Quella mattina si doveva ammazzare il maiale, e gli addetti erano tutti ubriachi. Avevano bevuto lungo la notte vegliando il corpo di un amico. All’alba, lasciarono il morto, maciullato da un tronco, sul tavolaccio con quattro candele accese, rigido. Poi si presentarono all’appuntamento. Erano otto. Zuan de Pil, Zuan Pez Piciol, Chino Giant, Ernesto Rostapita, Fulvio Santamaria, gemello di Carlo, Clausura e due che non serve fare il nome. Nevicava. Veniva giù come non aveva mai nevicato. Era tempo da stare in casa. Ma il maiale andava accoppato lo stesso. Il giorno del norcino chiede rispetto, è sacro, non ci sono neve, pioggia o vento che tengano. Quello detto Clausura era Jan de Bono, fratello di Firmin. Lo chiamavano così perché stava tutto l’anno chiuso in casa. Usciva solo il mese di dicembre per spinare il sangue ai maiali. Era l’accoltellatore ufficiale e si vantava. Arrivò brandendo una baionetta affilata a rasoio. La agitava in aria, ciondolava, farfugliava. Lo disarmarono o si sarebbe ferito.
«Sta’ buono là seduto» gli disse Zuan de Pil.
Clausura si mise sul ciocco da spaccare tronchi, fuori dalla tettoia, nel cortile. Restò così un bel po’, le mani in tasca. La neve gli cresceva sul cappello. Qualcuno arrotolò una sigaretta, l’accese e gliela infilò in bocca.
«Grazie» borbottò Clausura. Col movimento delle labbra, la sigaretta andava su e giù. L’accoltellatore fumava senza cavare le mani di tasca. In silenzio. Solo una volta sibilò: «Datemi il coltello».
«Dopo» disse Zuan de Pil, che pareva il più in linea. «Dopo ti diamo il coltello, intanto sta’ buono lì.»
Misero sopra il fuoco una grande caldiera per bollire l’acqua. Bestemmiavano, davano ordini confusi, seguitavano a bere. Sul tavolo c’era una damigiana di rosso con la canna infilata. Mettevano la scodella, giravano la chiavetta e il vino colava facendo spuma rossa.
«Basta bere» disse Zuan Pez Piciol. «C’è da fare il porco.»
«Lo facciamo» disse Chino Giant, «non preoccuparti, lo facciamo. Se prendo tua sorella faccio il porco.»
Accanto al tavolo con la damigiana, ce n’era un altro più grande, che doveva accogliere il suino per lavorarlo e farlo a tocchi. In fila, uno dopo l’altro, c’erano i coltelli, la manéra e la sega per aprire lo sterno. Dalla stalla giungevano a tratti gli sbuffi del maiale che grugniva. Poveraccio, se avesse saputo! Sempre sul tavolo grande, stava un tubo metallico, lucido, lungo circa trenta centimetri, coperto da un panno. Era la “pistola” ammazza-bestie, attrezzo speciale in dotazione a Rostapita. Si trattava di un cilindro d’acciaio munito all’estremità di pistoncino mobile e di grilletto nella parte inferiore. La cartuccia a salve calibro ventidue, esplodendo, avrebbe dato urto al pistoncino che sarebbe penetrato nel cranio dell’animale da far fuori. Occorre premere bene l’arma sull’osso e tenerla forte. Quell’aggeggio, che non somiglia affatto a una pistola anche se così viene chiamata, era l’orgoglio di Ernesto Rostapita. Ce l’aveva soltanto lui e solo lui ingaggiavano per abbattere il bestiame. Dopo interveniva Clausura a spinare il sangue con la baionetta e tagliare la testa. Una volta all’anno, dal primo dicembre all’Epifania. Poi tornava nella tana, l’aria degli altri mesi non gli era indispensabile.
Risparmiando lira su lira, Rostapita era riuscito a comprarsi la pistola ammazza-tutto. Alcuni anni dopo con quell’attrezzo ammazzò la moglie, ma questa è un’altra storia.
Ora menava vanto e la metteva a servizio di chi ne aveva bisogno. Dietro compenso, chiaramente.
«Con trenta morti me la son pagata» diceva fiero.
Di solito era un professionista scrupoloso e preciso ma quella mattina si trovava in cattive condizioni.
Come gli altri aveva vegliato il morto, onorandone la memoria a suon di ricordi e acquavite. Ogni tanto guatava l’arma coperta dal panno.
«È mia» diceva, «l’adopero soltanto io.»
L’acqua nella caldiera attaccò a bollire. Il vino nella damigiana attaccò a calare.
«C’è da prendere il porco» disse Santamaria.
Partirono in sei. Sei bastano a trascinare un maiale. Andarono alla stalla. Nevicava, la tettoia era stracarica. Due uomini la puntellarono con un palo.
«Non si sa mai» disse Zuan Pez Piciol.
Dalla stalla si cominciò a sentire casino. Si udivano frastuoni, colpi, tonfi, urla e bestemmie. Poi spuntarono. Erano riusciti a rovesciare il porco e lo trascinavano per le gambe. Uno gli aveva legato la corda al collo e tirava. L’ultimo tirava la coda.
«No per la coda» intimò Santamaria, «è disonore.»
L’altro, che era Zuan de Pil, mollò la coda per passare alla corda. Faticavano. Il maiale era duecentocinquanta chili, la neve ingombrava, il vino faceva sbandare. Uno perse la zampa. Era sudicia, sporca di escrementi, slittava. L’uomo finì con la faccia nella neve. Si tirò su bestemmiando, mollò un calcio nella pancia al porco, artigliò di nuovo la zampa e riprese a tirare. Passarono davanti al Clausura, che aveva una spanna di neve sul cappello.
«Preparati» gli disse Santamaria.
«Sono pronto» ruminò. Si alzò, cercò la baionetta e l’afferrò.
Rostapita aveva tolto il panno che copriva l’ammazza-tutto. La guardava orgoglioso, rimirava l’utensile di morte. Presto sarebbe toccato a lei entrare in azione. Dalla scatolina cavò una cartuccia e la infilò nella camera di scoppio. Adesso l’oggetto era diventato pericoloso, viveva, prima era solo un pezzo di ferro.
«Non toccatela» disse rivolto agli altri.
«Svelto» disse Santamaria. «Questo non lo tieni facile.»
Il porco si ribellava, puntava il muso, premeva, voleva scappare. Forse aveva capito e lanciava urli da far spavento. Dicono che i maiali sentano l’arrivo della morte, e allora si difendono, mordono, scalciano riottosi. Nessuno vuole crepare senza reagire.
Rostapita impugnò l’arma e si avvicinò.
«Ocio!» intimò.
«Ocio che?» brontolò Zuan de Pil. «Mica possiamo mollarlo. Sbrigati invece.»
Due uomini si erano seduti sul maiale per tenerlo fermo. Quattro gli bloccavano le zampe. La grossa testa del suino pareva un ceppo e scattava qua e là. Era l’unica parte che poteva muovere e la muoveva per dire no. Rostapita avvicinò l’arma al testone e la premette in mezzo agli occhi.
«Tenetelo fermo» disse.
Ma fermo non lo tennero. Con un’impennata, il porco rinculò pochi millimetri proprio mentre Rostapita premeva il grilletto. Sentendo l’acciaio sul muso, l’animale aveva capito e voleva sottrarsi alla fine con l’ultimo scarto. Il pistoncino penetrò nel duro osso del cranio ma non a sufficienza per stendere il bestione. A quel punto il maiale fece sul serio. Terrorizzato dalla morte diventò drago. Con uno scossone si liberò di tutti e tutto. Saltò in piedi, non più urlando ma ruggendo. Il cilindro d’acciaio gli era rimasto conficcato in mezzo al capo. Invano Rostapita cercò di estrarlo. Il pistoncino era bloccato nell’osso come un ferro nel cemento armato. Il porco partì alla carica come una locomotiva. Facendo volare la neve, si lanciò in avanti verso la chiesa. Da lì, prese via San Rocco a tutta velocità, sempre col corno d’acciaio infilato nel cranio. Urlava da far accapponare la pelle. Correva aprendo la neve di cipria, che volava ai lati e ricadeva dietro di lui.
Dalla casa sotto la canonica stava salendo l’esperto norcino Pietro Paigne. Pacifico come sempre, le mani in tasca, andava a controllare se tutto procedeva bene. Nel caso a dare una mano. Non amava la confusione, ma quel giorno volle sovrintendere. Pietro Paigne era un uomo tranquillo, difficilmente scomponeva la voce o perdeva le staffe. Nelle situazioni più strane, comiche o drammatiche, conservava una calma olimpica e la serenità di chi, dopo settantacinque anni, ha capito qualcosa. Nonostante ciò quando vide sfrecciargli accanto un maiale da duecentocinquanta chili, con un cilindro d’acciaio piantato nel muso, restò allibito anche lui. Non si capacitava. La scena improvvisa, surreale, lo fulminò. Ma non si scompose. Guardò l’animale fendere la neve diretto verso i Buchi di Stolf. E poi percorrere a razzo l’intera via San Rocco e sparire ruggendo dietro l’angolo di casa Marmorin.
Nel frattempo, dopo il primo sconcerto, di là stavano organizzando la cattura. Chino Giant salì a casa a prendere il fucile, una vecchia doppietta Saint Etienne calibro dodici. Infilò due cartucce a pallettoni e tornò nel cortile.
Clausura, baionetta in mano e neve sul cappello, attendeva ordini.
Santamaria disse: «Stiamo calmi, non andrà lontano, non si fa molta strada con un tondino nel cranio».
«È forte» disse Rostapita, «non creperà facile. Maledetto! Si è mosso giusto nel momento sbagliato.»
Pietro Paigne avanzava verso di loro raschiando il muro della chiesa per schivare la nevicata. Arrivò davanti al gruppo degli ammazzatori fermandosi a gambe divaricate e mani in saccoccia.
«Canajs» disse con calma, «me sbalge o èe vedù ’n rinoceronte?»
Poi si versò un bicchiere. Quelli non avevano voglia di ridere né di rispondere a battute. Lo presero a male parole e partirono in fila indiana, uno dopo l’altro, sotto la neve, in cerca dell’animale.
Il porco aveva percorso tutta la via San Rocco e poi la discesa del rio Fontana fino alla piccola chiesa di Beorchia. Là, davanti al luogo sacro, era crollato finalmente morto. Teneva il muso rivolto alla porta come a ringraziare Dio per avergli risparmiato ulteriori sofferenze. Stava disteso in lungo, le zampe avanti, il testone infilato nella neve dalla quale emergeva il corno d’acciaio. Lo individuarono subito, non poteva che essere da quella parte.
Rostapita era preoccupato. Innanzitutto per la reputazione compromessa, poi per l’arma che lo aveva reso celebre. Temeva non trovarla, sprofondata da qualche parte nella neve o in un tombino o, peggio ancora, rovinata. Invece era là, cementata nel cranio del povero animale. Ci vollero parecchi strattoni per cavarla da quell’osso possente, duro come pietra.
«Non succederà più» disse, non senza...