La crisi dell'impero Vaticano
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La crisi dell'impero Vaticano

Perché la Chiesa è diventata il nuovo imputato globale

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  1. 156 pagine
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La crisi dell'impero Vaticano

Perché la Chiesa è diventata il nuovo imputato globale

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Le clamorose dimissioni di Benedetto XVI avvengono alla fine di una lunga sequenza di scandali che hanno travolto il Vaticano dalla morte di Giovanni Paolo II a oggi. Un Vaticano spinto quasi a forza dalla parte opposta di un simbolico confessionale. Costretto a difendersi, a confessare "peccati" veri e presunti. E non solo davanti a se stesso ma anche ai suoi fedeli disorientati, al tribunale dell'opinione pubblica occidentale e a quello delle istituzioni finanziarie internazionali. La Chiesa, "maestra di vita" per antonomasia, rischia di essere confinata dalla propria crisi di identità nella posizione scomoda e inedita di "imputato globale". Gli scandali e i veleni che hanno toccato alcune delle persone più vicine a Benedetto XVI sono dunque percepiti come il sintomo di una decadenza allarmante. Al punto che fra gli avversari si parla del Vaticano come di un "secondo Cremlino", destinato alla stessa rovinosa caduta dell'impero sovietico dopo la guerra fredda. Massimo Franco analizza le cause profonde e le implicazioni di un affanno emerso con il tramonto della Seconda Repubblica berlusconiana, legata alle gerarchie ecclesiastiche da una lunga alleanza di fatto: una stagione da cui il cattolicesimo politico riemerge diviso e debole, dopo avere cercato invano di ricompattarsi. A colpire sono soprattutto le conseguenze mondiali della crisi dell'"impero" del papa. Le lotte di potere, le soffiate dei "Corvi", le manovre all'interno dei palazzi apostolici mostrano l'intreccio fra politica italiana e dinamiche globali. La tormentata metamorfosi dello Ior, l'Istituto di credito vaticano, rimanda così non solo ai conflitti interni ma anche ai "Patti lateranensi del XXI secolo" fra la Chiesa e i "sacerdoti" del potere bancario nel mondo. Perfino nell'emergenza economica europea affiora una polemica a sfondo religioso: i Paesi protestanti del Nordeuropa oppongono le proprie virtù di rigore finanziario alle nazioni mediterranee a maggioranza cattolica, viste come debitrici inaffidabili perché rispecchiano "una Chiesa che assolvendo troppo facilmente assolve se stessa".
A questo si affiancano i rapporti non facili della Santa Sede e dei vescovi americani con l'amministrazione Obama sui temi etici, dopo le ferite parzialmente rimarginate dello scandalo della pedofilia; e gli attacchi sistematici contro le comunità cristiane in un Nordafrica dove le "primavere arabe" stanno approdando a una minacciosa deriva musulmana.
Sono le coordinate di una transizione epocale, che la Chiesa cattolica cerca di governare ma spesso finisce per subire. "Dentro la Città del Vaticano" scrive Massimo Franco "si stanno consumando la fine di un modello di governo e di una concezione del papato; e la decadenza di una nomenklatura ecclesiastica che rischia di passare alla storia con un carico di responsabilità maggiori rispetto a quelle che realmente ha a livello individuale."

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Informazioni

IV

Il mistero di Gotti Tedeschi

Una strana diagnosi
Forse, la discesa più repentina dal Paradiso di un mandato conferitogli personalmente dal papa, fino agli inferi dell’ostracismo della nomenklatura vaticana e delle inchieste giudiziarie è stata quella di Ettore Gotti Tedeschi. Nello spazio di neppure dodici mesi, l’economista apprezzato da Benedetto XVI, portato in palmo di mano da Bertone, è passato da numero uno riverito dello Ior a banchiere descritto dagli avversari in termini solo negativi.
Le nove accuse rivoltegli nelle due pagine fitte, in inglese, stilate dal board dello Ior il 26 maggio 2012 erano durissime. «Presidente inaffidabile e imprudente» le sintetizzò il «Corriere della Sera» in un articolo sul caso.1 Fino all’inizio di primavera del 2012 girava con una Bmw 730 nera con autista, targa «Scv 00718», quella della città del Vaticano. Aveva incontri più o meno frequenti con il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, con don Georg Gänswein, l’uomo più vicino a Benedetto XVI. Ed era un interlocutore obbligato per molte delle vicende finanziarie vaticane. Non l’unico, ma uno dei più accreditati; di fatto l’esecutore dei Patti lateranensi finanziari.
E invece, si era sentito gradualmente emarginato, isolato, perfino intimidito: al punto da temere di essere ucciso. Quando sabato 9 giugno il quotidiano «il Fatto» pubblicò una perizia che uno psicoterapeuta e ipnoterapeuta, Pietro Lasalvia, aveva stilato su incarico del Vaticano all’insaputa del banchiere, dopo averlo incontrato a una cena dello Ior poco prima del Natale del 2011, si intuì perché ritenesse di essere stato vittima di una manovra ostile. Dopo avere studiato dal punto di vista medico Gotti Tedeschi durante quelle poche ore, la diagnosi di Lasalvia era stata recapitata alla Segreteria di Stato vaticana. Il dottore, che insegnava alla Sapienza di Roma, sosteneva di avere riscontrato «tratti di egocentrismo, narcisismo, e un parziale scollamento dal piano di realtà, assimilabile a una disfunzione psicopatologica nota come “accidia sociale”, termine mutuato dalla letteratura cristiana ma che ben interpreta alcuni modelli comportamentali patologici…».
Ma non tanto queste note, quanto il modo e i tempi in cui erano state comunicate suscitavano perplessità, se non qualcosa di peggio. Il dottor Lasalvia, nella sua lettera al cardinale Tarcisio Bertone datata 18 marzo 2012, sentiva il bisogno di giustificare il ritardo di quella che il giornalista Marco Lillo definiva «diagnosi a scoppio ritardato». «Ho scritto solo ora perché la delicatezza dell’argomento ha determinato in me l’esigenza di una lunga e attenta riflessione…» spiegava lo psicoterapeuta. Lillo descriveva Lasalvia come «un medico che si occupa della salute sul lavoro dei dipendenti dello Ior ed è in ottimi rapporti con Paolo Cipriani, il direttore generale, vero uomo forte dello Ior e in forte contrasto con Gotti Tedeschi».2
Seconda stranezza: il «rapportino finisce solo tre mesi dopo, casualmente quando infuria lo scontro su Gotti, tramite la direzione generale dello Ior, sul tavolo della segreteria di Stato» scriveva Lillo. «Questa sorta di certificato diventa così un’arma che i nemici del presidente brandiscono sulla sua testa e che dà forza e fondamento medico a due altri documenti…» Il giornalista si riferiva a due lettere, datate maggio 2012, e pubblicate sul «Fatto» sotto l’articolo sulla perizia, nelle quali Carl Anderson, cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo, statunitense, e Ronaldo Hermann Schmitz, vicepresidente dello Ior, tedesco, descrivevano Gotti Tedeschi come un banchiere da licenziare «immediatamente». Detto e fatto: il 24 maggio, quasi in tempo reale rispetto alle lettere e alla pubblicazione sui giornali della diagnosi, Gotti veniva sfiduciato, accompagnato alla porta da un documento al limite dell’insulto.
Ma quella mossa lasciava aperte molte domande. E soprattutto una: perché? L’operazione appariva così brutale da evocare una decisione presa da tempo. E l’obiettivo di accreditare l’immagine di un banchiere che «non ha saputo difendere l’istituto col necessario rigore», trasmetteva un’impressione negativa delle dinamiche interne vaticane.
Era come se al vertice dello Ior non ci fosse stato un semplice avvicendamento, ma fosse stata combattuta una guerra di liberazione contro un nemico. Eppure, fino a qualche mese prima l’economista-banchiere era stato una delle persone scelte dai vertici vaticani per tentare il salvataggio dell’Ospedale San Raffaele di don Luigi Verzé. Gotti era stato l’uomo che aveva preparato un rapporto riservato per risolvere il problema della tassazione degli immobili della Chiesa, sui quali l’Unione Europea chiedeva all’Italia provvedimenti rapidi, minacciando multe multimilionarie in euro.
Aveva plasmato con altri la legge di riforma dello Ior, per accompagnare il Vaticano nella «lista bianca» degli Stati affidabili sul piano internazionale. Ancora, era uno degli editorialisti di punta dell’«Osservatore Romano», con i suoi commenti controversi sui tassi calanti della natalità come una delle cause principali della crisi economica e del declino dell’Occidente. Ed era spesso ospite alle cene organizzate nell’attico in via della Conciliazione da Marilù e Gaetano Rebecchini, ex parlamentare di Alleanza nazionale e soprattutto creatore col banchiere di un «Centro di orientamento politico» considerato un punto di riferimento per l’ortodossia cattolica e il centrodestra.
L’azzardo del San Raffaele
Forse la chiave della sua caduta nella parte bassa del Purgatorio, ai margini dell’Inferno, era proprio il ruolo svolto nel salvataggio del San Raffaele e nella metamorfosi incompiuta dell’Istituto per le opere di religione: compiti nei quali si era dimostrato non abbastanza docile, o flessibile, o abile. In più, non era piaciuto che stabilisse uno spartiacque netto, fra il «prima» e il «dopo» dello Ior, sottolineando il passato oscuro. Ma, soprattutto, era accusato di muoversi senza rispettare e cercare di conoscere la struttura e la mentalità dello Ior. La frattura si era consumata in sette mesi appena. Dal luglio del 2011, quando nell’azienda ospedaliera di don Verzé era stato rivelato un buco di bilancio che sarebbe risultato alla fine di oltre un miliardo e mezzo di euro, al gennaio del 2012, data del salvataggio da parte di Giuseppe Rotelli, proprietario di molte cliniche milanesi e azionista di peso del «Corriere della Sera».
Era una vicenda degna dei romanzi più fantasiosi sugli intrighi della curia romana. E insieme uno scontro di potere dentro il Vaticano dai contorni duri, crudi e insieme sfuggenti. Gli ingredienti del grande giallo finanziario c’erano tutti: soldi, faccendieri, veleni curiali, guerre fra cardinali, intrecci bancari. E morte. Sì, morte, da quando il 18 luglio 2011 Mario Cal, braccio destro e mente finanziaria del San Raffaele, si era ucciso con un colpo di pistola alla testa. E aveva lasciato una lettera straziante alla moglie nella quale diceva: «Cara Tina, perdonami. Non ce la faccio più. Ancora una volta pago errori di altri…». Il suicidio era avvenuto tre giorni dopo l’insediamento del nuovo consiglio di amministrazione della Fondazione San Raffaele del Monte Tabor, che controllava l’ospedale d’eccellenza milanese. E il Vaticano, nella persona del segretario di Stato, Bertone, aveva deciso di salvarlo dai debiti.
Nel nuovo cda c’erano i suoi uomini. Oltre a Gotti Tedeschi, Giuseppe Profiti, presidente dell’ospedale Bambino Gesù di Roma, braccio secolare di Bertone in molte attività finanziarie e sanitarie, a cominciare dai tempi in cui era arcivescovo di Genova. Poi l’ex presidente della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick: un personaggio rispettato, anche lui legato a Bertone, che avrebbe curato gli aspetti giuridici del salvataggio, e coperto il versante giudiziario presso la Procura di Milano, visto che c’erano di mezzo un fallimento e il suicidio di Cal. Poi c’era l’imprenditore ligure Vittorio Malacalza; Massimo Clementi, preside dell’ateneo Vita-Salute; Maurizio Pini, docente della Bocconi. E naturalmente don Luigi Verzé, 91 anni, in quel momento ancora padre-padrone del San Raffaele, da lui fondato 42 anni prima: un religioso controverso, spregiudicato, grande raccoglitore di fondi e megalomane; ammiratore, ricambiato, di Silvio Berlusconi. E non solo.
Il problema è che non si trattava solo di un salvataggio, per garantire il quale il Vaticano era pronto a sborsare subito 200 milioni di euro, ai quali si sarebbe aggiunto un versamento di circa un miliardo in un quinquennio, attraverso una charity dai contorni un po’ misteriosi. La conquista del San Raffaele era una sorta di prima mossa per provocare un «effetto domino» che avrebbe consentito al segretario di Stato di buttare giù come birilli tutti i suoi avversari attraverso la conquista e il controllo della sanità cattolica. Alla grandeur di don Verzé, che si sarebbe spinta al limite della legge, si stava per sostituire quella di Bertone. E i suoi fiduciari erano lì per garantire il risultato, costasse quello che costasse. Alla fine, sotto la sua ala sarebbero dovuti finire il Bambino Gesù, l’ospedale pediatrico più famoso di Roma; il policlinico Agostino Gemelli, dove nel 1981 era stato ricoverato e curato Giovanni Paolo II dopo l’attentato in piazza San Pietro; e, appunto, il San Raffaele. Ma per espugnare il Gemelli, Bertone doveva annettersi anche il controllo della cassaforte dell’Università Cattolica del Sacro Cuore: quell’Istituto Giuseppe Toniolo che era passato sotto l’ala della Cei nel 2003, dopo essere stato per anni «protetto» dal cardinale Angelo Sodano, «primo ministro» del papa prima di Bertone. Di fatto, era la Cei, adesso, e non la segreteria di Stato a controllare il Toniolo, grazie al rettore Lorenzo Ornaghi, uomo di Camillo Ruini, presidente storico dei vescovi italiani.
Ma dopo la nomina di Angelo Bagnasco a capo della Cei, nel 2007, Bertone aveva cominciato l’accerchiamento per riprendersi il Toniolo. Prima nel 2010, quando alcuni suoi fedelissimi accusarono di cattiva gestione il Toniolo, anche perché era stato confermato nel cda Dino Boffo invece di Flick. Poi nel febbraio del 2011, quando era stato lo stesso Bertone a scrivere all’arcivescovo uscente di Milano, Dionigi Tettamanzi, per chiedergli di dimettersi dalla presidenza del Toniolo, cedendo il suo posto a Flick in nome del rinnovamento e della buona gestione. Ma Tettamanzi replicò scrivendo al papa, che stavolta non sostenne il suo segretario di Stato ma l’arcivescovo. Non solo. Ordinò che al Toniolo nulla cambiasse fino all’arrivo del successore di Tettamanzi: Angelo Scola, patriarca di Venezia, considerato da Bertone un avversario fin da quando il segretario di Stato si era adoperato per impedire, riuscendoci, che diventasse presidente della Cei.
La grossa pedina del San Raffaele era strategica, in questo gioco del domino. E Gotti Tedeschi doveva muoversi navigando fra le banche, la magistratura, i bertoniani più bertoniani di lui; e un Vaticano tutt’altro che convinto della bontà dell’operazione. E non soltanto perché al San Raffaele si facevano ricerche di avanguardia, che venivano considerate contrarie al magistero cattolico: sebbene fosse sorprendente la sottovalutazione di questo aspetto. Il problema era finanziario e giudiziario, innanzitutto.
«Si entra bertoniani, si esce antibertoniani»
Lo si capì subito, a fine luglio del 2011, quando come consulente del cda della Fondazione San Raffaele fu inserito Enrico Bondi, risanatore della Parmalat. Doveva seguire la ristrutturazione in tempi strettissimi: entro il 15 settembre successivo la Procura di Milano voleva avere un quadro chiaro della situazione, anche per garantire i creditori. I magistrati Filippo Lamanna e Luigi Orsi spiegarono a Flick che l’ospedale doveva essere rimesso in sesto entro quel termine. Ma più si andava avanti, più si intuiva che l’operazione avrebbe incontrato ostacoli. Fra l’altro, non era facile spiegare a episcopati europei alle prese con un calo dei fedeli e delle offerte il progetto di un «polo sanitario cattolico» in Italia che sarebbe costato alcune centinaia di milioni di euro.
E Gotti Tedeschi dopo un iniziale sostegno all’iniziativa cominciò a condividere le perplessità di chi, come il cardinale Attilio Nicora, presidente dell’Autorità di informazione finanziaria vaticana, coglieva molte delle implicazioni e delle complicazioni di quello che andava configurandosi sempre più come un azzardo. Anche perché il Toniolo non era stato espugnato, anzi: al posto di Tettamanzi stava per insediarsi il cardinale Angelo Scola. La magistratura si fidava di Flick, meno di Profiti, che aveva avuto problemi con la giustizia ai tempi in cui era la longa manus di Bertone a Genova. Insomma, i fiduciari del segretario di Stato all’interno della Fondazione San Raffaele in pochi mesi si erano trasformati da falange compatta e determinata in una squadra percorsa da diffidenze e contrasti.
I rapporti fra Gotti Tedeschi e Profiti erano peggiorati. E questo preoccupava Bertone, che considerava il secondo come il suo vero braccio secolare. Gli incontri con il presidente dello Ior cominciarono di conseguenza a rarefarsi. Si parlava di contrasti sempre meno felpati. E di voci che colpivano velenosamente l’economista dell’Opus Dei sempre più inquieto. Qualcuno, mentre filtravano i primi documenti riservati da Oltretevere, aveva messo in giro la voce che potesse essere Gotti Tedeschi uno dei Corvi, i propalatori di quelle notizie top secret. E sebbene fosse poco verosimile, quella indiscrezione tossica era in sé un avvertimento: attenzione, sei un potenziale nemico.
Quando all’inizio del 2012 la cordata vaticana fu costretta a gettare la spugna e a cedere il San Raffaele all’industriale della sanità Giuseppe Rotelli, si attribuì a un cardinale tedesco una battuta che rivelava le tensioni represse di quei mesi: «Meno male che siamo usciti dal pasticcio del San Raffaele. Altrimenti, se mi avessero chiesto soldi per l’obolo di San Pietro, avrei risposto: “Perché non vendete il San Raffaele?”...». Per il banchiere bertoniano la situazione, a quel punto, era già in bilico. La sua posizione era appesantita dalle strane manovre intorno allo Ior. Con l’aiuto di Francesco De Pasquale e soprattutto del giurista Marcello Condemi, esperto di contrasto al riciclaggio presso Bankitalia e componente della delegazione italiana presso il Gafi, erano state ridisegnate le norme più delicate.
Ma la stesura di Condemi era stata ritenuta insoddisfacente già all’inizio di dicembre del 2011. Alcuni articoli non andavano incontro alle raccomandazioni di Moneyval, secondo qualche consulente giuridico vaticano fra cui Jeffrey Lena, l’avvocato californiano di Berkeley che lavorava per il Vaticano dal 2000, e che nel dicembre del 2011 cominciava a vedersi affidato il dossier. Fu chiesto a Condemi di fare alcuni cambiamenti. Ma quando i vertici di Aif e segreteria di Stato si rividero, le modifiche suggerite non sembravano avvicinare il testo alle 49 «raccomandazioni». E nei venti giorni a cavallo delle vacanze di Natale, senza che Gotti Tedeschi ne sapesse nulla, alcune parti della legge furono riscritte da un gruppo di giuristi scelti dalla segreteria di Stato. Nella prima decade di gennaio era pronta la prima bozza, e a ruota arrivò la lettera di Nicora a Bertone nella quale esprimeva la preoccupazione che la legge riformata potesse essere «percepita come un passo indietro».
La seconda bozza, limata fino al 25 gennaio, sembrava recepire alcune delle osservazioni dei tecnici del capo dell’Aif. Nicora era stato messo in allarme dai suoi uomini sul pericolo che si appannasse lo sforzo di trasparenza. Eppure, la versione di chi ha assistito all’evoluzione della legge è che lo scontro su trasparenza o no fosse forzato. Lena insiste: «Lavoravamo proprio per portare il testo della legge più vicino agli standard internazionali, non più lontano». E Gotti Tedeschi era diventato l’oggetto di crescenti perplessità. Era cominciata una guerra coperta, felpata, combattuta per mesi senza rotture pubbliche ma alimentata dal contrasto fra il banchiere e il «suo» istituto. Era iniziato un conflitto al rallentatore. Gotti Tedeschi aveva ventilato almeno tre volte le dimissioni, facendo pesare in modo ostentato quello che riteneva il suo ruolo di garante della trasparenza.
Il banchiere percepì prima lusinghe, poi avvertimenti e alla fine vere e proprie intimidazioni. E il nervosismo, seppure comprensibile, forse non sempre gli permetteva di valutare fino in fondo l’esattezza delle sue sensazioni. Nella primavera del 2012 uscirono alcuni articoli «ispirati» da quelli che riteneva suoi nemici dentro lo Ior e la segreteria di Stato. Lo accusavano di essere all’origine delle classifiche del Dipartimento di Stato Usa, secondo le quali il Vaticano era poco affidabile quanto a trasparenza finanziaria. D’altronde, le sue resistenze e le sue paure ormai erano quasi ufficiali. In particolare un articolo apparso sul sito Agus Vaticanus ironizzava sul suo ruolo di moralizzatore. Sosteneva che ogni suo passo era per lucidare la propria immagine, a discapito del Vaticano. Sotto sotto, riaffiorava il rimprovero di avere scelto come interlocutore la Banca d’Italia. E soprattutto di avere deciso di parlare con i magistrati senza pretendere una rogatoria internazionale.
Fra aprile e maggio, a sentire Lena «le preoccupazioni per il comportamento di Gotti crescevano». E il banchiere si convinse che l’accerchiamento si stringeva con convocazioni e sms rigorosamente in inglese di Lena, che rappresenta il Vaticano nelle cause contro i preti pedofili negli Stati Uniti; ma che dalla fine del 2011 ha assunto un ruolo strategico, sebbene informale, nelle vicende finanziarie della Santa Sede: una sorta di eminenza grigia in blue jeans e scarpe da ginnastica, anche se lui nega. «Chi mi definisce così non conosce né il Vaticano né il mio ruolo. Sono un avvocato e un consulente e basta» si schermisce il legale californiano. Gotti Tedeschi, comunque, resisteva. Era convinto che su, nell’Appartamento, il papa o almeno il suo segretario don Georg lo avrebbero chiamato per dirgli di non mollare; che lo avrebbero difeso perché lui aveva ricevuto il mandato di rendere trasparente lo Ior.
«È proprio vero quello che si dice in Vaticano: si entra bertoniani, si esce antibertoniani.» Era questa la frase attribuita a Gotti Tedeschi, passato dalla fedeltà assoluta allo scontro col segretario di Stato. Eppure, la tesi di Lena è che «il mandato affidatomi dal cardinale Bertone era di trovare gli elementi per ricucire il rapporto con Gotti Tedeschi. E ho lavorato in questa direzione finché è stato possibile. Per il rispetto dovutogli, e per un dovere legato al mio ruolo non sarebbe deontologicamente corretto rivelare il contenuto dei nostri colloqui. Mi limito a dire» aggiunge Lena «che anche presumendo che Gotti Tedeschi desse la sua versione con sincerità, certe sue affermazioni non corrispondevano a quella che a me risultava fosse la realtà».
«Se mi succede qualcosa…»
In apparenza, non accadeva nulla. Eppure, la sfiducia nei suoi confronti ormai era decisa: andava solo ufficializzata in modo da fare meno rumore possibile; e da provocare un’eco internazionale tollerabile. Con la procedura per l’ingresso della Santa Sede nella cosiddetta «lista bianca» dei Paesi virtuosi, ancora in corso, almeno dall’esterno la percezione era che il siluramento di Gotti poteva creare molte complicazioni. La finzione della normalità raggiunse vette surreali quando, a metà maggio, gli ambasciatori presso la Santa Sede furono invitati a visitare la sede dello Ior nel torrione di Niccolò V. A spiegarne il funzionamento e il ruolo fu il direttore generale, Paolo Cipriani. Alcune agenzie scrissero che «fra gli altri», seduto insieme al pubblico, c’era anche Gotti Tedeschi. In realtà, il presidente dello Ior era volutamente assente.
Da alcuni mesi, ormai, il banchiere appariva segnato psicologicamente dalla vicenda. Non solo sentiva intorno a sé il deserto, ma aveva paura: paura fisica di qualche attentato o «incidente». Al punto che aveva scritto un memoriale destinato al proprio avvocato, al segretario del papa, don Georg, e al sottoscritto, «nel caso mi succedesse qualcosa»: voleva che fosse pubblicato, e sapeva che il «Corriere della Sera» lo avrebbe fatto senza esitazioni, dopo averne verificato il contenuto. Detta...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La crisi dell'impero Vaticano
  3. Dello stesso autore
  4. Introduzione
  5. I. Lo spread, un peccato cattolico
  6. II. La lobby anti-Obama
  7. III. Nel torrione dello Ior
  8. IV. Il mistero di Gotti Tedeschi
  9. V. Sindrome italiana
  10. VI. La Seconda Repubblica vaticana
  11. VII. I fantasmi di Todi
  12. VIII. Primavere arabe e «pulizia religiosa»
  13. Note
  14. Copyright