«Tu sei Balor. È stato definitivamente accertato. I McGlanchys ne sono convinti, e ciò che stabilisce il loro potentissimo clan è verità indiscutibile. Balor… te l’ho già spiegato chi è? Be’, te lo ripeto. È un orco che può abbattere qualsiasi avversario, anche il più agguerrito, con un semplice soffio. Non tanto semplice, in verità. Il suo fiato, non è fiato, è un turbine. E se qualcuno osa aggredirlo alle spalle, a Balor basta spalancare il suo Occhio Maligno, che porta sulla nuca, per incenerirlo come un pupazzo di paglia secca. Whamp!»
E qui David, il pastorello di Belashanny era scoppiato a ridere. A quattordici anni, un ragazzo si sbarazza delle favole come della propria infanzia. Solo invecchiando si torna ad affezionarsi alle tradizioni, a cominciare da quelle più assurde.
Silenzio l’aveva conosciuto, Eocha McGlanchys, il temuto capo del clan che spadroneggiava su quell’angolo sperduto d’Irlanda. Eocha gli aveva chiesto di combattere al suo fianco contro gli invasori inglesi: gli odiati sassanas. Ma a Silenzio, la voglia di guerra era passata. Anzi, desiderava tornarci, in Inghilterra, nel Derbyshire, a Barley, dove lo consideravano un prodigio della natura o un mostro, a seconda dei casi. Ma comunque un essere umano, non una creatura dagli infernali poteri, sbucata, chissà come, dal mondo degli incubi.
Un orco… credono che io sia un orco.
Si era lasciato crescere i capelli. Anche se avesse avuto un terzo occhio sulla nuca, non avrebbe potuto vedere un bel niente.
Si accarezzò la barba, meditabondo.
Devo essere cambiato parecchio… spavento le persone più di quanto facessi prima?
Non si specchiava da mesi. Non ce l’aveva, uno specchio. Non gli era mai piaciuto specchiarsi. Quando gli capitava di farlo, osservava il suo volto come se appartenesse a un estraneo: un altro che lo stava fissando e che, forse, si stava chiedendo anche lui chi fosse quel tizio dall’altra parte.
Si levò in tutta la sua colossale statura e s’incamminò in direzione del bosco. Era tornata la primavera, ma poiché per gli irlandesi cominciava il primo di febbraio, giorno di Santa Brigida, la natura non era stata ancora avvisata. Faceva più freddo che mai. In quella alba livida, i cespugli, congelati dalla brina, sembravano sculture di ghiaccio. Una calma inerte, desolante, imprigionava il mondo.
Ma, nel bosco, non si è mai davvero soli. Si destavano, tra le felci irrigidite, fugaci segnali di vita – crack, tunf, plic, flush – timidamente inviati da presenze più che discrete: invisibili.
Silenzio non credeva alle fate e ai folletti, non ne aveva mai incontrati. Però nemmeno si sentiva di escluderne l’esistenza. Chi poteva dire con certezza che certe sottili vibrazioni di frasche smosse, esili indizi di fughe precipitose a nascondersi nelle macchie più folte, fossero causate unicamente da delle bestiole? Sei un esserino minuscolo, avverti un passo pesante, scappi. È normale. Giganti e gnomi non sono fatti per vivere insieme.
Andate in pace, che io cammino in pace.
Silenzio giunse al torrente. Si inginocchiò sulla riva e si specchiò nell’acqua. L’altro era irriconoscibile. Una maschera pelosa dagli occhi di vetro scuro, come d’un lupo impagliato.
L’ennesimo fruscio lo distrasse.
In cima all’argine era comparso un alce di proporzioni strabilianti. Silenzio non ne aveva mai visti, di così imponenti. Misurava più di due metri d’altezza e quasi doppia era l’ampiezza delle corna: due spettacolari palchi che si allungavano ciascuno in sette ramificazioni dalle punte aguzze e incurvate. Il petto e il dorso, ingobbito, erano ricoperti da un folto strato di pelo fulvo. Il corpo era massiccio come quello di un toro. Le zampe incredibilmente snelle. C’era da chiedersi come facessero a sostenere tutto quel peso.
L’animale si era immobilizzato lì, fiero e intimidatorio. Silenzio lo fissava dal basso, trattenendo il respiro. Non gli era mai capitato di confrontarsi con una creatura gigantesca quanto e più di lui.
Superò l’iniziale meraviglia e gli cedette il passo, spalancandogli il guado. L’alce rifiutò l’offerta, si ritirò sdegnoso, e scomparve tra la vegetazione.
Peggio che se gli avesse sputato addosso.
Durante l’inverno, Silenzio si era costruito un arco. Non gli era neppure passato per la mente di procurarsene uno già fatto a Belashanny. Un buon arco è inseparabile dall’arciere, deve corrispondergli per altezza, per grado di flessibilità, per lo spessore dell’impugnatura e delle ali. Un arciere, il suo arco deve fabbricarselo da solo e su misura.
Aveva usato del legno di frassino. Prima del suo arco ideale, ne aveva intagliato uno provvisorio. Piccolo, comodo da impugnare, a corta gittata. Per corda, aveva usato un laccio di budello che aveva già con sé. Dallo stesso legno, aveva poi ricavato una lunga lancia, cui aveva applicato una punta d’osso. Per quanto rudimentali, quelle armi gli erano servite per uccidere un cervo, uno solo, ma sufficiente a procurargli i tendini necessari per il rinforzo e per la corda dell’arco perfetto che aveva in mente di costruire. Il lavoro aveva richiesto almeno un mese perché l’arma risultasse davvero efficiente. Finalmente, attraverso molteplici e minute operazioni di intaglio, modellatura, riscaldamento e raffreddamento, rifinitura e st...