Vita di Eleonora d'Arborea
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Vita di Eleonora d'Arborea

Principessa medievale di Sardegna

  1. 384 pagine
  2. Italian
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Vita di Eleonora d'Arborea

Principessa medievale di Sardegna

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Eleonora d'Arborea è uno dei personaggi più famosi e insieme meno documentati della storia sarda. Giudicessa d'Arborea - cioè sovrana di uno dei quattro giudicati, veri e propri Stati autonomi, nei quali era suddivisa l'isola - nella seconda metà del Trecento firmò un codice di leggi, la Carta de logu, rimasto in vigore con poche modifiche fino al 1827. Oltre a ciò, Eleonora fu l'ultima regnante indigena dell'isola, capace di radunare sotto un'unica bandiera le diverse popolazioni sarde che per la prima volta si riconobbero come "nazione" e lottarono con successo contro gli aragonesi. Inevitabilmente attorno alla sua figura nacque una leggenda, ampiamente alimentata soprattutto in epoca romantica. Eleonora è stata dunque rappresentata come principessa guerriera, raffinata madonna cortese, madre affettuosa, sposa fedele, avveduta massaia, devota cristiana, dotta legislatrice... Ma chi era la vera Eleonora? Nella sua biografia, aggiornata sulle più recenti scoperte documentarie, Bianca Pitzorno spoglia la giudicessa dei veli del mito e ne ricostruisce il vero volto, calato nella realtà del XIV secolo, raccontandone la vicenda con assoluta fedeltà alle fonti, senza rinunciare al brio e alla passione tipiche di questa grande narratrice.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852034213
Argomento
Storia

PARTE PRIMA

I

Vocazione di Eleonora

(1348)

«C’era una volta un giudice, sull’isola di Sardegna, signore di molte terre. La sua reggia era a Oristano, ma quasi tutta l’isola gli ubbidiva, e la parte restante era governata dai suoi amici catalani, che l’onoravano e lo rispettavano. Questo giudice si chiamava Ugone, ed era buono e saggio. Aveva dieci figli, e quando sentì avvicinarsi la morte, li chiamò attorno a sé e disse loro...»
«Ci state imbrogliando, duegna!» protestò Ughetto, interrompendo il racconto della vecchia governante. «Questa non è una fiaba di cavalieri. Questa è la storia del nonno. Nostro padre è uno di quei dieci figli, ed era a Barcellona quando il nonno morì. E neppure gli altri andarono al suo letto di morte, perché il nonno non morì a Oristano, ma alle terme di Santa Maria, me lo hanno raccontato. Noi vi avevamo chiesto una storia diversa.»
«È vero. Gli avevate promesso una storia di cavalieri» incalzò una delle molte serve, riunite con i bambini e i familiari del giudice nella grande sala del Palazzo giudicale di Oristano attorno al camino acceso, perché era inverno e faceva freddo.
«Perché? Vostro nonno non fu forse un valoroso cavaliere, messer Ughetto? E non è un prode cavaliere vostro padre, il giudice Mariano, che il Signore lo conservi per la nostra consolazione in questi giorni tremendi!»
«Guardate, duegna, alle mie sorelle non importa niente della vostra favola. La conoscono già. Se volevate distrarle o consolarle con le vostre ciance su nostro nonno, non ci siete riuscita» insistette puntiglioso il ragazzo.
Le bambine infatti non stavano neanche ad ascoltare. Beatrice piangeva sommessa con la testa affondata fra le gonne d’una giovane serva catalana dall’aria preoccupata che le accarezzava meccanicamente la schiena. Eleonora sedeva rigida sul sedile nel vano della finestra, tutta avvolta nel mantello di grossa lana guarnito di volpe, le orecchie tese ai rintocchi delle campane di Santa Chiara che arrivavano nitidi nell’aria cristallina della gelida mattina di febbraio.
Le campane di Santa Chiara suonavano a morto.
«Adesso cantano il Miserere. Adesso calano la pietra sulla fossa» disse Eleonora, come parlando a se stessa. «Adesso nostra zia Costanza sarà per sempre nel buio.»
«Perché non ci hanno portato al funerale?» protestò Ughetto. «Io volevo accompagnare nostra zia nel suo ultimo viaggio. Era la moglie del fratello di mio padre. Era una nobile dama, non aveva figli e ci voleva bene. Perché non me l’hanno lasciata abbracciare un’ultima volta? Io volevo abbracciarla e baciarla perché...»
«... perché siete un ragazzo ignorante e incosciente» lo sgridò il fisico di corte don Ammirato. «Volete che la peste porti via anche voi? Volete che il giudicato d’Arborea rimanga senza un erede?»
«Resterei io...» sussurrò piano Beatrice, girando appena la testa sul grembo della serva.
«E se morite anche voi, sorella, resterei io» aggiunse Eleonora con voce ferma, riportando sui presenti lo sguardo, fattosi subito vigile.
Le serve si guardarono sconcertate. La bambina aveva poco più di tre anni, ma conosceva già chiaramente i suoi diritti e l’ordine di successione.
«Non resterà nessuno, invece, se vi esporrete al contagio!» li ammonì severamente don Ammirato. «Non avete visto i morti per le strade? Non si trovano più casse per seppellirli! Il cimitero nuovo, quello verso Santa Giusta, dove ci sono solo i morti di peste, non ha più una fossa libera. E l’ospedale di San Lazzaro si riempie ogni giorno di moribondi... Dicono che in tutta l’Europa il morbo continua a uccidere la gente a centinaia: giovani e vecchi, ricchi e poveri, sani e ammalati... Non finirà mai questo flagello di Dio?»
«Perché nessuno dice al giudice che lo mandi via? Perché nessuno chiede a nostro padre che difenda Oristano? Lui è il principe di questa terra. Tutti gli devono ubbidire» disse Eleonora, battendo i tacchi delle scarpette di vaio contro il legno del sedile. Le serve si scambiarono sguardi indulgenti. Era noto a tutti che la donnicella più giovane considerava il padre una sorta di divinità onnisciente e onnipotente. E, sussurrava qualcuno, non era la sola a corte.
«La Morte Nera non risparmia nessuno,» rispose gravemente don Ammirato «e la spada di vostro padre non può niente contro di lei. Qui non si tratta di combattere i Doria o i Malaspina ribelli. Quando la Morte Nera è entrata per la prima volta nella vostra casa e ha portato via il giudice Pietro, vostro padre non ha potuto difenderlo anche se lo amava. Ha portato via vostra sorella – come dimenticate presto voi bambini! – e il nuovo giudice non ha potuto strapparle sua figlia. Ora ha portato via anche madonna Costanza, e cosa può fare il giudice se non seppellirla in Santa Chiara secondo il desiderio che aveva espresso da viva?»
«Non guarda in faccia a nessuno la Morte Nera!» incalzò con tono tragico una delle serve catalane venuta dalle campagne di Mataró. «Anche alla corte d’Aragona muoiono infanti e baroni. Il re Pere fugge di terra in terra con la nuova sposa, Leonora del Portogallo. Ma la Morte Nera li insegue. Già ha mietuto molti cavalieri del loro seguito e vedrete che alla fine riuscirà ad afferrare anche loro!»
«Ma ci dev’essere un rimedio! Ci deve essere qualcosa o qualcuno in grado di difenderci!» insistette Ughetto testardo.
«Nostro Signore e la Santa Madre di Dio! Solo loro possono salvarci!» rispose ispirata la serva di Mataró, e intonò con voce tremante la consueta preghiera: «A fame, a peste, a bello / libera nos Domine!».
Gli altri servi e familiari le fecero coro. Il fisico don Ammirato li lasciò finire, guardando altrove con un’espressione che mal nascondeva il suo scetticismo. Poi si rivolse ai tre piccoli figli del giudice, come agli unici nella sala degni di ascoltare la sua opinione.
«Invocate pure l’aiuto di Dio, donnicelli» disse. «Ma anch’io vi posso difendere, o almeno tentare di farlo, se mi ubbidite. Adesso, per esempio, vi sto difendendo, con la proibizione di accompagnare alla tomba il corpo di madonna Costanza, di accostarvi a quel cadavere gonfio, devastato, con le tracce del male ancora fresche di umori mortiferi. E vi ho difeso allora, due anni fa, tenendovi lontani dal letto di morte del giudice Pietro. Vostra sorella, ricordate, non ha voluto ubbidire. È entrata ad abbracciare lo zio per l’ultima volta, e la Morte Nera ha afferrato anche lei. E vi difendo quando proibisco alla duegna di condurvi a vedere le processioni dei flagellanti toscani, che vengono dai villaggi colpiti dal morbo portandoselo addosso anche se sembrano sani, e che frustandosi spargono sui curiosi il loro sangue infetto. E quando non vi lascio andare al porto, all’arrivo delle navi che vengono dal continente, dove la peste è più forte che da noi. Bisogna evitare il contatto con i malati. Madonna Costanza e le sue clarisse si erano dedicate alla cura dei moribondi di San Lazzaro, non dimenticatelo.»
«Non mi piacciono queste storie!» protestò Beatrice. «Non parliamo più della peste. Forse, se fingiamo che non esista, se la ignoriamo, anche lei ci passerà accanto senza accorgersi di noi.»
«Sì, non parliamone più» disse Eleonora. «Duegna, raccontateci una bella storia. Raccontateci di Agalbors, e come venne in Sardegna attraversando il mare su una nave tutta d’oro.»
E la duegna cominciò la storia con le stesse parole che aveva ripetuto mille e mille altre volte alle orecchie attente dei donnicelli e prima di loro a quelle della loro madre, lassù in Catalogna, nel castello di Roccabertí.
«Cento e cento anni fa la Sardegna era ancora divisa in quattro potenti giudicati. Ma Arborea era il giudicato più ricco e più forte e il suo giudice, Barisone, era stato incoronato re di Sardegna dall’imperatore Federico Barbarossa. Una notte d’agosto, era stato incoronato, nella chiesa di San Siro a Pavia, mentre in cielo splendevano le stelle più luminose. Era arrivato a Pavia con un seguito degno d’un principe antico, e l’imperatore Federico l’aveva abbracciato e baciato. Ma il destino fu crudele con Barisone, perché i perfidi genovesi, che si erano finti suoi amici, volevano del denaro in cambio della loro protezione e di quanto gli avevano prestato per ricevere degnamente la corona, perciò lo catturarono e lo tennero prigioniero per otto anni...»
«Non c’importa della corona di Barisone!» la interruppe stizzito Ughetto, il cui orgoglio mal tollerava il ricordo di quell’onta familiare anche se ormai vecchia di duecento anni. Una vergogna che richiamava alla memoria quell’altra più recente, inflitta alla dinastia De Serra Bas dai perfidi pisani, i quali avevano accusato il nonno Ugone d’essere un bastardo, pretendendo del denaro per concedergli di succedere al padre sul trono d’Arborea.
«Non c’importa della corona di Barisone! Ti avevamo chiesto di Agalbors!» incalzò Beatrice, e la vecchia con pazienza riprese le fila del racconto interrotto.
«Ai tempi che Barisone era un giudice forte e potente, al di là del mare regnava Ramon Berenguer, quarto conte di Barcellona e principe d’Aragona. I due combattevano insieme sul mare contro i pirati saraceni di Maiorca, commerciavano tra loro e andavano d’accordo in tutto. Così decisero di fare anche un altro tipo d’alleanza.
«Ramon aveva una sorella, Almodis, così bella che un nobile cavaliere, Ponç de Cervera, se n’era innamorato e l’aveva rapita. Ramon aveva perdonato ai due sposi, dal cui matrimonio erano nati molti figli. Ma una specialmente, Agalbors, superava la madre in grazia e bellezza. Agalbors era bella come il sole e Barisone se ne innamorò. Così ripudiò la prima moglie, Pellegrina de Lacon, e sposò la nipote del conte di Barcellona.
«Agalbors arrivò a Oristano sulla nave nuziale parata a festa. La nave era d’oro, e le sue vele di porpora e seta. L’accompagnava uno stuolo di dame e cavalieri vestiti di broccati e velluti, di zendado e pellicce di valore, ornati di perle e smeraldi. Suo zio Ramon Berenguer diventerà presto re d’Aragona. Suo marito Barisone sarà incoronato re di Sardegna e Agalbors diventerà regina. E mai ci fu regina, sposa di re e nipote di re, bella come Agalbors, davanti al cui viso impallidiva la chiara luna e scomparivano le stelle.
«Il suo sangue scorre nelle vostre vene, donnicelle, il sangue dei re d’Aragona e dei re di Sardegna, e la sua chiara bellezza splende sui vostri volti e sulle vostre membra.»
Così concluse la duegna, come ogni volta, con uno sguardo di complice e affettuosa deferenza verso le due bambine.
Ughetto, che era più grande e non si lasciava incantare così facilmente, guardò scettico le due sorelle. Nonostante le ricche vesti e le acconciature da lutto degne delle figlie del giudice, non gli sembravano affatto così belle, soprattutto in quel freddo inverno in cui la livida atmosfera della peste segnava di tristezza i due visetti smagriti.
Beatrice aveva i colori chiari del padre: capelli biondi e occhi verdi, ma tutto d’un tono più slavato, non le fiamme di liquido fuoco che guizzavano sul volto e sulle membra di Mariano.
Eleonora, come Ughetto, aveva preso dalla madre Timbors le calde tinte scure della razza catalana, rinforzate dal sangue sardo che in Mariano aveva fatto un’eccezione.
Ma la madre era una divinità per il ragazzino, con il suo ovale perfetto sul collo tornito, gli occhi scuri e fondi, lucidi come d’una febbre perpetua, la pelle compatta e splendente come bronzo levigato, nonostante l’abbondante uso di biacca.
Coloro che non l’amavano, le serve catalane rimproverate troppo aspramente, dicevano che madonna Timbors era varonil, troppo maschile, una sorta di virago. Troppo alta, troppo bruna, troppo fiera di modi e di portamento per essere una dama compita, anche adesso che non era più una ragazza ed era Donna de Logu, cioè moglie di giudice, da quasi due anni, per cui avrebbe dovuto più che mai essere esempio di dolcezza femminile per le due figlie e per le altre nobili dame del giudicato.
Queste le preferivano la cognata, Sibilla di Moncada, moglie del terzogenito Giovanni d’Arborea, che era tutta sorrisi e riverenze e ci teneva a sfoggiare in Sardegna i modi squisiti imparati alla corte d’Aragona, dove la sua famiglia godeva di molta considerazione. Madonna Sibilla educava in modo perfetto le sue bambine e il figlio Pietro, anche se aveva poche speranze di vederlo diventare un giorno giudice d’Arborea. Ughetto, l’erede, giudicava imparzialmente le cugine figlie di Sibilla più belle di Beatrice e di Eleonora. Forse la bellezza d’Agalbors aveva scelto loro, fra tante discendenti, per incarnarsi ancora una volta.
Benché bruna, per adesso Eleonora non aveva niente del fascino infuocato della madre: non l’ovale soave, non il lampo scuro degli occhi, non l’abbondanza lucente dei capelli. Ma purtroppo a tre anni aveva già dato chiari segni d’essere alquanto varonil.
Sua madre era indulgente con lei, troppo, e non la correggeva con la dovuta severità. Suo padre rideva della sua ostinazione e se la tirava sull’arcione quando partiva con pochi compagni per andare a caccia con il falco. Non sarebbe passato molto tempo, e le avrebbe concesso di partecipare, come a Ughetto, alle silvas, le grandi cacce collettive nei boschi più selvaggi del giudicato.
Era la minore, e dopo la sua nascita Timbors non aveva più concepito, nonostante le acque delle terme di Santa Maria, le pozioni curative di don Ammirato e i filtri delle donne catalane.
A Ughetto invece Eleonora non piaceva, ne era geloso. Aveva amato di più la sorellina morta all’inizio dell’epidemia. Quella sì, era dolce e gentile, gli ubbidiva in tutto, lo ammirava, lo proteggeva. Ma la Morte Nera se l’era portata via sottoterra.
Quella notte Eleonora si svegliò di soprassalto, come se qualcuno l’avesse chiamata, e si drizzò a sedere sul letto tendendo l’orecchio. Le campane di Santa Chiara non battevano più a morto. Solo una campanella più fioca, nella strada, segnalava l’inquieto vagare d’un lebbroso nella notte invernale.
La nutrice dormiva accanto a lei, con un leggero russare dal ritmo uguale e rassicurante. Il lume davanti all’immagine della Vergine rischiarava fiocamente la stanza spoglia, dove non c’era nessun altro, oltre alla donna addormentata e alla bambina.
Eppure Eleonora vide ai piedi del letto un’ombra scura, e la riconobbe: era la Morte Nera.
E sebbene l’Ombra non avesse labbra e nessuna parola risuonasse nella stanza, la bambina sentì chiaramente che la Morte le parlava.
«Prenderò anche te» le diceva in silenzio. «Anche tu sarai una mia preda. Non ora. Non subito. Ti lascerò del tempo. Ti lascerò abbastanza tempo per fare quello che devi. Ma alla fine sarai mia. Io sono la tua padrona.»
L’angoscia muta di Eleonora, all’inizio gonfia e fremente come una vela sotto il vento di tempesta, si quietò, calò a quel «non subito», che allontanava da lei il pericolo imminente. Aveva solo tre anni e il futuro le sembrava una lunghissima strada senza fine. Ma da quel preciso momento seppe che, per lontana che fosse, alla fine della strada c’era quell’Ombra che l’aspettava.
Era il 1348. Giovanni Boccaccio, nella prima giornata del suo Decamerone, racconta che un mercoledì di quello stesso anno, a Firenze, «[...] in su lo schiarir del giorno, le donne con alquante delle lor fanti e i tre giovani con tre lor famigliari, usciti dalla città, si misero in via, né oltre a due piccole miglia si dilungarono da essa, che essi pervennero al luogo primieramente ordinato. Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto dalle nostre strade, di vari arbuscelli e piante tutte di verdi frondi ripiene piacevole a riguardare».
E da quel luogo, per ingannare, per dimenticare l’Ombra, uscirono cento novelle che furono la pietra miliare della civiltà italiana di quel secolo.
Ma questa non è storia: è il sogno d’un poeta.
Anche quello che abbiamo raccontato fin qui di Eleonora altro non è che l’ombra d’un sogno, ricostruito attraverso microscopici indizi.
Di lei non sappiamo la data di nascita né il luogo. Forse nacque in Catalogna, nel feudo appartenente alla famiglia materna, forse vide la luce in Sardegna, a Oristano oppure nel castello del Goceano di cui suo padre era conte. Probabilmente da bambina viaggiò tra la Sardegna e la Catalogna. Esiste una lettera che suo zio Giovanni scrisse alla cognata Timbors, invitandola a tornare con i figli in Sardegna. Nei primi tempi del matrimonio suo padre Mariano viaggiava; si recava non solo nella penisola iberica, ma anche in Toscana, probabilmente pe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Bianca Pitzorno
  3. Vita di Eleonora d'Arborea
  4. Premessa
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. PARTE TERZA
  8. PARTE QUARTA
  9. PARTE QUINTA
  10. Epilogo
  11. Bibliografia
  12. Copyright