Correre con il branco
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Correre con il branco

La filosofia della corsa e tutto quello che ho imparato dalla natura selvaggia

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  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
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Correre con il branco

La filosofia della corsa e tutto quello che ho imparato dalla natura selvaggia

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Mark Rowlands ha corso e si è allenato per gran parte della sua vita: per lui, filosofia e corsa sono strettamente legate. Alla soglia dei cinquant'anni, alle prese con una crisi di mezz'età e con una maratona imminente per cui non si è praticamente allenato, Rowlands si trova a ripensare alle sue corse più memorabili in compagnia del suo inseparabile «branco»: il lupo Brenin, i cani Hugo e Nina, il cucciolo di cane lupo Tess. Dall'infanzia nelle campagne del Galles alle corse lungo le spiagge francesi fino alle colline irlandesi e alle foreste della Florida, Rowlands ha imparato che correre non deve necessariamente servire a qualcosa ma è un'attività che ha valore per se stessa e che ci permette di capire quali sono le cose che danno senso all'esistenza, nonché una fonte inesauribile di idee filosofiche e spunti di riflessione. Ironico e appassionato, Rowlands intreccia ai suoi ricordi le meditazioni che la corsa gli ha ispirato sull'esistenza, l'invecchiamento e la morte: con l'aiuto di Sartre ci farà capire perché correre lo fa sentire libero; perché la corsa è gioco, e quindi l'antitesi della feroce etica del lavoro americana; e in che senso incarna ciò che Platone chiamava la forma del bene, la cosa più preziosa. E, soprattutto, ci racconta perché farlo a ritmo del suo branco lo ha avvicinato ogni volta alla purezza e all'essenza della natura selvaggia, permettendogli di dimenticare, anche solo per un momento, gli obblighi e le sovrastrutture del quotidiano, per riscoprire il valore profondo dell'esistenza: un senso di libertà e pienezza che, ci ricorda, è dentro di noi da sempre, ma che la vita da adulti ci ha fatto dimenticare. «Correre è uno spazio in cui posso ricordare. Non i pensieri altrui, bensì ciò che molto tempo fa sapevo, ma sono stato costretto a dimenticare via via che crescevo e diventavo una persona. Sapevo, anche se non me ne rendevo conto; e in questo ero identico a tutti gli altri. Correre è un luogo del rimemorare. Ed è in questo luogo che ritroviamo il significato della corsa.»

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852055287

I

Linea di partenza

2011

Potrebbe finire in vari modi, ma comunque male. Manca ancora un’ora all’alba. Quel che resta della notte lo trascorro nel recinto G, in mezzo a circa ventimila persone, e lo spazio intorno a me sembra occupato esclusivamente da nerboruti settantenni. Sono circondato: come vecchie pentole ribollenti di aspettativa, parlano dei tempi che prevedono di impiegare, precisando minuti e secondi. Io mi sento un po’ meno ottimista. Emil Zatopek, grande maratoneta ceco degli anni Cinquanta, disse una volta: «Se vuoi correre, corri per un chilometro e mezzo. Ma se vuoi provare una vita diversa, partecipa a una maratona». Non so se sia vero, questa è la mia prima maratona. Eppure mi rendo conto con stupore che, in effetti, la preparazione a questa gara ha seguito grosso modo i contorni della vita: dopo una partenza promettente, ma tutto sommato fuorviante, è andato tutto a rotoli. Fra qui e il traguardo bisogna fare circa cinquantaduemila passi, e io non so neppure se sarò in grado di farne più di cento.
All’inizio era fantastico. Ricordo chiaramente quanto annoiavo mia moglie con le mie interminabili solfe su come avessi azzeccato in pieno tutti gli allenamenti per la mia prima maratona. Davvero, non è così difficile. La maggior parte delle persone, se davvero lo volesse, potrebbe partecipare a una maratona, ma il più delle volte è abbastanza saggia da evitarlo. Se uno fa già circa trentadue chilometri di corsa ogni settimana – in quattro sessioni da circa otto chilometri – ci vorranno grosso modo quattro mesi di tempo per prepararsi alla prima maratona. A dire il vero, non stavo correndo neppure così tanto quando cominciai a prepararmi. Fondamentale per l’allenamento è la cosiddetta «corsa lunga», che di solito viene fatta nel weekend. Durante il resto della settimana si effettuano invece allenamenti più brevi e veloci. Cominciai con tre brevi tratti da sei-sette chilometri durante i giorni feriali. In questo tipo di corsa la distanza rimane sempre contenuta; quando gli allenamenti erano già a buon punto, durante la settimana facevo, nell’ordine, prima dieci, poi tredici e poi di nuovo dieci chilometri alla volta.
La corsa lunga è davvero essenziale per la preparazione alla maratona: nella corsa lunga bisogna tenere un ritmo che consentirebbe di intrattenere una conversazione, se solo ci fosse una persona con cui parlare. Io corro solo con il mio cane Hugo, che come conversatore non è un granché. Personalmente, a un simile ritmo di marcia ero in grado di fare poco più di otto chilometri all’ora. Poi, però, se si tiene questo passo in modo più o meno costante, la strada percorsa aumenta gradualmente, settimana dopo settimana, chilometro dopo chilometro. Nella prima e ingloriosa corsa lunga del mio allenamento coprii solo dieci chilometri, una vera miseria. A mia discolpa, devo dire che era settembre e a Miami quel giorno c’erano circa trentadue gradi, resi ancora più insopportabili dall’umidità. Chi non ha mai corso con il caldo e l’umidità rimane sempre scioccato dalla difficoltà aggiuntiva che comportano. Io di sicuro rimasi sconvolto. Il cuore e i polmoni devono lavorare molto di più per far sì che il corpo non si surriscaldi. A volte mi mancava il respiro, come se avessi appena fatto una serie di scatti veloci. Gradualmente, però, cominciai ad aumentare la lunghezza del percorso: facevo circa un chilometro e mezzo in più alla settimana. Temo, però, che non sia stato facile come potrebbe sembrare. Ogni chilometro e mezzo in più mi ammazzava. Se possibile, correvo, sennò proseguivo camminando. Ai primi di dicembre del 2010 ero riuscito a portare la corsa lunga a trentadue chilometri, e uno come me che non aveva mai corso una maratona non è in grado di fare di più. Ero pronto.
Mancavano ancora due mesi alla gara, perciò feci come mio solito in situazioni del genere: infransi la mia stessa regola fondamentale. Quando avevo deciso di partecipare a questa corsa, mi ero riproposto chiaramente di non pensare mai neppure vagamente al cronometro. Era la mia prima maratona e il mio obiettivo era semplicemente quello di percorrere i quarantadue chilometri senza tirare le cuoia. Qualsiasi cosa tu faccia, Mark, mi ero detto, concentrati solo su questo. Non sei più tanto giovane: fra neanche due anni avrai raggiunto il mezzo secolo. Il tuo obiettivo è semplicemente quello di arrivare in fondo. Non farti distrarre da nient’altro. Poi, però, arrivò dicembre, ero in grado di percorrere trentadue chilometri senza troppa difficoltà e cominciai a rimuginare. Avrei potuto farne altre cinque o sei, di queste corse lunghe, prima della gara, concedendomi persino una graduale diminuzione del ritmo degli allenamenti nelle ultime due settimane. Potevo veramente fare qualcosa per abbassare i tempi. Non ero semplicemente in grado di portare a termine la maratona: potevo farlo anche in un tempo rispettabile. Magari non proprio quattro ore, ma quattro e mezza sicuramente sì, e quattro ore e un quarto non era del tutto da escludersi. Insomma, come spesso accade nelle tragedie migliori, fu proprio la mia ambizione smodata a rovinarmi. Quando cominciai a chiedere al mio corpo di fare un percorso più lungo in meno tempo, lui gettò la spugna.
Uno strappo di secondo grado al polpaccio fa l’effetto di una bastonata dietro la gamba. Lo sapevo già: ho già avuto questa esperienza un bel po’ di tempo fa, più o meno alla metà degli anni Novanta, mi pare di ricordare. Di norma, per uomini della mia età, ci vogliono almeno sei settimane di riabilitazione per riprendersi da lesioni del genere. Se il paziente non è affatto paziente – e io sono un paziente molto impaziente – i tempi si allungano di conseguenza. Trattai questo strappo particolare con più cautela del solito, almeno all’inizio. Feci la mia riabilitazione, mi lasciai massaggiare ed eseguii tutti gli esercizi prescritti dal fisioterapista. Poi, proprio quando cominciavo a sentirmi meglio, persi tutta la pazienza, provai a correre, il polpaccio si strappò di nuovo dopo poche centinaia di metri e io mi ritrovai al punto di partenza. Accadde più volte. Alla fine, non feci proprio nulla: riposo assoluto. Lo strappo risale al 4 dicembre 2010. Adesso è il 30 gennaio 2011. Sono sulla linea di partenza della Maratona di Miami – soprattutto, la mia prima maratona – e negli ultimi due mesi non ho potuto correre.
Ecco perché sono un po’ «freddo», come si suol dire, e probabilmente è una stima ottimistica. Fino all’ora di pranzo di venerdì, se mi aveste chiesto se avrei corso, avrei risposto di no o con una variazione un po’ più emotiva sullo stesso tema. E credo che sarei stato quasi sincero. Era la posizione ufficiale che assumevo non solo con gli altri, bensì anche – e soprattutto – con il lato razionale della mia mente. Esisteva però anche una parte irrazionale, più piccola e subdola, ma estremamente influente, che ha sempre saputo che mi sarei trovato sulla linea di partenza di questa corsa. Venerdì pomeriggio non ero del tutto sorpreso nel vedermi andare al Convention Center di Miami Beach a ritirare il mio pacchetto gara. Naturalmente, me la dovevo ancora vedere con il lato razionale di me stesso. Gli dissi che non volevo precludermi nessuna possibilità. Sì, certo, ribatté il mio io razionale, è anche per questo che ti sei comprato un tutore per il polpaccio e hai messo sotto interrogatorio praticamente tutti i podisti presenti al Convention Center, chiedendo consigli su come partecipare a una maratona pur essendo gravemente fuori allenamento, giusto? Questo è il mio lato razionale: ogni tanto è un po’ beffardo. Nonostante l’abbondanza di prove in grado di smascherarmi, quando stamattina sono sgattaiolato sul treno delle quattro, stavo probabilmente ancora ripetendo a me stesso di non volermi precludere nessuna possibilità. Ora, però, a quanto pare non ho più scelta. Forse avrei dovuto ascoltare un po’ di più la parte razionale di me stesso. Era tutto facilmente preventivabile.
L’ipotesi più realistica, considerati gli infortuni delle ultime settimane, è che mi strappi subito il polpaccio e non riesca neppure ad arrivare alla MacArthur Causeway. Immagino che sarebbe un po’ umiliante: il misero fallimento sarebbe sotto gli occhi delle migliaia di persone che mi supererebbero. Ma se invece non andasse così? Se il mio polpaccio tenesse? Allora, mi chiedo: quanto tempo ci vorrà perché io rimpianga che non si sia strappato? Non so bene quali siano le mie condizioni di forma, nel caso dovessi rimanere in gara, ma sospetto che non siano tanto buone. Quanta strada riuscirò a percorrere? Posso sempre ritirarmi a metà maratona. Ma riuscirò ad arrivare anche solo a metà percorso? E quanto sarà doloroso?
Poi c’è la questione del tempo. Poniamo che riesca ad arrivare fino alla fine. Quanto tempo ci metterò? L’orgoglio non c’entra niente. Be’, a essere sincero, temo che un po’ c’entri, eccome, ma vanità a parte, se c’è una cosa che non è proprio il caso di fare alla Maratona di Miami è tirarla per le lunghe. Come accade quasi sempre nelle grandi città, le strade vengono riaperte in modo graduale. Dopo sei ore, sono di nuovo tutte percorribili in auto. Dover terminare il tragitto in mezzo al traffico non sarebbe solo un po’ mortificante, bensì oggettivamente pericoloso. Sono stato in molti paesi dove gli automobilisti sono davvero pazzi. Mi vengono subito in mente la Grecia e la Francia. In entrambi i posti, però, la psicosi automobilistica è più o meno prevedibile. Se ci vivi abbastanza a lungo, riesci a indovinare quale mossa assurda sarà fatta in determinate situazioni. Dopo un po’, per quanto logorante, diventa pur sempre ordinaria amministrazione. A Miami, invece, le strade non hanno proprio niente di prevedibile. Non esiste un trasporto pubblico degno di tale nome. La monorotaia elevata, come scrisse una volta Dave Barry, ha per il normale cittadino di Miami l’importanza di una stella cadente intravista con la coda dell’occhio. Viaggiano tutti in macchina. Perciò la popolazione motorizzata comprende ragazzini in gara fra loro, uomini d’affari ubriachi e centenari sotto l’effetto dei farmaci, persino qualche ragazzino centenario ubriaco e sotto l’effetto di farmaci. Nessuno può prevedere, neanche vagamente, che cosa accadrà al prossimo incrocio. E poiché un’alta percentuale di automobilisti è armata – a quanto pare, soprattutto i centenari sotto farmaci viaggiano un po’ «pesanti» in questo senso – qualsiasi tipo di rimostranza diventa un gioco pericoloso.
Ieri, mentre facevo alcune «ricerche» su YouTube, ho trovato un video della maratona del 2010 dal titolo purtroppo veritiero: «Automobilisti stronzi suonano il clacson ai maratoneti». L’umiliazione di uno strappo a inizio gara, una corsa lunga e dolorosa o l’investimento: delusione, dolore o morte. Zatopek forse aveva ragione. Di sicuro, sarà una brutta esperienza. Avverto uno strano formicolio, di quelli che non sentivo da un po’ di tempo. È forse paura? Magari esagero. Diciamo che sono soltanto un po’ nervoso. E non è una sensazione del tutto spiacevole.
Perché lo faccio? Non è facile rispondere a questa domanda, e neppure glissare quando te la fanno gli altri. Sono più che felice di ricorrere ai luoghi comuni. Potrei dire: «Perché mi piace». Per certi versi, mi è piaciuto l’allenamento – finché è durato – e mi sta piacendo la trepidazione di questi minuti prima della gara. Mi piace l’idea di aver fatto il passo più lungo della gamba, l’incertezza, il non sapere quel che succederà. In un certo senso, forse mi piacerà addirittura quel che succederà. Insomma, se dicessi che mi piace, un pizzico di verità ci sarebbe. Ma non è un pizzico particolarmente illuminante. Non è il tipo di verità che aumenta la comprensione; al contrario, crea un dubbio ulteriore: perché mi piacciono queste cose? Potrei aggiungere: fra poco compirò cinquant’anni, se non lo faccio adesso, probabilmente non lo farò mai più. E sarebbe un peccato aver vissuto senza aver mai fatto una maratona. Anche questo contribuisce, certo; tuttavia si tratta dell’ennesima risposta banale cui si può replicare come alla risposta iniziale. Insomma, per quale motivo, secondo me, sarebbe un peccato morire senza aver mai partecipato a una maratona? I motivi veri, temo, sono ben più difficili da individuare e ancora più difficili da spiegare. Sul piano sociologico, però, è interessante notare che a) molta gente sembra avere opinioni sulle mie motivazioni e b) tali opinioni dipendono da dove – su quale sponda dell’Atlantico – vivono le persone in questione.
Secondo me, esiste un modo tipicamente americano di concepire la corsa e, per estensione, quel che sto facendo oggi. I libri sulla corsa scritti dagli americani vertono quasi sempre su alcuni temi riconoscibili. E lo dico senza il minimo intento dispregiativo. Ne ho letti parecchi, di questi libri: dall’affascinante Ultramarathon Man di Dean Karnazes all’incredibile Born to Run di Christopher McDougall, fino al Why We Run di Bernd Heinrich (che considero cittadino americano onorario, dato che ha vissuto negli Stati Uniti la maggior parte della sua vita) e molti altri. Ma anche in questi libri degni della massima ammirazione, i temi condivisi sono evidenti ed è proprio questo a renderli tipicamente americani.
Uno di essi è l’incrollabile ottimismo pionieristico. È possibile fare grandi cose. Tutti possiedono questa capacità. Ogni giorno puoi migliorare rispetto al giorno precedente, e non c’è nulla che tu non possa ottenere, se ti ci metti d’impegno. Come si sa, questo ottimismo è un mantra quasi onnipresente nella vita americana. Adoro questo tipo di convinzione e, secondo me, chi la professa – una grande fetta della popolazione americana – lo fa in modo sincero e commovente. C’è un unico problema: sono praticamente certo che non sia vera. La maggior parte delle cose è fuori dalla portata dei più. L’unica verità irrefutabile della vita è che continuiamo a peggiorare. Forse un tempo eravate capaci di cose grandiose. Può essere che lo siate ancora. Magari avete già portato a termine con successo una terrificante ultramaratona tipo Badwater, Leadville, la Marathon des Sables nel Sahara marocchino o simili. Non lo so. La sola certezza è che si peggiora. Anche chi è in grado di compiere imprese grandiose arriverà al punto in cui non ci riuscirà più.
Un altro tema è la grande enfasi posta sulla fede. La fede ti aiuterà a superare gli inevitabili momenti bui che incontrerai sul tuo cammino. La fede, si sa, è un elemento fondamentale della vita americana. Fortifica le persone: quando abbiamo fede, rendiamo al massimo delle nostre possibilità. Eppure io, cupo europeo imboscato in mezzo al branco in partenza, ho il sospetto che noi diamo il meglio di noi stessi quando abbiamo perso la fede. Ed è questo, credo, il tema del mio libro precedente, Il filosofo e il lupo. La perdita della fede offre, anzi, l’opportunità per diventare più forti. In fin dei conti, io credo che l’unico atteggiamento apprezzabile che possiamo assumere nella vita sia quello della sfida. Non farà una gran differenza, alla resa dei conti: in ogni caso, finiremo male, qualsiasi cosa facciamo; in caso contrario, il nostro atteggiamento di sfida sarebbe straordinariamente fuori luogo. In America Il filosofo e il lupo ha avuto una diffusione che, rispetto alle cifre brillanti delle vendite in Europa e in altre parti del mondo, credo sia corretto definire «fiacca»: termine che si adatterà quasi certamente alla mia prestazione nella gara di oggi. Non ho alcuna speranza di finire la corsa e neppure di arrivare a buon punto, ed è anche per questo che la situazione mi stimola. Che senso ha tentare un’impresa, se si sa già o si ha la netta sensazione – perché si è fiduciosi o convinti – che ce la si caverà alla grande? A dire il vero, sospetto che la sensazione di non avere speranza di arrivare al traguardo sia una delle cose che più mi spingono a correre, oggi.
Infine, i libri americani sulla corsa sottolineano il valore positivo del lavoro. A questo riguardo, si possono individuare due filoni di pensiero. C’è chi sembra persuaso che il lavoro sia intrinsecamente nobilitante e chi associa il valore del lavoro ai sogni che permette di realizzare (si veda il primo tema «ottimistico»). Il mio fosco spirito europeo, però, mi suggerisce che il lavoro non è affatto nobilitante in quanto tale: lavorare quando non è necessario, più che nobilitante, è stupido. Inoltre non ci sono prove certe di un nesso causale fra il duro lavoro e la realizzazione dei sogni. Dal lavoro non si ricava niente di buono, dico a me stesso. Nel migliore dei casi, correre è un gioco, non un lavoro. Questa è in effetti una delle cose che ho imparato dalla corsa.
Ottimismo, fede e lavoro: non voglio niente di tutto ciò. A quanto pare, sono un pessimista sfiduciato e convinto che il duro lavoro non serva a niente. C’è da stupirsi che mi abbiano dato la green card.
Partecipo a questa maratona perché ho perso la fede. È forse il primo passo verso la verità? Immaginate un coccodrillo senza denti con l’Alzheimer che vada in cerca di un cappello che ha già in testa. È la figura stampata sul biglietto d’auguri di compleanno che mio fratello inviò a mio padre nel 1993, con la dicitura «Fossile della settimana»: credo sia stato il culmine della nostra tradizione familiare di mandarci biglietti d’auguri offensivi e possibilmente crudeli. Dedicavamo sempre molto tempo, impegno e ingegnosità alla ricerca del biglietto giusto. Quel che conta è il pensiero.
Il mio contributo più significativo a questa consuetudine è forse costituito dall’esemplare che mandai a mio fratello per il suo quarantesimo compleanno nel 2007. Il biglietto raffigurava un gruppo di boy-scout in campeggio. Un ragazzo legge un racconto spaventoso illuminando le pagine, come da tradizione, con una torcia premuta sotto il mento. I volti degli ascoltatori esprimono terrore e incredulità. Ecco lo spezzone di storia che ci viene rivelato: «E poi cominciano a crescerti i peli nel naso e nelle orecchie!». Il senso del biglietto è che certi racconti dell’orrore sono veri.
Pochi giorni prima del mio quarantottesimo compleanno, e qualche mese prima di ritrovarmi sulla linea di partenza di questa maratona, ricevetti una degna replica. Sul biglietto si vedono due pipistrelli appesi a testa in giù (elemento saliente dell’illustrazione).
«Lo sai che cosa mi spaventa più della vecchiaia?» dice uno all’altro.
«No, che cosa?»
«L’incontinenza.»
Lo scopo della religione è quello di farci sentire meglio propinandoci una menzogna. Lo scopo della filosofia, o di un biglietto d’auguri scelto con cura, è quello di farci sentire peggio, dicendoci la verità. E la verità, naturalmente, è che si può solo peggiorare.
Più o meno nel periodo in cui il biglietto sorvolava l’Atlantico diretto a casa mia, mi ritrovai a fare una domanda al mio medico di base: «In che senso “la gotta”?».
Circa una settimana prima, mi ero svegliato nel bel mezzo della notte accorgendomi di avere l’alluce del piede sinistro irrigidito. Il mattino successivo mi faceva male camminare. Poi il dolore era aumentato sempre di più. Nel giro di pochi giorni tutto il piede si era gonfiato e mi faceva un male tale che non potevo neppure mettermi le scarpe. Entrai scalzo e zoppicante nello studio del medico per capire che cosa mi fosse successo. Se la mia domanda era semplice, la risposta fu molto eloquente; non tanto per il suo contenuto esplicito, quanto piuttosto per quel che segnalava.
«Be’, sembra proprio gotta. Non potremo averne la certezza finché non avremo fatto un esame del sangue per capire quali siano i valori dell’acido urico.»
«Non ho la gotta. La gotta viene ai vecchi sovrappeso.»
«Be’, è vero che l’obesità e l’ipertensione aumentano il rischio di contrarre la gotta, ma non sono presupposti indispensabili.»
«Ma insomma, dài, la gotta!? Ce l’aveva Enrico VIII, che faceva una dieta a base di cosce d’oca, ettolitri di vino e così via. Io sono vegetariano.»
«Sì, una dieta con un forte contenuto di purina, come la carne e il pesce, aumenta il rischio di contrarre la gotta. Interessante che lei sia vegetariano. Beve molto?»
«Bere molto, io? Be’… un po’ di sherry secco a Natale. Senta, io faccio lo scrittore: credo di essere obbligato a bere per contratto. Okay, a essere sincero, quando ancora studiavo, me lo potevo permettere, adesso però che ci sono i ragazzi, no, non posso più farlo. Non conoscono pietà. Se per caso mi alzo con un leggero capogiro, quelli fiutano la mia debolezza, come squali che sentano l’odore del sangue. E allora mi aspetta una giornata incredibilmente faticosa. Non ne vale la pena. Magari mi bevo un bicchiere o due a cena, quando i ragazzi sono andati a letto, ma non di più. Qualche volta me ne bevo tre, altre solo uno: comunque mai più di tre.»
«Ah, terapia dell’avversione: interessante. Lo fa tutte le sere?»
«Be’… insomma, il più delle volte. A meno che non esca; se devo guidare, non bevo, naturalmente. Ma non esco molto.»
«È dimostrato che il consumo di alcol è responsabile di un ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Correre con il branco
  3. Traduzione di Gianni Pannofino
  4. Correre con il branco
  5. Introduzione Correre e ricordare
  6. I. Linea di partenza 2011
  7. II. La montagna di pietra 1976
  8. III. Nato per correre 1999
  9. IV. Sogni americani 2007
  10. V. Il serpente dell’Eden 2009
  11. VI. La Digue 2010
  12. VII. I confini della libertà 2011
  13. VIII. Dei, filosofi, atleti 2011
  14. Ringraziamenti
  15. Copyright