Caccia ai tesori nascosti di Roma
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Caccia ai tesori nascosti di Roma

  1. 368 pagine
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Caccia ai tesori nascosti di Roma

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Una vacanza a Roma è un'esperienza meravigliosa, ma ha un difetto: il percorso è praticamente uguale per tutti. Si sbarca felici ai Musei Vaticani, ci si intruppa davanti alla biglietteria del Colosseo, si gode il sole fuori stagione in piazza di Spagna, si veleggia nel grande mare dello shopping di massa di via del Corso.
Dopo un'ultima puntatina a San Pietro, lavacanza finisce e si torna a casa con la certezza di aver visto ciò che va visto della Città Eterna. Ma Roma, città imperiale e plebea, romana e multiculturale, città di religioni e magie, bottega dell'arte a cielo aperto e memoriale del potere, è una capitale in cui all'ombra dei monumenti più celebri vivono capolavori semisconosciuti e altrettanto meritevoli di essere scoperti.
Caccia ai tesori nascosti di Roma è la guida turistica alternativa ai percorsi da cartolina. A tutti coloro che vogliono abbandonare il turismo da torpedone, a tutti i romani che vogliono spendere bene il loro tempo libero, l'autrice propone un viaggio giocherellone da affrontare con lo spirito dei pirati o degli esploratori d'altri tempi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852030925
Categoria
Travel

1

INTORNO
ALLA STAZIONE
TERMINI

Cercare i due torrioni delle antiche
terme di Diocleziano nella città
moderna
Due le azioni da compiere subito, se si ha voglia di andare a caccia di terme nel pieno della stazione ferroviaria più importante di Roma. Termini (il cui nome – e non poteva essere altrimenti – deriva proprio dalle terme protagoniste di questo itinerario) è lo snodo per eccellenza, centinaia gli arrivi e le partenze in una giornata tipo, centinaia le corse degli autobus che si spostano per tutta la città dai capolinea che occupano per intero la piazza dei Cinquecento (dedicata alle cinquecento vittime militari della battaglia di Dogali). Poco distante spicca anche una fermata di tram, a completare un quadro urbano dedicato, per natura, allo spostamento. Ecco, la prima cosa da fare per ritrovare il tesoro perduto della città antica fra i binari e le strade della stazione è andare contro questa sua “indole” e, quindi, fermarsi.
La seconda azione riguarda l’osservazione. Non lontano dalla piazza degli autobus, una crosta di rovine antiche chiude la “scenografia” di piazza Esedra, contornata da bancarelle di libri usati, souvenir e macchine che circumnavigano la Fontana delle Naiadi, opera novecentesca dello scultore Mario Rutelli, nonno del politico Francesco. Dentro ai ruderi, una chiesa e un museo in cui si celebra, e non potrebbe essere altrimenti, il patrimonio romano antico e, ovviamente, anche ciò che è stato riportato alla luce di queste terme. Il tutto è disposto come una muraglia vecchia di millenni fra viale Einaudi e via Vittorio Emanuele Orlando. Piacevolmente in rovina, quello che rimane delle sale dedicate al tepidarium e al frigidarium esercita sull’osservatore di oggi il fascino del non-finito, l’attrazione dell’incompiuto. La muraglia ha l’aria di tenersi su per miracolo, con una testardaggine che ha saputo opporsi a secoli di riciclo, di ripristino urbanistico, di progresso e di modernità.
Oggi i ruderi imponenti delle terme sono una specie di promemoria per romani e turisti che decidono di passare del tempo in una delle aree più “moderne” del centro storico. È come se dicessero: “Qui la città ha permesso al progresso postunitario di prendersi i suoi spazi, godetevelo, ma è solo una concessione temporanea, una gentilezza dell’Antico nei confronti del Nuovo”. La Belle Époque a Roma deve fare i conti con un passato che non si piega, non si rassegna; ed è questo il bello, in fondo.
Continuando in questo esercizio di osservazione dei dintorni, invece, a parte le rovine in cui Santa Maria degli Angeli e la sede distaccata del Museo Nazionale Romano hanno trovato casa, il resto delle terme sembra completamente annichilito davanti alle radicali trasformazioni di cui è stata oggetto la zona sul finire dell’Ottocento. Difficile adesso percepire questo come un luogo di pace, di solitudo ricercata da quei raffinati dei romani dell’epoca tardo-imperiale che si spingevano fin quaggiù per trovare il conforto dell’acqua, dello sport, delle chiacchiere intelligenti, di buone letture, di tante opere d’arte. Impossibile quasi penetrare in una visione che sovrapponga allo zampillo dell’acqua della fontana, al centro di piazza della Repubblica, l’immagine di un angolo di eleganza dedicato al benessere. Le cronache ci parlano di tredici ettari di estensione, confini che oggi vanno da via Volturno a via Torino, passando per via del Viminale, fino a via XX Settembre, ma davvero non sembra che ne sia rimasta traccia. Eppure ancora qualcosa si può fare. Il segno che le terme non hanno abbandonato la loro città si avverte compiendo una terza azione obbligatoria: camminare.
La curva gentile di piazza della Repubblica è per esempio ciò che resta della grande esedra dove avevano sede le ampie piscine dei bagni. Il senso delle dimensioni va quindi affidato alle gambe, non bastano gli occhi. Percorrerla tutta, seguendone il bordo delimitato dalle rovine, può fornire uno sguardo d’insieme sulla grandiosità della costruzione, ma rimarrà sempre il sottofondo della città del progresso a distrarre.
Più in là, oltrepassata via Vittorio Emanuele Orlando si arriva a una piazza che funge da parcheggio per tutta la zona. Davanti si apre via XX Settembre su cui affacciano due chiese importanti per il turismo romano, Santa Susanna (prima “palestra” del Barocco) e Santa Maria della Vittoria (con l’Estasi di Santa Teresa, capolavoro berniniano). Più giù, verso il Quirinale, all’incrocio con via delle Quattro Fontane, la chiesa di San Carlino è opera del lavoro praticamente gratuito di Borromini per conto di un gruppetto di frati trinitari provenienti dalla Spagna. Niente di più semplice che perdere di vista lo scopo dell’itinerario una volta finiti da queste parti, accecati dalla promessa solenne di opere d’arte e meraviglia.
E invece occorrerà arginare la “frenesia” turistica per rimanere esattamente dove si è approdati, nella piazza-parcheggio, piazza di San Bernardo. La chiesa che dà il nome allo slargo “sbuca”, invece, sul lato sinistro e fronteggia Santa Susanna dall’altra parte della strada. Primo dettaglio: è una delle poche a pianta rotonda e si capisce già guardando quella sua forma convessa che emerge serena dai palazzi. Su un fianco, nell’intonaco color marroncino è stato intelligentemente lasciato un riquadro di mattoni a vista. Non è un vezzo qualsiasi, ma una chiave di lettura per aiutare a capire che il materiale costruttivo della chiesa è in fondo lo stesso della “muraglia” di rovine alle spalle di piazza della Repubblica. Che è “cosa” termale lo si capisce dalla sua silhouette e dal nome – San Bernardo alle Terme, appunto – ma, per la precisione, bisogna anche sapere che la chiesa è stata costruita, sul finire del Cinquecento, all’interno di uno dei torrioni (quello di sud-est) che delimitavano gli angoli esterni dell’edificio eretto dalle maestranze di Diocleziano. Il torrione, per altro, è stato mantenuto nelle dimensioni originarie (ventidue metri di diametro) ed è rimasto privo di fonti di luce laterali, ecco perché a Roma San Bernardo è famosa (ma non troppo) per essere la “chiesa senza finestre”.
Eppure, una volta dentro, non ci si sente avvolgere dalle tenebre, anzi. Tutta “colpa” di un grande foro, l’impluvium, che “buca” la cupola proprio come accade anche al Pantheon, se non fosse che lì il foro è libero da qualsiasi impedimento e qui invece è in parte chiuso da una lanterna che completa il tetto. Per il resto, c’è un altro elemento fondamentale per “attrarre” la luce all’interno, ed è il bianco. Il candore della volta, appena “stuzzicato” dal gioco geometrico delle decorazioni che creano una ragnatela di chiaroscuri, è il motivo principale per cui, una volta entrati, non si vorrebbe mai andare via, abbandonandosi al piacere di essere in uno spazio etereo in cui, per una volta, sono i marmi policromi a essere degli intrusi, insieme agli ori e ai colori. Certo, in San Bernardo non sono stati toccati i vertici artistici dell’architettura del bianco, così come nella vicina San Carlino. Con ogni probabilità Borromini doveva avere tenuto ben presente San Bernardo come esempio, quando si dedicò a “inventare” uno spazio interno accogliente pur avendo a disposizione qualche metro quadrato appena. D’altro canto anche qui, nel torrione trasformato in luogo di preghiera, è difficile sentirsi “ristretti”, il bianco allarga le prospettive e cattura la luce, anche la poca che entra dall’alto, e poi si occupa di diffonderla e aumentarne lo splendore abbracciando il fedele e il visitatore in una stretta benefica, quasi materna. E infatti non è raro, specie se si capita in un momento in cui si è gli unici ospiti, restare più del dovuto, assorti a naso in aria, proiettati fra le mille ombre e le mille luci della volta, il cervello in pace, le gambe finalmente a riposo.
Un po’ più complessi saranno invece la scoperta e l’incontro con l’altro torrione, anch’esso recuperato e utilizzato per altri scopi dalla città che cresceva. Di nuovo, occorrerà mettere in movimento il “misuratore ad acido lattico” (cioè le gambe) e ripercorrere, stavolta in velocità, piazza della Repubblica annotando mentalmente che se in città la chiamano anche piazza Esedra il motivo è già stato scoperto e “calcolato” in modo empirico. Purtroppo, però, se nel bianco di San Bernardo era semplice abbandonarsi a pensieri alti, frutto di quel misto di contemplazione e fatica che innalza la mente, davanti al torrione di sud-ovest il quadro è diametralmente opposto e non soltanto in virtù dei punti cardinali.
Qui è la cattiva coscienza della stazione ferroviaria di una grande metropoli a fare da contraltare. Termini fino a poco prima del Giubileo del 2000 altro non era se non un enorme luogo abbandonato a se stesso, da cui si fuggiva il prima possibile con la scusa di un treno in partenza o degli spostamenti da compiere. Oggi, nonostante le rimanga appiccicata quell’aria malavitosa “da stazione”, è invece luminosa e vissuta grazie a un polo commerciale che sfrutta le vecchie strutture non più fetide per offrire conforto e servizi a viaggiatori e passanti. Eppure, lungo via del Viminale è come se la coda dei “non luoghi” urbanistici tornasse a colpire. Il torrione di sud-ovest è oggi niente di più che l’entrata di un parcheggio.
Su un angolino la porticina di un ristorante per turisti è l’unica cosa che sembra volerci ricordare al cospetto di quale monumento si è capitati, RISTORANTE TERME DI DIOCLEZIANO dice l’insegna. Il resto è, all’inizio della via, un negozio di maglieria, qualche accesso secondario ai locali che trionfano sotto i portici di piazza della Repubblica, bar coi tavolini fuori e una bottega antica che vende panini con porchetta e vino dei Castelli come nella migliore tradizione.
Dulcis in fundo attaccato al torrione ecco risbucare l’abbandono. La vetusta Casa del passeggero è tristemente desolata nelle sue leggiadre decorazioni liberty di inizio secolo. Rimanda a tempi in cui i treni sbuffavano, il mito della velocità era stato conquistato e il futuro avrebbe dovuto essere radioso per forza. L’albergo diurno a due passi dalla Stazione Termini rappresentava forse il lato più prosaico di questa società in procinto di uscire dall’Ottocento, si limitava a offrire un servizio. Lo faceva all’insegna del più delicato stile floreale, con una pensilina di ferro e vetro, colonnine leggere, ringhiere sinuose e non senza ricordare che la sua presenza sul luogo era storicamente appropriata, grazie a un’insegna che prometteva: MANICURE, PEDICURE, TOELETTE, BAGNO ROMANO, MASSAGGI.
Adesso, da quando la Casa del passeggero sembra più malmessa del torrione vecchio quasi duemila anni, la sensazione che si ha davanti ai suoi cancelli sbarrati, alla sporcizia e alla polvere accumulata in anni di incuria e progetti mancati è di perdita. E allora può capitare di ricordarsi di quella prima occhiata lanciata alle rovine delle terme che si affacciano su piazza della Repubblica. Dovevano fare da promemoria e infatti così è stato, perché si sappia che a Roma difficilmente il nuovo vince sull’antico. Poi, all’improvviso, in alcuni momenti di luce particolare, il torrione proietta uno spicchio di ombra fresca su questo minuscolo microcosmo smarrito fra le pieghe della Città Eterna. Potrebbe suonare come una minaccia. Ma in quel momento speciale, invece, all’improvviso ti accorgi che è quasi una specie di abbraccio.
Scovare uno dei musei “non musei”
della capitale
Colossei-portacenere in finta pietra, elmi e corazze da gladiatori in vera plastica che pendono desolati da un baracchino al fianco di guide rapide della città, bottigliette d’acqua che costano come l’oro, rosari e matitone con su impressa la basilica di San Pietro, per non parlare della pasta tricolore o, peggio, di quella arcifamosa a forma di “cazzetto” (ma sempre tricolore, sia chiaro). Lo spettacolo dei souvenir in bella mostra è forse l’immagine più scontata sugli itinerari “commerciali” della Roma turistica. Sono una specie di “pegno” che ogni turista deve pagare, prima o poi. Gli oggetti che inevitabilmente fanno precipitare in un’atmosfera da gita scolastica delle medie, anche se ormai si è più vicini alla pensione che non alla scuola dell’obbligo.
Nessuno, d’altro canto, può dirsi immune dal fascino pacchiano di una chiesa racchiusa sotto una calotta di plastica trasparente, sulla quale si può far piovere una coltre di magnifica neve sintetica. A volte si cede con gusto, altre con uno strano senso di colpa che si affaccia da un angoletto recondito del proprio cuore. Acquistare un souvenir, in ogni caso, non significa sempre tradire tutto il carico di tempo e fatica dedicati alla scoperta del bello di Roma, dei suoi aspetti meno noti, delle sue novità, semmai alla città più visitata del mondo rimangano ancora assi nella manica per stupire i suoi visitatori.
Comunque, non ci si può esimere, il “ricordino” è un prolungamento della memoria e un’estensione degli occhi. Neanche la miglior foto del mondo riuscirebbe mai a eguagliare la carica simbolica del calendario sui gatti di Roma, forse l’articolo più noto ai frequentatori di edicole dalla Stazione Termini in giù.
E allora, se proprio bisogna cedere alla tentazione, tanto vale impegnare almeno un po’ della testardaggine con cui ci si è applicati a scovare il miglior vicolo della capitale o lo scorcio che più verace non si può anche alla ricerca del ricordo di Roma meno scontato da portarsi a casa. Inutile dire che proprio questo giusto equilibrio fra il diritto al ricordo e il dovere al buongusto è di per sé una caccia al tesoro in tutto e per tutto. Le regole, in ogni caso, sono più o meno le stesse pure in questo campo: gambe libere di muoversi, occhi prontissimi a recepire il suggerimento offerto da una bottega più buia delle altre, da una traversa nascosta dalla vegetazione spontanea, dal sampietrino più sgangherato. Nel caso in cui si dovesse fallire, inoltre, ci si può consolare sapendo che questa esplorazione a caccia di souvenir può portare facilmente a scoprire nuovi itinerari, altri segreti cittadini e, perché no, il panorama indimenticabile che magari si cercava da giorni.
Chi poi non avesse né voglia né tempo per dedicarsi a una nuova entusiasmante avventura nei meandri della Città Eterna, magari perché il treno in partenza al binario non lo aspetta per sempre, allora sappia che proprio senza allontanarsi troppo dalla stazione potrebbe fare la conoscenza con qualcosa che definire semplicemente rivendita di souvenir appare quantomeno riduttivo, se non un’offesa vera e propria.
Al titolare (e artista), Domenico Persiani, piace che il suo giardino rimanga un’apparizione nella corsa veloce fra un monumento e l’altro. Forse anche per questo l’aggiornato sito Internet (www.anticamanifatturaroma.com) con cui comunica col mondo lascia soltanto intuire l’incanto che il suo laboratorio all’aperto, al civico 92 di via Torino, regala se incontrato casualmente in un giro a piedi da quelle parti. All’inizio sembra una casa privata, uno di quei cortili dei palazzi antichi in cui ci si infila clandestini per curiosità, magari attratti dallo scorcio offerto dalla chiesa di San Bernardo alle Terme che prolunga il suo incanto anche sulle vie limitrofe, e poi si rimane stregati a guardare l’elegante casualità con cui sono stati disposti i decori (veri o finti ha davvero importanza?), qualche resto archeologico, due o tre iscrizioni poggiate con pigra nonchalance ai muri scrostati. Lentamente si comincia a capire che invece ci si trova davanti a un’esposizione bella e buona, una mostra a cielo aperto di perizia artigianale, studio dei materiali e rispetto di una tradizione antica e nobile allestita sotto le fronde di un leccio antico. E lo si capisce anche perché, una volta entrati, la quantità di oggetti, busti, frammenti, vasi, chicchere e ceramichette è talmente soverchiante da imporre un enorme respiro prima di immergersi in un microcosmo en plein air che non ha nulla a che vedere con i colossei di cui sopra, né con le basiliche sotto vetro, figuriamoci.
L’universo di delizie dell’ex Ditta Filonzi (fornitrice del Quirinale dal 1804), rilevata meno di vent’anni fa da questo artigiano coraggioso e capace, conta maschere del teatro greco, copie di reperti romani vicini a repliche dei capolavori di Antonio Canova, vasi, ritratti di faraoni, fauni, leoni e ogni altro “bendiddio” che possa titillare l’immaginario estetico di chiunque sia un poco appassionato di cose antiche. I piedi scricchiolano sul brecciolino, lo sguardo vola dall’erma di un poeta di cui non ci si ricorda il nome a una testina incastrata nell’incavo di un tombino per terra su cui è stata riprodotta pure la consunzione dei millenni, dalla piega particolare di un ramo del leccio attorno a cui si muove questo paradiso inusuale colorato di terracotta a una piastrellina policroma che si nasconde dietro a una tartaruga. Su tutto, una gattina cordiale (questa sì, in carne e ossa), Luna, che si struscia sui vasi e viene incontro al visitatore per portarlo a ispezionare il suo mondo, richiedendo, in cambio, solo coccole (ma tante).
In pochi metri quadrati l’incanto di un giardino fatato rapisce visitatori, curiosi e compratori che si muovono con delicatezza nel patrimonio fragile del signor Persiani, non toccano (perché è giustamente proibito) ma si sporgono, osservano, sorridono, si informano, mentre uno dei collaboratori del titolare lavora l’argilla e la prepara perché diventi un altro degli oggetti di questo “pantheon della copia” capace di essere viva anche nell’era della sua riproducibilità.
I minuti volano senza rendersene conto, il treno potrebbe essere già partito, ma davvero si vorrebbe rimanere qui dentro per ore, “racchiusi” in un cortile d’epoca, sotto l’ombrello antico di un albero a cercare di capire come si fa a far sembrare la terracotta uguale al marmo, e a sapere quante sfumature si possono ottenere dal marrone della terra di Siena. Com’è possibile che a Roma, se si gira appena un po’ più del normale, si aprano sempre le porte di un’avventura speciale, pure se in fondo uno voleva soltanto comprare un souvenir prima di prendere il treno?
Infilarsi nella chiesa di San Vitale
su via Nazionale e scoprire perché
è al di sotto del piano stradale
Fin dagli albori del Medioevo dal suo porticato ombroso partivano le processioni annuali delle vedove. Come in un défilé d’antan le donne sole di Roma si riparavano sotto il gran cappello della religione popolare per cercare conforto e, magari, rifarsi una vita. Alle gerarchie ecclesiastiche (primo fra tutti papa Gregorio Magno che inaugurò e inventò l’iniziativa liturgica) doveva essere parso un colpaccio riunire un nugolo di donne sole e allo stesso tempo rinverdire la pratica della devozione con una bella processione, organizzata, magari, quando il calendario languiva d’eventi di spicco.
Oggi, invece, per quegli strani casi della vita, la vedova sembra lei, sola com’è, leggermente incupita per lo sprofondamento sotto il piano stradale subito nei secoli da quando le è stata costruita sopra via Nazionale. O meglio, i palazzi, i negozi scintillanti, gli hotel, i teatri e tutto l’apparato di questa grande arteria che parla di progresso e modernità gli si sono talmente addossati che, a un’occhiata veloce, la prestigiosa e potente basilica di San Vitale adesso è giusto una nota marrone e lenta nel paesaggio circostante dominato da toni chiari e dalla fretta.
Anche la fisionomia futuristica del Palazzo delle Esposizioni che la sovrasta è quasi uno sberleffo. Il “marameo” architettonico di una donna alta, bella (di sicuro taglia 40) e di successo alla sua vicina racchia, avanti con gli anni, tracagnotta, scura e – facile pensarlo a un primo sguardo disattento – malmostosa per quella sua posizione scomoda che sicuramente non aveva preventivato nella sua lunga vita di chiesa. Appartata sì, ma mai messa da parte.
Nonostante le sue mille traversie, i rimaneggiamenti, le ridipinture, l’abbattimento e poi la ricostruzione di quel suo portico splendido e silenzioso, San Vitale non meritava forse di ritrovarsi vari metri più giù ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Caccia ai tesori nascosti di Roma
  3. 1. Intorno alla Stazione Termini
  4. 2. Con le spalle al Colosseo
  5. 3. Intorno al Campidoglio
  6. 4. Vicino a via del Corso
  7. 5. Oltre Montecitorio
  8. 6. Nei dintorni del Pantheon
  9. 7. Dalle parti di largo di Torre Argentina
  10. 8. In zona Campo de’ Fiori
  11. 9. Dalle parti di Trastevere
  12. 10. Subito fuori Trastevere
  13. 11. Intorno al Circo Massimo
  14. 12. E va bene, c’è pure San Pietro
  15. 13. Di tutto un po’ (passeggiate a tema)
  16. 14. Dentro Ostia
  17. 15. Su via Casilina
  18. Copyright