Sinistra
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Per il lavoro, per la democrazia

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  1. 176 pagine
  2. Italian
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Per il lavoro, per la democrazia

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"Chi si dice di sinistra, oggi, lotta per un mondo diverso o fa solo resistenza? È un progressista o un conservatore di ciò che resta del passato, in un mondo divenuto ostile e incomprensibile?"
La crisi della sinistra italiana, come emerge da queste parole di Carlo Galli, è innanzitutto una crisi di identità. Le incertezze attuali hanno radici storiche profonde, legate alle molteplici e spesso inconciliabili componenti di quest'area, ma si sono accentuate con l'affermarsi, negli anni Ottanta, del neoliberismo, la "quarta rivoluzione" del Novecento. Una rivoluzione che la sinistra si è limitata a subire, in tutto l'Occidente, senza riuscire a contrapporre una visione alternativa dell'economia e della società.
Ora che il modello neoliberista è a sua volta entrato in crisi, portando l'economia alla recessione e la società alla disgregazione, la storia offre una nuova opportunità alla sinistra e al tempo stesso le affida una difficile impresa: guidare una sorta di "quinta rivoluzione ", la prima del XXI secolo, bloccare gli aspetti distruttivi del capitalismo, cambiarne il volto e il rapporto con la politica. La riflessione di Galli prende le mosse dalle origini storiche e filosofiche della sinistra a livello internazionale e ne ricostruisce il cammino percorso in Italia - tra luci e ombre, indiscutibili meriti e fatali carenze - per poi indicare la rotta da seguire oggi. Incalzata dalla crisi economica e dall'antipolitica nelle sue diverse espressioni, in un panorama sempre più frammentato e insidioso in cui alla destra neoliberista rischia di aggiungersi quella neonazionalista, la sinistra deve promuovere "un nuovo incontro, che sia un nuovo patto costituente, un nuovo accordo fra gli interessi del Paese". Deve riportare al centro il mondo del lavoro, nelle sue varie articolazioni e fragilità: "Tutto il lavoro dipendente, e anche tutti i piccolissimi artigiani e imprenditori individuali che sono indifesi davanti allo strapotere del capitale e delle sue istituzioni; e naturalmente tutti i disoccupati, i non occupati, i precari, i licenziati, i cassintegrati". Non si tratta di un nostalgico ritorno al passato, ma di un nuovo corso - un new New Deal, come lo chiama l'autore - che richiede un complesso sforzo di elaborazione.
Ridare alla politica autonomia e capacità di orientamento, restituire al lavoro quella dignità di cui è stato depredato sono le sfide che Galli indica alla sinistra italiana nel delicato contesto europeo. La posta in palio è altissima: "La sconfitta del lavoro si rivela una sconfitta della democrazia. Una società migliore per il lavoro è una società migliore per tutti".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852033605

III

Il Pci e la strategia della doppiezza

Veniamo da molto lontano e andiamo molto lontano.
PALMIRO TOGLIATTI, Discorso
all’Assemblea Costituente
, 1947
There is no place I’m going to.
BOB DYLAN, Mr. Tambourine Man, 1965
Dal punto di vista della sinistra le vicende del secolo XX sono così sintetizzabili. La sinistra socialista ha visto nell’Ottobre non solo una rivoluzione ma una rivelazione, cioè un prodigio e un modello. E ha visto nel fascismo una forma acutissima di ostilità. Mentre dalla terza rivoluzione, quella dello Stato sociale, è stata sfidata e non vi ha potuto pienamente aderire. Mentre dalla quarta è stata sconfitta.
Ma questi rapporti generali si sono variamente articolati; rispetto al leninismo – che è stato l’occasione della nascita del Pcd’I – parecchie parti, anche differenziate fra loro, della sinistra marxista hanno preso le distanze, vedendovi un elemento di decisionismo antistorico, una forzatura volontaristica e i semi di una tirannide di partito, che da Parte si fa Tutto, diventando il centro reale del potere politico anziché andare verso il superamento della politica; mentre altri, come il giovane Gramsci della «rivoluzione contro Il Capitale» apprezzavano proprio che avesse dimostrato che il marxismo non è il meccanicismo positivista della Seconda Internazionale, ma una teoria che sa farsi azione senza pedanterie. Allo stesso modo, davanti a una sinistra liberaldemocratica presto ostile, Gobetti vide invece nel bolscevismo una risorsa in grado di ringiovanire la morente politica dell’età borghese.
Se l’Ottobre è stato segno di contraddizione per le sinistre, lo stesso si può dire per il fascismo; respinto con coerenza dagli antifascisti della sinistra borghese, e oggetto di complesse e contrastanti valutazioni da parte marxista. Che ne ha visto, ovviamente, il carattere reazionario, estremistico e terminale, ma anche la rilevanza politica autonoma, il carattere di nuova fase di dominio, totalitario; e che ha a lungo esitato fra queste due interpretazioni. Alla prima corrisponde la politica del «socialfascismo», dettata dal VI Congresso Comintern del 1928, derivata dall’idea che il capitalismo fosse sul punto di crollare e che il fascismo fosse la risposta disperata e priva di futuro, alle sue interne contraddizioni, così che chiunque (comprese le socialdemocrazie) cercasse di fare uscire il mondo borghese dall’esperienza fascista senza preparare un orizzonte comunista era di fatto equiparabile al fascismo come responsabile del tentativo di tenere in vita il capitalismo; la seconda è invece implicita nella politica dei Fronti popolari, lanciata ufficialmente dal VII Congresso Comintern del 1935, che prevede un’alleanza del comunismo con le forze democratiche contro il fascismo inteso come non coincidente col capitalismo, ma solo con la sua parte più reazionaria.
Lo Stato del welfare, poi, è stato il trionfo della sinistra liberaldemocratica e socialdemocratica, della loro idea non di oltrepassamento del capitalismo e del mondo borghese ma di una sua trasformazione riformista, anche profonda, grazie all’applicazione concreta e all’ampliamento quantitativo della cittadinanza. Davanti agli effetti di saturazione e di omologazione dello spazio politico e alle contraddizioni interne del modello, la sinistra radicale ha avanzato critiche rivolte a denunciare sia la non sufficiente capacità trasformativa di queste politiche (la posizione classicamente marxista) sia, secondo la strategia argomentativa della Scuola di Francoforte, gli effetti di «dominio» inerenti le società industriali avanzate (il pluralismo, qui, è in realtà una nuova forma di totalitarismo).
Ma per decifrare la condizione storico-spirituale della sinistra (particolarmente italiana), oggi, davanti alla quarta rivoluzione, si deve vedere più da vicino come essa si è collocata nella storia della repubblica.
La sinistra italiana, evidentemente, non nasce nel 1945. Anzi, a quell’altezza ha già quasi tutto alle spalle: la sinistra borghese (liberale, radicale, mazziniana, azionista), la sinistra socialista, e quella comunista; il giacobinismo vecchio e nuovo, il massimalismo e il riformismo, il sindacalismo e la cooperazione; ha attraversato il positivismo, l’idealismo, e ha interpretato il marxismo con diversi e sofisticati strumenti, ibridando il socialismo anche con la tradizione liberale. Annovera nel suo passato, fra gli altri, Costa, Prampolini, Turati, Salvemini, Gobetti, Amendola, Mondolfo, i fratelli Rosselli, Buozzi, Basso, Morandi; e Labriola, Bordiga, Graziadei, Tasca. Oltre che, naturalmente, Gramsci.
Ma è la sua influenza politica in grande stile che comincia, di fatto, nel 1945 – nonostante la forza numerica che prima e dopo la Grande Guerra le assegnavano municipi rossi, cooperative rosse e sindacati rossi, era stata infatti sconfitta dal fascismo, anche per le sue divisioni (fra massimalisti, riformisti, comunisti) e le sue incertezze. Un’influenza politica dovuta a diverse motivazioni: al ruolo preponderante avuto nella Resistenza (nei suoi aspetti di guerra di liberazione, di guerra civile, di guerra sociale), al successo elettorale del 1946 che la legittimò ad amministrare un gran numero di importanti realtà locali, e le diede la forza di essere partner a pieno titolo delle forze cattoliche e borghesi nello scrivere la Costituzione. Un’influenza che scemò nel breve periodo, con l’estromissione delle sinistre dal governo nel 1947 e con l’attivazione della conventio ad excludendum verso il Partito comunista, che rendeva quest’ultimo asimmetrico rispetto all’altro partito di massa, la Democrazia cristiana. Ma che fu compensata, in una certa misura, dal successo della principale mossa politico-intellettuale, dell’intuizione strategica, di Togliatti. Ossia la svolta di Salerno e quanto ne è coerentemente seguito: la costruzione del «partito nuovo», l’assegnazione al Pci e alla classe operaia di un ruolo nazionale e non settario, e l’«invenzione» di Gramsci. Ossia la proposta al sistema politico e culturale italiano di una peculiare declinazione del pensiero dialettico, capace di dialogare con i livelli più alti della cultura borghese e di interpretare in modo originale le logiche dell’oltrepassamento e il nesso Parte/Tutto.
Il «Gramsci di tutti gli italiani», il Gramsci di cui Croce scriveva che «come uomo di pensiero fu dei nostri», è il Gramsci di Togliatti; è un Gramsci per tutte le stagioni, buono per dialogare col mondo liberale ma anche per riaffermare l’ortodossia leninista in una peculiare «specificità nazionale»; è il «grande intellettuale» che opera für ewig ma anche il politico che proprio nella lotta e nella contingenza mette a punto il suo pensiero, che è quindi un pensiero situato, rivolto a interpretare una sfida concreta, una fase storica determinata. Un Gramsci la cui fondamentale prestazione, in ogni caso, era l’idea che la rivoluzione comunista in Italia fosse possibile non attraverso un’applicazione meccanica del marxismo ma solo attraverso la re-interpretazione della storia d’Italia – del Risorgimento, della questione meridionale, del ruolo degli intellettuali, del socialismo –, e fosse quindi un oltrepassamento e un rovesciamento dell’egemonia borghese e dell’esperienza fascista, l’analisi critico-pratica delle loro debolezze e delle loro contraddizioni. Padre della «via italiana al socialismo», fatta propria dal Pci, Gramsci è il pensatore antidogmatico dell’egemonia e della dittatura del proletariato, dei Consigli e del Partito, ma non è un opportunista: è semmai la fonte di legittimazione teorica, storica e pratica della politica di alleanze tra operai, contadini e intellettuali, imperniata sulla «funzione nazionale» della classe operaia, ovvero della proposta politica del Pci al Paese: la «democrazia progressiva», l’alleanza dei partiti di massa, con l’obiettivo di realizzare la gestione avanzata e riformista della democrazia borghese, secondo la linea avanzata da Togliatti già nell’aprile del 1944.
È questa una linea politica di collaborazione della classe operaia con un largo blocco sociale, che si situa oltre il riformismo e al di qua dell’aperta dittatura del proletariato – una politica, ovviamente, a guida comunista; una sorta di tentativo di rendere con metodo democratico il Paese più omogeneo e meno lacerato, e al tempo stesso di avviarlo al superamento dell’impianto borghese e capitalistico del potere. Se la Resistenza è stata una rivoluzione democratica in un Paese arretrato, la democrazia progressiva vuole esserne il completamento democratico materiale e sociale: pertanto la democrazia progressiva non vuole eliminare né lo Stato né la piccola e media proprietà. Insomma, è una linea che si incentra sull’esclusione militare e politica del nemico – il fascismo; che si impegna a lottare duramente contro la reazione borghese-agraria; che tuttavia offre una collaborazione alle forze democratiche non socialiste. La linea di un’egemonia sulle forze sociali rese progressivamente omogenee e consenzienti, e di un comando politico vero e proprio sulle forze non omogenee, secondo la lettera di Gramsci. Quindi, un progetto di socialdemocrazia transitoria, di universalità democratica finalizzata a un oltrepassamento effettivo delle forme economiche e politiche del mondo liberale e borghese, verso una democrazia popolare o socialista che restava sullo sfondo. Con una zona grigia per quanto riguardava le specifiche forme politiche e le garanzie costituzionali della democrazia borghese, relativizzate come una fase storica della democrazia.
Per quanto si possa vedere in questa politica una continuità con la vecchia posizione dei Fronti popolari, per quanto vi si possa scorgere all’opera una logica di compromesso, e l’incapacità (o la mancanza di volontà) di pensare davvero oltre una transizione dilatata praticamente all’infinito, la democrazia progressiva di Togliatti e del Pci è indubbiamente sorretta da un paradigma forte, non solo filosofico (un marxismo non scolastico) ma anche empirico (un’analisi attenta e prudente della società italiana, non priva però di lacune sulla comprensione del dinamismo del capitalismo occidentale: l’America che per Gramsci è trainante, per Togliatti è invece stagnante o almeno in involuzione). Tutto ciò è innestato su un crinale politico stretto e difficile: Togliatti sa bene di dover essere il più fedele possibile all’Urss, pur collocandosi nell’emisfero occidentale, senza essere settario e al contempo senza perdere la chance di fare del Pci un grande partito nazionale; e quindi elabora la teoria della via italiana al socialismo e apre così il problema, appunto, della qualità «italiana» del «socialismo». Un problema che ha due facce secondo che l’oltrepassamento del capitalismo coesista o confligga con l’appaesamento del Pci nella democrazia liberale. Sta proprio nel non porre la questione in termini di aut aut nel presente, ma nel declinarla come evoluzione storica, la «doppiezza» del Pci, che ne ha fatto un partito della democrazia e al tempo stesso un partito che guarda oltre la democrazia borghese, un partito di sinistra e al contempo un partito comunista.
È una doppiezza strategica – in politica interna e in politica estera –, che non è malafede, ma che deriva dal cuore del pensiero dialettico (particolarmente se interpretato come storicismo), ossia dall’idea che il ritmo della storia e della politica è evolutivo, e che in ogni posizione (anche nella democrazia) è contenuto un elemento di contraddizione che la rende instabile, che le impedisce di essere la figura «ultima» della storia, che anzi la mobilita verso il proprio oltrepassamento. La cui qualità è prevedibile a priori solo nelle grandi linee (il socialismo come orizzonte ultimo) ma non nei tratti empirici, concreti, politici. Tutto ciò ha fatto sicuramente del Pci una strana bestia, una «giraffa» come disse Togliatti a La Malfa in un dialogo fra due sinistre (quella socialista e quella borghese) del 1960; bestia appunto strana ma nondimeno esistente (tuttavia, la questione vera, irrisolta, non era la sua esistenza quanto piuttosto la sua ulteriore evoluzione).
In ogni caso, quello che qui si deve sottolineare è che la doppiezza nel Pci si presenta con una variante decisiva: mentre il pensiero dialettico è costruito sul movimento logico e storico di una Parte che si apre al Tutto come alla propria negazione determinata, il Pci si è proposto fin da subito come asse portante del Tutto – dello Stato democratico –, come cardine della democrazia repubblicana, e al tempo stesso ha scommesso sulla propria capacità di essere, rispetto a quel Tutto, anche la Parte capace di spostare avanti l’orizzonte della democrazia verso l’orizzonte del socialismo, pur accettando la democrazia come lo spazio che per intanto determina l’azione politica reale. Non è stata, quindi, quella del Pci una politica moderata o «traditrice» del socialismo, certo; ma è stata una politica responsabile verso la democrazia e le sue istituzioni politiche, sempre attenta alle sue compatibilità sistemiche (per esempio, al rifiuto della violenza), anche nei durissimi e accesissimi scontri sociali e ideologici del tempo della guerra fredda; al socialismo si va non come classe ma come Intero, come democrazia italiana (anche se non si sa bene quanto questa debba cambiare per essere socialista). Il fine resta il socialismo, ma non si fanno passi specifici verso di esso: semmai, verso l’allargamento della democrazia; il Pci infatti utilizza le contraddizioni della società italiana per allargare la partecipazione di fatto, sociale e materiale, alla democrazia, non per oltrepassarla o per impiantare modificazioni reali dei rapporti di potere, e si costituisce piuttosto come differenza etica, come mondo morale, come comunità di popolo; ma politicamente gioca la partita dell’universale, dell’universalità democratica, dello Stato democratico di cui il Pci si sente a pieno titolo co-fondatore insieme alle forze democratiche borghesi – con un’interpretazione etico-civile della Resistenza che mette in secondo piano gli elementi di classe.
La conventio ad excludendum tiene quindi il Pci fuori dal governo, e gli consente di sviluppare un’accesa polemica antidemocristiana, ma non lo tiene fuori dalla democrazia, che è anzi il suo orizzonte presente: mentre a livello dottrinale la teoria dell’oltrepassamento non può essere rinnegata, a livello di pratica politica della democrazia repubblicana si criticano i contenuti retrogradi ma non la forma, l’applicazione ma non i principi. Le lotte che il Pci guida sono lotte di difesa e di avanzamento della condizione operaia e contadina, e di intensificazione della capacità produttiva nazionale contro i monopoli, contro il latifondo e contro la de-industrializzazione; ma non sono lotte settarie, e neppure estremistiche. Mentre durezza estrema, senza alcuna interlocuzione con l’avversario – in realtà, di fatto, col nemico –, il Pci mette nella difesa della democrazia, dello Stato democratico, delle istituzioni democratiche: dal governo Tambroni, dalle Br, dallo stragismo nero, e dalla P2. Partito di lotta e di governo, il Pci, mentre lotta contro un mondo borghese inadeguato, governa – cioè propone un modello di democrazia al Paese; e, mentre governa, lotta – cioè mostra come si possa dare un uso politico, progressista, delle istituzioni.
Così, mentre gli sforzi per l’allargamento della democrazia diedero risultati di volta in volta diversi, l’obiettivo del socialismo diventò una sorta di mito, di «sogno» (termine togliattiano), che orientava l’orizzonte d’attesa del Pci ma che non ne dettava la politica concreta; quell’obiettivo, però, oltre ad avere contorni sfumati per la distanza, era al tempo stesso un fattore identitario, cioè non era tanto inerte da non costituire una fede sempre meno praticata ma mai abiurata, fino al Crollo. Semmai, in tutto ciò il rischio vero era che la dialettica, la forza dell’inquietudine e del movimento verso il socialismo, si trasformasse in una doppiezza adialettica, in una sorta di alibi permanente che consentiva al Pci di essere come la Chiesa per sant’Agostino, cioè di stare nel mondo (in questo caso, borghese e liberale) senza essere del mondo. Il rischio che il Pci fosse forza di inclusione nella democrazia, di allargamento del perimetro della democrazia, senza che mai il partito accettasse di essere (e di essere definito) socialdemocratico; fu così che il Pci restò formalmente esterno alla rivoluzione del riformismo, anche nella sua modesta versione italiana. E che il suo socialismo, al di là dell’elemento fideisticoidentitario, finì nella pratica per essere filo-sovietismo in alcune questioni di politica internazionale, almeno fino a una certa data (fino al 1956 compreso: ma già dopo il 1968 e l’invasione della Cecoslovacchia, il rapporto con l’Urss si fa sempre più teso e problematico, benché sugli euromissili fra il 1979 e il 1983 il Pci non abbia fatto proprie le posizioni occidentali).
La doppiezza del Pci funziona a due direzioni: se da un lato fornisce alibi per essere fieramente Parte e per non aderire del tutto ai ritmi concreti della politica italiana, alle scelte del momento – e anche per rifiutare l’uso del concetto di «totalitarismo», se applicato all’Urss –, dall’altro però fa della sinistra ufficiale di fatto un pilastro dello Stato e della democrazia, una forza capace di stare costruttivamente e progressivamente nella società proprio perché crede nella democrazia del presente e al contempo nel socialismo del mondo che verrà. Alibi, quindi, ma anche mani libere per una politica entro certi limiti spregiudicata e in ogni caso non settaria, laica. E infatti ogni cambiamento di strategia – dalla democrazia progressiva al compromesso storico all’alternanza democratica – è stato sempre presentato come una «svolta nella continuità»: perfino l’esito finale della vicenda del Pci, lo scioglimento dei Ds nel Pd, è stato interpretato come la realizzazione del compromesso storico.
È questa duplice valenza della «doppiezza» a spiegare anche l’azione del Pci dove questo ha avuto diretta e costante responsabilità di governo locale, cioè la costruzione di un universale sociale-amministrativo, di una società omogenea. Nel cuore rosso dell’Italia, e in particolare in Emilia, la regione più storicamente composita d’Italia (sede di tre Stati preunitari), che ha conservato la propria interna differenza e articolazione provinciale anche all’interno della lunga egemonia comunista.
Dopo il turbolento e tragico biennio 1945-46, l’Emilia – dove la Resistenza (prevalentemente comunista) ebbe luogo non solo in montagna e in città, ma anche nelle campagne – visse negli anni Cinquanta una fase di «contropotere rosso»: le amministrazioni di sinistra erano sorvegliate speciali delle prefetture, e al tempo stesso esibivano orgogliosamente la propria onestà (i «conti a posto») in chiave antidemocristiana; mentre negli anni Sessanta e Settanta (dopo la Conferenza di organizzazione del Pci del 1959, in cui si affermò il «rinnovamento nella continuità») l’Emilia si propose come modello nazionale di allargamento del perimetro della democrazia; e dopo il 1977 e la crisi di legittimità che allora si aprì, il Pci divenne sempre più autoreferenziale, per approdare infine a un profilo essenzialmente manageriale (benché sorretto da una cultura democratica). Il forte tratto identitario – una sorta di mitologia dell’accerchiamento – accomunò per i primi decenni del dopoguerra il Pci emiliano e quello nazionale, anche se il partito regionale più forte d’Italia, con numeri e percentuali di iscrizione e di partecipazione alle assemblee comunali e provinciali davvero impressionanti, non ebbe mai nei livelli nazionali uno spazio politico proporzionato alla sua forza.
Ma al di là della periodizzazione, un profilo generale dell’esperienza comunista in Emilia non può non rinvenire una continuità, a partire dal discorso di Togliatti a Reggio Emilia, Ceto medio ed Emilia rossa, nell’autunno del 1946. In quel discorso, oltre che l’esaltazione della sanguigna laboriosità delle genti emiliane e romagnole, c’è una strategia di costruzione di una società che avrebbe dovuto essere un modello per la nazione – in continuità, secondo Togliatti, col ruolo nazionale dell’Emilia nel Risorgimento. Il modello, cioè, di quel «patto tra produttori» che era il lato economico della «democrazia progressiva». Quel patto in Emilia prende l’aspetto della continuità del Pci rispetto al riformismo socialista prefascista, con due varianti: il «partito nuovo» togliattiano e gramsciano avrebbe dovuto avere una maggiore coerenza ideologica rispetto al socialismo, e avrebbe dovuto superare al tempo stesso i limiti classisti e particolaristici che avevano portato i socialisti a privilegiare le ragioni dei braccianti a scapito di quelle dei mezzadri e dei piccoli proprietari, e a chiedere un’anacronistica socializzazione della terra, il che aveva contribuito a determinare la frattura sociale in cui si sarebbe inserito il fascismo.
Proprio perché dottrinalmente consapevole e coerente, il Pci può così rendersi promotore e garante, in Emilia, di una collaborazione sociale fra ceti distanti, nelle campagne e nelle città – fra operai, braccianti, mezzadri e ceti urbani progressivi; a questa collaborazione, che certamente non eliminò le asprezze, anche drammatiche, della lotta sociale si affiancava la sfida rivolta al capitalismo a essere produttivo, innovatore, e responsabile verso il territorio e la società. Questo impulso strategico primario – centrato sul lavoro come motore della democrazia – aveva l’obiettivo in qualche modo epico di includere nella cittadinanza ceti sociali a lungo subalterni, di condurre uomini e donne «dai tuguri e dalle stalle ai municipi», e fu sostenuto dalla costruzione della rete del welfare locale – dalle municipalizzate alle farmacie comunali, dalle case popolari alle scuole per l’infanzia, dalle istituzioni culturali ai servizi sociali alla persona – per opera di un ceto di amministratori, mediamente capaci e responsabili, che è la sostanza storica peculiare del socialismo emiliano. E fu sostenuto anche da una componente economica specifica e sinergica rispetto alle amministrazioni, cioè dal movimento cooperativo, non soltanto autodifesa economica dei ceti meno abbienti ma modello di impresa orientato a principi non solo di competizione per il profitto ma anche di mutualità e di solidarietà.
Ma soprattutto in Emilia ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sinistra
  3. Introduzione - Sinistra. Una parola, molti problemi
  4. I. Preludio filosofico – Tre tradizioni moderne
  5. II. Il secolo delle quattro rivoluzioni
  6. III. Il Pci e la strategia della doppiezza
  7. IV. La Parte fra politica e antipolitica
  8. V. La politica del lavoro, il lavoro della politica
  9. Bibliografia
  10. Indice dei nomi
  11. Copyright