera a tutti gli effetti. La mia parrocchia diventò un punto di riferimento, l’agape, un luogo di forte comunione e sinergia. Alla messa di mezzogiorno trattavo i temi di attualità, ero nettamente schierato al fianco degli ultimi, cominciai a tenere due leggii: da una parte il Vangelo, dall’altra il giornale. Evidentemente qualche zelante non approvava le mie omelie e avvisò la curia. L’episodio che scatenò l’indignazione dei benpensanti fu la mia predica alla scoperta di una fumeria di hashish nel quartiere. Invece di inveire contro chi rollava qualche spinello ricordai quanto fossero diffuse e pericolose altre droghe, per esempio quella del linguaggio, talmente fuorviante che poteva tramutare “il bombardamento di popolazioni inermi” in “un’azione a difesa della libertà”. Apriti cielo.
Il parroco, per ordini superiori, dovette registrare di nascosto le mie prediche, poi mi chiese scusa, dimostrandomi tutto il suo affetto, e si rifiutò di continuare. Ma ormai la curia aveva stabilito che promuovevo la politica e non il Vangelo e nel 1970 mi inviò un provvedimento di trasferimento.
Addirittura il vescovo Chiocca telefonò a mia madre chiedendole di fare pressioni su di me affinché scegliessi “obbedienza o catastrofe”. Optai per l’obbedienza e per loro fu una catastrofe. Prima della mia partenza ci fu una sollevazione popolare inaspettata. Tutta la città reagì, tanto che della storia di questo pretino si dovettero occupare anche i quotidiani, perfino “Le Monde” seguì la vicenda e scrisse che “avevo il torto di essere stato fedele al Concilio”.
La gente del quartiere inviò una lettera di protesta con 2370 firme (a cui non seguì alcuna risposta), organizzò una veglia di preghiera, occupò la chiesa per esprimere totale disapprovazione per il mio allontanamento. Il 2 luglio 1970, mentre io stavo barricato in una trattoria, venni chiamato in piazza e lì trovai oltre duemila persone a manifestare. Rimasi colpito. Avevo deciso di non contestare il provvedimento, invece capitai nel bel mezzo di una mobilitazione popolare, dove il professore universitario teneva a braccetto lo spedizioniere, il fabbro la vecchietta, i figli delle prostitute alzavano i cartelli insieme ai figli dei grandi professionisti. Che commozione. Mi diedero un megafono e questo fu il mio saluto: «È vero, esiste un profondo dissenso fra me e la curia, ma un dissenso di amore e di profonda, convinta ricerca della verità. La cosa più importante è che si continui ad agire perché i poveri contino. Ci incontreremo ancora. Ci incontreremo sempre. In tutto il mondo, in tutte le chiese, le case, le osterie. Ovunque ci siano uomini che vogliono verità e giustizia».
Il 2 luglio 1970 un bambino piangeva sugli scalini della mia chiesa e quando il vigile gli chiese perché, lui rispose: «Mi hanno rubato il prete».
La Comunità strampalata
Nel giugno del 1970 fui designato arciprete dell’isola di Capraia. Compresi subito: promoveatur ut amoveatur cioè mi promuovevano per potermi rimuovere e allontanarmi dai giovani. Rinunciai dicendo: «Signore non son degno».
Non sapevo dove andare. Ero in attesa di destinazione e convinto che non sarebbe mai arrivata. Su consiglio di un amico mi rivolsi a don Federico Rebora che rispose semplicemente: «Venite». Io e la mia gente piombammo nella sua canonica coi sacchi a pelo e lì stiamo accampati da ormai trentanove anni. Quell’uomo è un santo. È stato richiamato da alcuni parrocchiani tradizionalisti e dai piani alti, lo hanno martoriato affinché ci mandasse via. Sono venuto a sapere per vie traverse che ogni volta che è stato convocato ha risposto: «Io, accogliendo questo gregge, ho seguito il Vangelo. Visto che siete i padroni della baracca, venite voi a mandarci via». Così resistiamo, un piccolo ospedale da campo, un galeone di pirati strampalati.
Don Federico è del 1927, ci fa da parafulmine, soffrendo in silenzio per le lamentele delle “pie donne”. Lui si occupa di chi capita in canonica: il signore che chiede soldi dicendo ogni giorno che è il suo compleanno o il ragazzo talmente provato dallo stato di disoccupazione che viene vestito con una tuta da lavoro ogni volta diversa. Non so dove le rimedi: una mattina è meccanico, un’altra, con tanto di chiave inglese in mano, è idraulico. È stato visto spesso in zone di lavori in corso, che cercava di mimetizzarsi tra gli operai.
A cena, stremato, don Federico si siede e dice: «Queste persone sono la nostra letizia».
La piazza indecorosa
Nel luglio 2007 i miei ragazzi mi hanno riportato al Carmine. Trentasette anni dopo avevano deciso di celebrare lì l’anniversario di quella indimenticabile primavera, con pittori, musicisti, cantanti. Ho rincontrato adulti che ricordavo bambini, nel mercato rionale ho rivisto in fotografia i volti, le espressioni di allora, incluse le mie. Venne un signore a consegnarmi la risposta protocollata che il cardinal Siri gli aveva inviato allora.
10 luglio 1970
Naturalmente noi non siamo con il ricorso alla piazza. Mi permetto di pregarla, e mi perdoni questa libertà, di non sentire solo quelli che calunniano e vogliono distruggere tutta la sacra autorità, data da Cristo alla sua Chiesa. Ella è perplesso per il caso Gallo, dice di non conoscerlo e di non poter giudicare, esatto, anche qui la tranquillizzo, il caso Gallo è stato creato dalla stampa nonché da un gruppetto di persone che si sono polarizzate su di lui, forse ritenendolo strumento delle loro mire. Don Gallo, almeno fino al 2 luglio, ha obbedito perché ha capito che il provvedimento era giusto, tanto è vero che quando comparve alla piazzetta indecorosa del 2 luglio disse bene di me. Le ragioni per rimuoverlo c’erano, ed erano obiettive, i documenti sono sempre a disposizione dell’autorità a me superiore qualora credesse di esaminare il caso. Non è ordinario lo ammetto, ed è il primo che mi capita in ventiquattro anni. Preghi il Signore perché mi aiuti a fare il meglio per questo povero prete. Non vedo l’ora di conoscerla ma spero nella sua lealtà. Questa lettera è personale per lei e non deve essere dedotta al pubblico. Accolga i miei sinceri saluti.
Il signore ha tenuto la lettera in segreto per tutti questi anni. Non mi sconcerta il modo in cui si parla di me, povero prete, invece arricchito da quell’esperienza, negando addirittura l’evidenza (i giornali riportano in lettere maiuscole che non fui affatto d’accordo con il suo provvedimento), ma il disprezzo che emerge verso la volontà popolare. Quella “piazzetta indecorosa”, come viene definita, non era certo composta da sobillatori. C’erano molti cattolici e la prima firmataria della protesta fu Paola, nipote del cardinal Siri, che sulla lista ci tenne a specificare la sua parentela.
Tornare nel luogo dove tutto è iniziato mi ha confermato che lì sono stato realmente convertito a uomo. Mi ritrovai al centro di una forza vitale, in quei cinque anni assorbii ogni energia possibile. Quello sradicamento divenne la radice del mio apostolato.
Insonnia d’amore
La mia gente di notte non ha un posto dove andare, così io dormo di giorno e sto sveglio fino all’alba nel mio archivio, tante volte volesse passare di là. Un giorno stavo scribacchiando quando entrò Peter, un giovane barbone che viveva di espedienti e che aiutavo con piccoli contributi. Si mise a sedere e mi puntò una rivoltella.
«Dài Peter non giocare» lo smontai.
«Quale giocare, dammi tutti i soldi.»
«Soldi? Ma quanto può avere un genovese come me nel portafoglio?» sdrammatizzai. Ma lui niente, teso e determinato insisteva: «Dammi quello che hai».
Avevo paura. Non della pistola, ma che mi partisse un pugno dalla rabbia e gli facessi male. Rubare a me. E poi chissà quante volte si cacciava nei guai per qualche spicciolo. Mi mangiavo il fegato a pensarci.
Improvvisamente arrivò il mio amico egiziano Sadat. Peter, goffo e ancora più nervoso, lo mise sotto tiro, ma Sadat era agile e lo disarmò in un secondo. Se non intervenivo, me lo rovinava.
Sadat lo rimise in piedi e lo interrogò:
«Come ti chiami?»
«Peter.»
«Dillo più forte.»
«Peter!»
«Allora Peter, d’ora in avanti: Allah numero uno, don Gallo numero due.» Eccola, la mia ronda.
Tre giorni dopo Peter ritentò in un vicolo buio. «O la borsa o la vita» intimò puntando la stessa rivoltella. Era talmente sfortunato che si beccò una clamorosa sberla dal robusto marinaio. Non sapeva scegliersi nemmeno le vittime. L’unico furto che gli fosse mai riuscito era quello della pistola in un negozio di giocattoli.
Io mi prostituisco
Quando serve, certo che vado a fare marchette. In Comunità c’è sempre bisogno di soldi quindi talvolta mando giù il boccone amaro e accetto di celebrare matrimoni e di presiedere ai banchetti nelle ville dei ricconi, mezzo nobili mezzo ignobili, come si dice. Le offerte sono alte, proporzionali all’ostentazione di generosità del padrone di casa, e magari con l’occasione riesco a convertire qualche cattolico al cattolicesimo.
Dissi messa in una tenuta aristocratica per diversi anni. C’erano un altare faraonico, tovaglie ricamate a mano, calici d’oro massiccio, un enorme crocifisso d’avorio. Tutto era di lusso, gli invitati sembravano usciti da una rivista di moda, la carta igienica odorava di profumo francese. I bambini dei ricchi hanno tutti volti angelici, una pelle bianca e cerata, roba che quando li vedi ti viene da chiedergli: “Ma che crema usi?”.
Un anno stavo per recitare il Padre Nostro e non mi tenni più. Sentii dal profondo della coscienza il bisogno di pungolare i presenti: «Vi ringrazio della generosità e della devozione che mostrate. Voglio darvi un consiglio: quando pregate da soli non dite Padre, che suona così lontano, dite Papà, perché Dio è il padre di tutti». I presenti fecero cenno di sì con la testa. «Vuol dire che siamo tutti suoi figli e figlie, fratelli e sorelle.» I presenti annuirono nuovamente. «Significa che siamo tutti uguali.» Annuirono in pochi. Finii con la domanda: «Allora, se siamo tutti uguali, come mai in giro vedo figli di serie A, B, C?». Silenzio.
Dopo la celebrazione molti vennero a congratularsi per la mia omelia. Li colpì talmente tanto che in quella villa non fui mai più invitato.
Imparare dall’Africa
Due ragazzi della quarta liceo scientifico, compagni di banco, scapparono di casa. Chiamarono dopo un mese e dissero di trovarsi a Niamey, in Niger. I genitori mi chiesero di convincerli a tornare e partii in missione. La vista di tanta miseria mi accecò d’ira. Mi chiedo con che coraggio neghiamo l’ingresso a chi fugge da lì per trovare ricovero in Europa. Un vero credente non riesce a sbattergli la porta in faccia. Mia madre, convinta cristiana, su questo punto non transigeva. Quando in TV sentiva farneticare di espulsioni, CPT, respingimenti, lei che in guerra ha testato l’importanza della solidarietà era a dir poco sdegnata. Io, per proteggerla, cercavo di giustificare le dichiarazioni dei politici e degli intervistati: «Mamma, lascia stare. Li devi scusare, sono ignoranti».
E lei lapidaria, certa di stare dalla parte di Gesù, rispondeva: «Non sono ignoranti. Sono cattivi, è diverso. Un pezzo di pane non si rifiuta nemmeno a un cane». Quanto aveva ragione, una donnina che a malapena aveva la terza elementare.
In Africa incontrai un fotografo che, durante uno dei suoi reportage, fu colpito da una giovane donna che portava un fardello sulle spalle. La vide arrivare da lontano, sola, affaticata, barcollante a causa del carico, il sacco che gocciolava. Le disse: «Fermati, sei troppo piccola per portare questo peso». Lei rispose: «Non è un peso: è mio fratello».
La Lanterna
Negli anni Novanta entrammo in un progetto pilota dei fondi europei: riuscimmo a comprare una licenza e a costruire la nostra trattoria, con l’obiettivo di reinserire e formare professionalmente i ragazzi che lo desiderassero. La inaugurammo nel 1992 e da allora la Lanterna, così si chiama, è un vero gioiello marinaresco. I ragazzi realizzarono tutti i lavori interni, setacciarono il porto e riempirono il loc...

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  1. Copertina
  2. Così in terra, come in cielo
  3. Dello stesso autore
  4. Così in terra, come in cielo
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