Avevano una banca
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Avevano una banca

La vera storia del disastro finanziario che ha mandato in crisi il Monte dei Paschi di Siena e che imbarazza il Partito democratico.

  1. 41 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La vera storia del disastro finanziario che ha mandato in crisi il Monte dei Paschi di Siena e che imbarazza il Partito democratico.

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Gli Instant Book di Panorama.
L'operazione Antonveneta del 2007, acquistata e strapagata con 9 miliardi di euro. La strana gestione dei contratti «derivati», per anni nascosti e poi improvvisamente emersi in un bilancio che oggi accusa 6, 2 miliardi di perdite. I soldi (tantissimi) che stanno per arrivare dallo Stato. I manager sotto inchiesta e il ruolo (ingombrante) di tanti uomini del Pd. Tutto quello che c'è da sapere sulla crisi del Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852035463

La vera storia del disastro finanziario che ha mandato in crisi il Monte

di Stefano Cingolani

Fumava, avido e nervoso, seminascosto in un angolo davanti al teatro Biondo, nella calda e umida Palermo di quel venerdì 8 giugno 2012. Il sole faceva risaltare ancor più i riccioloni striati di grigio, l’impeccabile tasmania antracite, la camicia celeste con cravatta in tinta e quell’aria da bell’Antonio realizzato. Dentro, una folla di banchieri e bancari delle casse di risparmio e delle fondazioni chiamati da Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Associazione delle casse di risparmio, l’Acri. Lo stesso Guzzetti che dieci anni prima aveva preso a ben volere quel ragazzone del sud trapiantato nell’enclave di Siena tra comunisti e massoni. Eppure Giuseppe Mussari, senese di Catanzaro, ex contestatore che occupava l’università con eskimo e kefiah, militante del Pci e poi avvocato di successo, quella mattina era solo. Due anni prima era arrivato al vertice dell’Assobancaria da presidente del Monte dei Paschi di Siena, terzo gruppo creditizio italiano, con il consenso di tutti i grandi, a cominciare da Giovanni Bazoli, il grande vecchio di Intesa Sanpaolo. Ora, in attesa di riconferma, sentiva fischiare attorno frecce avvelenate.
Nel piccolo mondo antico della finanza italiana, tutti sapevano che stava seduto su una polveriera. E giravano già gli esempi terrificanti: Parmalat (evocata da Beppe Grillo), Enimont (con lo spettro di una maxitangente) o il crac del Banco di Napoli nel 1995 per le sue implicazioni politiche: quello fu il crollo del sistema democristiano meridionale, Mps può diventarlo per il sistema post comunista nelle regioni rosse. Le cifre sono da brivido: 6,2 miliardi di perdite tra il 2011 e settembre 2012. In pancia ha 17 miliardi di crediti a rischio; 11 miliardi di derivati; 26 di titoli pubblici. Un’azione vale appena 25 centesimi e l’azionista di riferimento, la Fondazione ha distrutto il capitale (ammonta ormai a 1.300 milioni).
Un macigno pesava sul cuore di Mussari ben più grande di Alexandria, Santorini (quelle che oggi vengono considerate le pietre dello scandalo) o di Corsair, Patagonia, Nota Italia, tutte le diavolerie con le quali si baloccavano Gianluca Baldassarri, il capo della finanza, e gli altri gnometti agli ordini del direttore generale Antonio Vigni. Di quelle faccende lui sapeva poco e non capiva molto. Nessuno le capisce fino in fondo; tutti gli scandali finanziari scoppiati nel mondo e legati ai contratti derivati, lo dimostrano. No, la montagna da smuovere era ben più grande e pericolosa di quei giochetti, era una banca intera e si chiamava Antoniana e Popolare Veneta, insomma Antonveneta. Tre settimane prima, il 16 maggio 2012, la magistratura aveva lanciato accuse pesanti: aggiotaggio, ostacolo alla vigilanza. Mentre i suoi nemici, che a quel punto aumentavano giorno dopo giorno, parlavano di tangenti passate attraverso veicoli esteri. Per cautelarsi era stato usato persino lo scudo fiscale varato da Giulio Tremonti, facendo rientrare un miliardo e duecento milioni, parcheggiato tra Londra, Lussemburgo e Lugano.
Il 27 aprile, all’assemblea annuale, Mussari aveva lasciato la presidenza del Montepaschi nelle mani di Alessandro Profumo arrivato con l’aria del bonificatore o meglio dell’eraser come nel film con Arnold Schwarzenegger. A gennaio era saltato Vigni e al suo posto si era insediato Fabrizio Viola, già alla Banca Popolare di Milano. Il cambio era avvenuto su pressione della Banca d’Italia che dal 2009 entrava e usciva da Rocca Salimbeni, il quartier generale del Monte, apriva i cassetti, spulciava le carte, e scriveva rapporti che davano seguito a pareri “parzialmente negativi”. La vigilanza, guidata da Anna Maria Tarantola (passata poi alla presidenza della Rai), era severa, ma comprensiva. E Mussari ne aveva tratto l’impressione che palazzo Koch volesse procedere con pungo di ferro in guanto di velluto. Soprattutto, la banca centrale non aveva mai mosso rilievi sulla madre di tutte le acquisizioni, quella della banca di Padova pagata 10,5 miliardi di euro a un Banco Santander che l’aveva ottenuta per 6,6 miliardi. È lì l’imbroglio principale, che coinvolge banchieri, vigilanti, politici, ministri. Ciascuno ha la propria responsabilità.

Le scatole senesi

Lo scandalo del Montepaschi è come una matrioska: una storia dentro l’altra, a cominciare dalla storia del principale protagonista. Mussari non era un banchiere tradizionale. Anche se molti degli uomini al vertice del sistema hanno una formazione e un percorso extra bancario. Guzzetti è avvocato, ex politico democristiano e presidente della regione Lombardia; lo stesso Bazoli, avvocato, professore, è arrivato in banca per salvare l’Ambrosiano su indicazione di una figura di economista-politico come Beniamino Andreatta, già consigliere di Aldo Moro. Ma Mussari è ancor più eccentrico. Non è un McKinsey boy come Alessandro Profumo o Corrado Passera, non viene dalla fertile nidiata della Banca d’Italia, come Cesare Geronzi, né da Mediobanca come Matteo Arpe. Semmai è una figura relazionale, dote che saprà usare anche all’Abi, nel tentativo di togliere dal volto dei banchieri la maschera truce dell’avidità.
Nato a Catanzaro il 20 luglio 1962, si laurea in giurisprudenza a Siena nel 1988 e dal 1993 è iscritto all’albo degli avvocati nel foro senese. Per tre anni presiede la Camera penale della città, trampolino che lo introduce alla presidenza della Fondazione a partire dal 2001. È il cuore finanziario e il cervello strategico con un valore allora stimato in 3 miliardi e 330 milioni, un miliardo in più della Compagnia Sanpaolo, con la differenza che a Siena vivono 50 mila persone, a Torino un milione e mezzo.
Due anni prima il Monte si era quotato in borsa e aveva cominciato a partecipare ai grandi giochi, anzi al più grande di tutti: la scalata Telecom di Roberto Colaninno e Chicco Gnutti. Era l’epoca di Massimo D’Alema presidente del Consiglio e della merchant bank di palazzo Chigi. Il momento in cui gli eredi del partito comunista volevano sfidare il vecchio establishment economico da pari a pari, sbeffeggiando il nocciolino duro che ruotava attorno agli Agnelli, discutendo con Enrico Cuccia sui destini di Mediobanca e del capitalismo italiano. Mps sembrava un pezzo forte nella nuova scacchiera, così almeno la concepiva il vertice dei Ds, soprattutto D’Alema, Pier Luigi Bersani, Vincenzo Visco. Il nuovo era Mussari, il vecchio era la senesità, chiusa a difesa degli interessi locali il cui campione si chiamava Pierluigi Piccini. Ex sindaco, nel 2001 sembrava il candidato naturale a presiedere la Fondazione nella cui cassaforte è custodita la maggioranza assoluta del Monte. Un’anomalia, perché la legge prevedeva che le fondazioni di orgine bancaria scendano ben al di sotto del 50%. Ma l’eccezione senese aveva avuto sponsor potenti e non solo ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Avevano una banca
  4. La vera storia del disastro finanziario che ha mandato in crisi il Monte. Di Stefano Cingolani
  5. Giuseppe Mussari, un calabrese a Siena. Di Marco Cobianchi
  6. Come il «Monte Pio» è diventato il Monte dei Paschi di oggi. Di Walter Mariotti
  7. Copyright