Regina
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Regina

La vita e i segreti di Maria José

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Regina

La vita e i segreti di Maria José

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In Regina Arrigo Petacco affronta un personaggio tuttora discusso, che ebbe un ruolo rilevante e controverso per le sorti del nostro paese. E lo segue dall'infanzia serena nel castello di Laeken agli anni della Grande Guerra trascorsi in Inghilterra, all'adolescenza al collegio fiorentino di Poggio Imperiale, dove Maria José, figlia dei reali del Belgio e destinata fin da bambina a sposare Umberto di Savoia, si «italianizza». Ma è soprattutto sul periodo del matrimonio che l'autore sofferma la sua attenzione, ricostruendone con spirito indagatore gli aspetti psicologici e politici: dall'unione rivelatasi subito deludente con Umberto alle numerose amicizie con intellettuali anche avversari al regime; dai rapporti affettuosi con Amedeo d'Aosta a quelli contraddittori con Hitler e Mussolini. E ancora racconta della fuga in Svizzera, dell'ostilità dei Savoia al suo rientro, dell'abbandono dei vecchi amici. Un serio contributo storico e insieme un ritratto quanto mai incisivo di colei che, seppur per meno di un mese, fu l'ultima regina d'Italia.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852027475
Argomento
Geschichte

Parte seconda
IL DRAMMA

XIII
SARÀ UNA GUERRA-LAMPO...

Venerdì mattina, 1° settembre 1939: la giornata si preannunciava eccellente. La mietitura era ovunque terminata e la vasta pianura polacca rassodata dal sole estivo era più che mai propizia al passaggio dei carri armati. Fu quel venerdì mattina, alle 4.45, che, con l’invasione della Polonia da parte delle armate tedesche, aveva inizio la Seconda guerra mondiale. Sulle prime, tuttavia, pochi immaginavano che da quel modesto conflitto locale sarebbe scaturita una scintilla capace di incendiare il mondo intero. Certamente, si pensava, le diplomazie avrebbero trovato il modo di salvare la pace, così com’era accaduto l’anno prima quando i tedeschi si erano annessi l’Austria e avevano occupato la Cecoslovacchia.
D’altronde, in Occidente, nessuno aveva voglia di combattere. «Vale la pena di morire per Danzica?» si chiedeva la gente. Danzica era la città contesa che aveva offerto a Hitler il pretesto per invadere la Polonia. In realtà, il disegno di Hitler era assai più complesso e ambizioso, ma a questo punto sarà opportuno tracciare una rapida panoramica della situazione europea, poiché grazie a essa sarà più facile comprendere le emozioni, le contraddizioni e anche la doppiezza che caratterizzarono in quei giorni i comportamenti di Maria José.
All’inizio del conflitto, le grandi potenze europee erano divise in due blocchi: da un lato Francia e Inghilterra, alleate della Polonia, e dall’altro Italia e Germania, cui si era unita, sia pure non ufficialmente, l’Unione Sovietica. Pochi giorni prima di quel venerdì, cogliendo di sorpresa anche Mussolini, Hitler aveva stretto con Stalin un patto d’amicizia nelle cui clausole segrete si prevedeva la spartizione della Polonia e l’annessione dei paesi baltici da parte dell’URSS. Di conseguenza, quando il 1° settembre erano iniziate le operazioni belliche, l’automatismo delle alleanze aveva costretto, sia pure di malavoglia, Francia e Inghilterra a dichiarare guerra alla Germania mentre, dal canto suo, Stalin provvedeva a occupare, senza colpo ferire, Lettonia, Estonia e Lituania. Solo la Finlandia, il quarto paese destinato a entrare nell’orbita sovietica, resistette eroicamente per alcuni mesi all’Armata Rossa, dando vita tra i ghiacci del Nord a un’eroica epopea che mise in difficoltà il potente e prepotente vicino.
In questo confuso frangente, anche l’Italia, legata alla Germania dal Patto d’acciaio, sarebbe dovuta entrare in guerra, ma Mussolini era riuscito a restarne fuori con un abile escamotage. Avanzando una serie di scuse, più o meno concrete, per non allarmare il potente alleato, si era inventato la formula curiosa della «non belligeranza», con la quale l’Italia rinunciava per il momento all’uso delle armi pur restando fedele amica della Germania.
L’entrata in guerra della Francia e dell’Inghilterra avrebbe potuto, almeno in teoria, mettere in crisi la Germania. Il grosso dell’esercito tedesco era infatti impegnato in Polonia, mentre il fronte occidentale era protetto da una leggera cortina di riservisti: se quindi i franco-inglesi avessero voluto davvero passare all’offensiva (non dimentichiamo che in quel momento l’esercito francese era considerato il più forte del mondo), attaccando sul Reno, avrebbero facilmente sfondato. Invece non fecero nulla. Per mesi e mesi tra la linea difensiva francese Maginot e la linea tedesca Sigfrido regnò la calma più assoluta. Non un colpo di fucile, ma solo scambi di appelli radiofonici. In alcuni avamposti, soldati francesi, inglesi e tedeschi si scambiavano cioccolata e sigarette e organizzavano persino partite di calcio.
Sembrava una guerra per burla, una drôle de guerre, come dicevano i francesi. I due eserciti si scrutavano, ma nessuno si decideva a sparare per primo. I tedeschi lo facevano per tattica, onde avere il tempo di sistemare le cose sul fronte orientale, gli alleati franco-inglesi proprio perché non avevano interesse a combattere. Francia e Inghilterra erano entrate in guerra per salvare la faccia di fronte all’aggressione della Polonia, ma speravano che Hitler, inghiottita la preda, si sarebbe ammansito. Non sarà così.
La guerra comincia a essere un po’ meno una burla nella primavera del ’40. Hitler, che ha risolto i suoi problemi a est e a nord conquistando la Polonia e la Norvegia, può ora concentrare tutte le forze sul fronte occidentale. Le sue minacciose intenzioni fanno svanire le residue illusioni di chi ancora sperava in una soluzione diplomatica del conflitto e per gli anglo-francesi la situazione si fa drammatica. L’esercito tedesco si è rivelato una travolgente macchina da guerra, i suoi blitz hanno stupito il mondo e la Francia trema: si sente sicura dietro le fortificazioni della linea Maginot, ma teme la ripetizione del Piano Schlieffen attraverso il Belgio, com’è accaduto nel 1914.
Il Belgio viene dunque a trovarsi di nuovo nell’occhio del ciclone quando sul trono non siede più l’eroico re Alberto, ma il giovane e incerto Leopoldo III. Il quale, oltre ad aver rotto l’alleanza che lo legava a Londra e a Parigi dai tempi gloriosi della Prima guerra mondiale, ha anche rifiutato di ripristinarla quando la minaccia tedesca si è riaffacciata alle sue frontiere. In contrasto con il suo stesso governo, egli infatti si dice convinto che questa volta i tedeschi non violeranno la neutralità del suo paese. Come vedremo, si sbagliava e l’errore gli costerà caro.
Frattanto, nell’Italia non belligerante Maria José segue con ansia il precipitare degli avvenimenti. È incinta di Maria Gabriella (partorirà il 24 febbraio 1940), ma il peso della gravidanza non le impedisce di fare la spola tra Napoli e Roma. Nel suo salotto al Quirinale arrivano gli echi delle apprensioni, ma anche delle speranze e degli entusiasmi che le clamorose vittorie dei tedeschi hanno suscitato nel paese. Lei è contraria alla guerra e teme le conseguenze che l’allargamento del conflitto potrebbe comportare sia per la sua patria adottiva sia per il suo paese natale. Mantiene stretti contatti col fratello Leopoldo, al quale è molto legata, ma le riesce difficile capirne la politica. Con Vittorio Emanuele non parla da mesi, mentre Umberto, sempre chiuso nella sua rigida obbedienza dinastica, evita accuratamente di esprimere il suo pensiero. La principessa è dunque sola. Ci sono soltanto due uomini di cui si fida e dai quali vorrebbe farsi consigliare: Amedeo d’Aosta e Italo Balbo. Ma uno è a Addis Abeba e l’altro a Tripoli.
Verso la fine di aprile, Maria José si fa coraggio e li convoca entrambi. Li riceve segretamente nella sua garçonnière e a loro apre il suo cuore. Parlano a lungo e si trovano d’accordo sul fatto che l’entrata in guerra sarebbe un disastro per l’Italia. «Se gli inglesi mi attaccano» dice Amedeo «l’Impero andrà in frantumi. L’Etiopia è indifendibile: dispongo delle migliori truppe del mondo, ma senza armi e senza rifornimenti non si può combattere. Se il Duce dichiara la guerra, noi saremo spacciati.» Balbo non è meno pessimista: «Con gli inglesi in Egitto e i francesi in Tunisia» osserva «la Libia è come il prosciutto di un sandwich. L’unica maniera per salvarci sarà quella di raggiungere a nuoto la Sicilia...».
Incoraggiati da Maria José, il viceré d’Etiopia e il governatore della Libia chiedono udienza a Mussolini nella speranza di riuscire a fermargli la mano. Il Duce li riceve separatamente, li ascolta taciturno, poi mostra a entrambi un telegramma di Hitler il quale garantisce anche all’Italia un futuro radioso. Infine li congeda senza far loro conoscere quali saranno le sue decisioni. Più tardi, Amedeo va a sfogarsi con Ciano, il quale annota nel suo diario: «6 aprile. Il duca d’Aosta, che ho visto stamane, mi dichiara che per lui non solo è impossibile fare offensive, ma anche estremamente problematico mantenere le posizioni attuali perché i franco-inglesi sono ormai attrezzati e pronti all’urto, mentre le popolazioni, tra le quali la ribellione serpeggia ancora, insorgerebbero non appena avessero la sensazione che siamo nei guai».
Il 9 aprile Ciano annota ancora: «Al Duce ormai gli prudono le mani, ma siamo pronti alla lotta? Balbo e il duca d’Aosta mi hanno in questi giorni parlato dei loro rispettivi settori in termini che lasciano adito a poche illusioni».
Quando Balbo e Amedeo si ritrovano da Maria José non possono che allargare le braccia sconsolati. Tutto ciò che era in loro potere fare, è stato fatto. Non rimane che attendere gli eventi. «E se avesse ragione Mussolini?» si chiedono perplessi. Alcuni giorni dopo, Amedeo riparte per Addis Abeba e all’aeroporto, a salutarlo, ci sono Balbo e Maria José. Lui è molto scoraggiato, abbraccia la principessa e le dice: «Ho un presentimento amaro: forse questa è l’ultima volta che ci vediamo». Lei indugia un poco nelle sue braccia, poi gli mormora con un sorriso triste: «In bocca al lupo, Buby». Pure Amedeo sorride, ma un’ombra incupisce l’azzurro dei suoi occhi. Montando sulla scaletta dell’aereo borbotta tra sé: «Povero Buby». Non si vedranno più.
Anche Balbo, salutata Maria José, rientra a Tripoli e forse anch’egli dice a se stesso: «Povero Balbo». Non rivedrà più l’Italia: morirà diciotto giorni dopo l’inizio della guerra, abbattuto per errore dalla nostra contraerea nel cielo di Tobruk.
Maria José è di nuovo sola, ma non è vero, come scriveranno i suoi biografi, che è in grande apprensione per le sorti del nostro paese. L’Italia, in realtà, sta vivendo gli ultimi giorni di pace in un clima di euforia. Le brillanti imprese tedesche hanno eccitato le folle, gli studenti sciamano per le piazze invocando la guerra, il regime dà fiato alle trombe della propaganda e tutti sono convinti che Francia e Inghilterra saranno sconfitte in brevissimo tempo, solo che la Germania si decida ad attaccare. Per la verità, il timore più diffuso in Italia è quello di non arrivare in tempo a spartire con i tedeschi i frutti della vittoria. Perché la guerra sarà breve, sarà una «guerra-lampo», assicurano i giornali.
Anche in Casa Savoia regna l’ottimismo. Grazie al regime, Vittorio Emanuele è diventato re d’Albania e imperatore d’Etiopia e chissà quali altri onori lo attendono... Il sovrano conserva l’abituale mutismo, ma i suoi comportamenti non lasciano dubbi: ha insignito del collare dell’Annunziata nientemeno che Hermann Göring e in un momento simile non si sceglie senza ragione come «cugino» un maresciallo del Reich.
Non sono dunque le sorti dell’Italia a tenere in apprensione Maria José, bensì quelle del suo paese natale. Due mesi prima, Ciano l’ha segretamente informata che i tedeschi si preparano a invadere il Belgio per la seconda volta. «Avverta suo fratello di non contare sulla sua impossibile neutralità» le ha detto. Ma l’ambasciata belga accoglie con scetticismo l’intervento della principessa. «Sono voci allarmistiche messe in giro dagli inglesi» l’ha tranquillizzata l’ambasciatore. «Cercano di indurre re Leopoldo a ripristinare l’alleanza.»
Il 7 maggio, poco dopo la partenza di Balbo e di Amedeo, Umberto e Maria José sono ricevuti in Vaticano. L’udienza è stata concessa per i soliti motivi protocollari, ma in realtà Pio XII intende far pervenire alla principessa un messaggio importante. «Il Belgio sta correndo un pericolo grave e immediato» le sussurra. Poi ripete ancora: «Grave e immediato». È la conferma, molto più autorevole, di quanto le aveva accennato Ciano poco tempo prima. Tornata al Quirinale, Maria José convoca segretamente l’ambasciatore del Belgio e gli ripete le parole del papa. Ma di nuovo il diplomatico l’ascolta scuotendo la testa: non è affatto convinto che il Belgio corra dei pericoli. «Vede, Altezza» le spiega con sufficienza «in guerra l’elemento sorpresa è decisivo: mai i tedeschi ripeteranno l’identico attacco del ’14.» Poi aggiunge con tono rassicurante: «Per quanto riguarda il Belgio, Vostra Altezza può dormire tra due guanciali».
Quarantott’ore dopo, la vera sorpresa è che i tedeschi attaccano il Belgio ripetendo esattamente il Piano Schlieffen di ventisei anni prima. L’unica differenza è che, oltre al Belgio, attaccano anche l’Olanda. Per Leopoldo, che non ha certo la stoffa del genitore, sono giorni terribili. Traumatizzato dagli avvenimenti, autorizza all’ultimo momento l’ingresso nel paese delle truppe alleate, troppo tardi però per organizzare una linea di difesa. I soldati belgi combattono eroicamente, ma l’avanzata tedesca è inarrestabile. Gli Alleati vorrebbero trasformare il Belgio in un campo di battaglia, come nel ’14, ma Leopoldo li delude. Senza avvertirli e ignorando l’opposizione del governo, decide di arrendersi. Non ascolta neppure i suoi ministri che lo invitano a creare un governo in esilio, come hanno fatto il re di Norvegia e la regina d’Olanda. «Io rimango nel mio paese» dichiara. «Il ruolo del Belgio è ormai terminato. La causa degli Alleati è perduta.» Parole pesanti che gli saranno più tardi rinfacciate.
Alle cinque del pomeriggio del 28 maggio, il Belgio si arrende «senza condizioni». Mentre il governo del paese è affidato al movimento fascista di Léon Degrelle, Hitler concede a Leopoldo di rimanere con la sua famiglia nel castello di Laeken come ospite di riguardo, naturalmente sotto vigilanza. È un trattamento di favore? Considerando il comportamento dei tedeschi negli altri paesi conquistati non si può che rispondere affermativamente. D’altra parte, sarebbe sciocco non trattare con tutti i riguardi il fratello della principessa di Piemonte. Hitler, evidentemente, non vuole compiere un gesto ostile nei confronti dell’Italia, che della Germania è pur sempre l’alleato più importante.
La decisione di Leopoldo ha intanto suscitato viva riprovazione in Occidente. Il capo del governo belga Hubert Pierlot, rifugiato a Parigi, lo accusa di avere tradito il suo paese. Il presidente francese Paul Reynaud urla davanti ai microfoni: «Re Leopoldo ha gettato le armi in piena battaglia!», mentre Churchill, parlando ai Comuni, gli rimprovera indignato di avere preso quella decisione «senza alcuna consultazione preliminare, senza un minimo di preavviso, senza il consiglio dei suoi ministri, di propria iniziativa».
Maria José, pur avendo seguito con ansia la capitolazione del suo paese d’origine, non poteva tuttavia rimanere insensibile all’euforia che aveva pervaso l’Italia intera. In seguito si scriverà che la principessa fece il possibile per impedire la nostra entrata in guerra, ma non è vero. Anche lei, come quasi tutti gli italiani, si era probabilmente rassegnata all’ineluttabilità della partecipazione al conflitto. In una sua conversazione privata con Mussolini, questi le aveva dichiarato con franchezza: «Altezza, purtroppo i tedeschi vinceranno questa guerra». Quel «purtroppo» stava a significare molte cose, ma soprattutto che forse era il caso di adeguarsi.
Curiosamente, in quei giorni era proprio Mussolini il più incerto sul da farsi. Era consapevole dell’impreparazione del suo esercito, ma le vittorie di Hitler lo ingelosivano e lo spingevano a imitarlo. La trionfale marcia dei tedeschi in direzione di Parigi aveva creato in Italia una psicosi interventista mai registrata prima. La convinzione che la Germania avrebbe, «purtroppo», vinto la guerra si era rapidamente diffusa in tutti gli strati sociali del paese. I sondaggi a quei tempi non erano ancora in uso, ma il capo della polizia politica, Guido Leto, che aveva il compito di tastare il polso al paese, poteva dichiarare a Mussolini: «Come nel 1939 la polizia rilevò e riferì il quasi unanime dissenso verso l’avventura bellica, nel maggio del 1940 essa segnala il rovesciamento della pubblica opinione, presa da un ossessionante timore di arrivare tardi...». Negli ambienti industriali ed economici si riteneva un grave errore trascurare la possibilità di «vincere la guerra». Lo stesso Vittorio Emanuele rivelava cautamente la propria impazienza. «Gli assenti hanno sempre torto» borbottava a ogni occasione.
Ai primi di giugno Mussolini confidò a Ciano: «Entreremo in guerra perché il popolo italiano non mi perdonerebbe mai di avere perso questa occasione». Convinto che la guerra sarebbe stata breve, brevissima, una guerra-lampo, Mussolini decise alfine di giocare la carta decisiva. Al maresciallo Badoglio, capo di Stato Maggiore, che gli prospettava preoccupato la nostra assoluta impreparazione militare, rispose sicuro: «La guerra finirà in fretta. Io ho solo bisogno di un certo numero di morti per sedere al tavolo della pace». Nel pomeriggio del 10 giugno, Mussolini annunciava al mondo che l’Italia aveva dichiarato guerra all’Inghilterra e alla Francia.
Scoppiato il conflitto, la principessa di Piemonte svolse con grande scrupolo il suo compito di ispettrice della Croce Rossa, mentre Umberto assumeva il comando del gruppo di armate del fronte occidentale. La «guerra delle Alpi», come venne definito lo scontro italo-francese, durò pochi giorni, ma fu molto duro. La nostra «pugnalata alla schiena» (avevamo attaccato quando l’esercito francese era già in ginocchio e il fronte interno crollato) aveva reso più combattivi gli avversari, che resistettero rabbiosamente, infliggendoci gravissime perdite.
In quei giorni Maria José passa da un ospedale militare all’altro e ha modo di vedere centinaia di soldati i quali, nonostante la stagione estiva, hanno gli arti inferiori congelati per via dell’abbigliamento inadeguato con cui sono stati mandati a combattere sulle Alpi. Lei fa quello che può per migliorare l’aspetto sanitario della nostra mobilitazione. Proprio allora inizia anche a scrivere un diario, di cui siamo riusciti a ricuperare soltanto le pagine conservate presso la Fondazione Zanotti Bianco. Più che di un vero diario si tratta di una serie di rapidi appunti sugli avvenimenti giornalieri che forse Maria José si riprometteva di sviluppare in seguito con calma. La prima nota, scritta a mano il 12 settembre a San Rossore, è di ordine familiare. Dice: «Bagno di mare. Vera difficoltà per far vestire e salutare i bambini. Critiche della famiglia».
Ecco altre note del diario della principessa:
17 settembre 1940. Firenze. Visita all’ospedale di San Gallo con Anna: 25 feriti. Dato a tutti sigarette e cartoline dei bambini. Visita all’ospedale della CRI e alla Clinica chirurgica con 17 feriti. Ho riconosciuto molti feriti del fronte occidentale. Visita all’ospedale di Careggi: 71 ricoverati. Cena da Chiffon Lerris, poi ritorno sola al chiaro di luna. Magnifico.
20 settembre. Roma. Rivisto il prof. Pelosini che ha letto Alcyone, Madrigali dell’estate, ditirambo III, e le famose profezie di D’Annunzio sulla Francia e l’Inghilterra ... Proprio d’attualità! Poi: «L’Inghilterra si piace di scimmiottare le figure del buon curato Rabelais, prendendole in prestito da quella Francia che essa cerca di sobillare e di tiranneggiare prima di abbandonarla e di tradirla».
Il confuso richiamo della principessa si riferisce al fatto che, pochi mesi prima, dopo averla spinta in guerra, l’Inghilterra ha ab...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Regina
  3. Parte prima - L’attesa Dorata
  4. Parte seconda - Il Dramma
  5. Epilogo «Il passato è passato»
  6. Bibliografia
  7. Indice dei nomi
  8. INSERTO FOTOGRAFICO
  9. Copyright