«Qua ci sono cent’anni di storia» si vantano i Molè, il clan che domina la piana di Gioia Tauro. Imparentati con i Piromalli, sono affiliati alla ’ndrangheta da almeno quattro generazioni. Ancora più longevi sono i Pelle, i Giorgi e i Nirta di San Luca, cognomi che già nel 1870 figurano in quella lista dei latitanti più pericolosi, per la cui cattura viene istituito un fondo presso il ministero dell’Interno. «Tutti i miei congiunti hanno avuto a che fare con la ’ndrangheta» dichiara ai giudici Paolo Iannò, oggi collaboratore di giustizia. «Mio nonno Francesco comandava il “locale” di Catona e aveva rapporti con le famiglie Lo Giudice, Rogolino, Suraci. Mio zio Paolo Suraci era responsabile del “locale” di Gallico, mio zio Francesco di quello di Condera.»1
Passato e presente, tradizione e innovazione. È sempre stato così e sarà così per sempre: gli ’ndranghetisti ne sono convinti, capaci come sono di adattarsi a ogni cambiamento, a qualunque situazione. La loro è un’organizzazione che non invecchia, solida come il controllo che esercita sul suo territorio e fluida come gli affari che gestisce. Una sorta di patologia della modernità, oltre che del potere, pur con qualche distinguo. «Loro sono moderni, troppo moderni» dice il boss Giuseppe Commisso, «il Mastro», riferendosi alle nuove generazioni di picciotti. Nella sua lavanderia di Siderno incontra molta gente, senza il sospetto di essere ascoltato dalle cimici dei carabinieri: «Io sono pure moderno, però moderno nelle cose giuste. ... Loro sono esaltati. Certe persone quando sono esaltate non possono competere con le persone semplici e giuste».
Ancora oggi molti boss come Commisso si considerano «semplici e giusti». L’understatement è una loro caratteristica, al pari della discrezione dei vecchi capiclan che negli anni Sessanta abitavano case decrepite, spesso senza intonaco e con i ferri dell’armatura di cemento protesi verso il cielo come rami secchi. Nelle piazze esibivano una finta povertà e incedevano lentamente con eccessivo sussiego, ostentando il proprio potere.
A Siderno Antonio Macrì è uno che comanda con lo sguardo e quando concede qualche confidenza conferma la sua riservatezza: «Non ho manie di prestigio, per vivere mi basta poco». La gente lo ritiene una persona seria, uno che parla poco e mai a vanvera. Si rivolgono a lui molte vittime di soprusi e prepotenze che lo preferiscono all’autorità dello Stato. Si racconta che nel 1954 anche il vescovo di Locri, Pacifico Maria Perantoni, abbia chiesto al boss di Siderno protezione contro alcuni sacerdoti che lo minacciavano di morte, dopo che aveva scoperto alcune irregolarità nella gestione dei fondi della Pontificia opera di assistenza (POA).2
Spesso con garbo e autorità, talvolta con la forza, Antonio Macrì riesce quasi sempre a ricomporre i dissidi che caratterizzano il mondo contadino: i litigi per l’uso e l’abuso dei pascoli, le contese per le violazioni dei confini, i frequenti furti di bestiame. Scrivono i giudici della Corte di Assise in una sentenza del 1950: «Mentre altrove le controversie agrarie si discutono davanti al tribunale, in Siderno e Locri si ricorre all’occulta potenza del Macrì per imporre la volontà dei padroni a contadini e mezzadri». Sono atteggiamenti prevaricatori che si registrano non solo nella Locride, ma anche nelle zone di Rosarno, Taurianova e Cittanova, tutti territori nei quali la ’ndrangheta controlla il collocamento della manodopera, intervenendo, intimorendo, minacciando e all’occorrenza bastonando il bracciante che reclama il rispetto dell’orario di lavoro e il salario stabilito dal contratto.
Anche se non somigliano per nulla alla raffigurazione romantica del ribelle all’ordine sociale, del Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri, i capibastone della ’ndrangheta sono convinti di vivere in un mondo pieno di rischi e di insidie dove loro possono portare ordine e pace sociale. Con addosso il suo giaccone da cacciatore, Giuseppe Zappia, pensionato di guerra e della previdenza sociale, ai magistrati che gli domandano perché si trovasse a Montalto con tutte quelle persone, in occasione del summit interrotto da polizia e carabinieri nel 1969, risponde: «Per fare il bene del popolo». Il boss di Gioia Tauro Mommo Piromalli, a un giornalista che gli chiede conto dell’enorme rispetto di cui gode, replica: «Non sono mafioso, la povera gente mi vuole bene e non ho mai fatto nulla di cui vergognarmi».3
Qualche anno prima, nel 1963, a San Giorgio Morgeto, in provincia di Reggio Calabria, nell’abitazione di un boss la polizia sequestra un codice della ’ndrangheta in cui si fa riferimento a un non meglio precisato obbligo di «difendere il debole contro il forte»; un linguaggio che serve a impressionare le nuove reclute inducendole a vedere nella ’ndrangheta uno strumento di giustizia contro i soprusi messi in atto nelle campagne e nei piccoli centri cittadini.
Sono anni in cui molti capibastone cercano di accreditarsi come eredi dei «briganti buoni», uomini d’ordine cui la gente si rivolge per consigli e soluzioni, pur consapevoli di essere sempre stati dalla parte di chi comanda e di chi decide. Già nel 1869 la ’ndrangheta viene coinvolta nello scontro tra le più potenti famiglie di Reggio Calabria, che con la forza si contendono il voto. Gli uomini di Francesco De Stefano finiscono in carcere per aver minacciato e ferito politici e grandi elettori, in un clima che costringe il ministro dell’Interno ad annullare le consultazioni amministrative, fortemente condizionate da brogli e aggressioni.
Criminali per costituzione e tendenza, i boss della ’ndrangheta, almeno quelli della vecchia guardia, sanno tuttavia essere cauti. Fra gli anni Sessanta e Settanta, in una lettera inviata dal carcere a Bruno Equisone, il boss di Sambatello Mico Tripodo scrive: «Vi raccomando di stare attento, poiché il mondo è tutto infame. ... Se vi occorre della gioventù createvela voi stesso, sempre persone conoscenti vostri». Anche i lunghi memoriali inviati al giudice istruttore da Giuseppe Avignone sono pieni di risentimento nei confronti di un concerto sociale affollato di traditori, spie e aguzzini. L’insulto più grande è quello di «sbirrone», più sbirro degli sbirri, un’infamia che resta appiccicata alla pelle come un marchio.
In quegli anni, è il rasoio a spartire torti e diritti, in un linguaggio non verbale più «sul» corpo che «del» corpo. Lo sfregio serve a marcare d’infamia la persona segnata esponendola al pubblico disprezzo. Lo scrittore Fortunato Seminara così lo descrive: «Lo sfregiatore deve provare un piacere sadico a deturpare la faccia del nemico odiato, come torturarlo per tutta la vita, sapendo che quel segno è un marchio che non si cancella, né si può nascondere ed è visto da tutti».4
Negli anni Settanta, in coincidenza con la prima guerra di ’ndrangheta, e quindi con una serie di avvicendamenti al vertice dei vari «locali», i boss – lo si è detto – cambiano costumi e abitudini. Sentono il profumo dei soldi. Molti capibastone escono allo scoperto, diventano imprenditori.
Gli ’ndranghetisti non hanno più l’antica diffidenza per la carta stampata, i giornalisti e i mezzi di comunicazione. Comprendono l’importanza della pubblicità, al punto da finanziare alcune radio private nella piana di Gioia Tauro e nella provincia di Reggio Calabria. Nel 2006, nelle campagne di Rosarno, nel covo-bunker dove viene arrestato Gregorio Bellocco la polizia trova inni e poesie che esaltano la genialità del boss. Da sempre l’omertà, la vendetta, l’esasperato senso dell’onore, le minacce agli «sbirri» e ai collaboratori di giustizia, gli sfregi ai vivi e ai morti compongono il triste repertorio dei cosiddetti canti di malavita, il calabrian gangsta, un vero e proprio ramo d’impresa per chi si affanna a promuovere i valori falsi e criminali della ’ndrangheta.
Lo stile di vita cambia, inizia a essere dominato dai simboli del potere e di una ricchezza sempre più esibita, fatta di alberghi, ristoranti, automobili di lusso. Tra il 1973-74 cominciano a diffondersi fra i più importanti imprenditori mafiosi guardie del corpo e auto blindate. Molti giovani rampanti frequentano il bel mondo milanese, locali come il Tocqueville, il Santa Tecla, il Caffè Dalì, ma anche i luoghi simbolo della «dolce vita» romana. A Roma, Saverio «Saro» Mammoliti nel 1973 guida una Lamborghini color salmone e quando, qualche mese dopo, deve sottoporsi a un intervento di rinosettoplastica, lo accompagnano alla clinica Villa Mafalda su una Porsche rossa.
In Calabria, gli ex pastori, i bovari, i contadini si fanno imprenditori, dimostrando una forte vocazione per l’edilizia, il movimento terra, la rivendita di materiale da costruzione, il trasporto leggero e pesante. Altri, invece, si dedicano alla macellazione, alla distribuzione di generi alimentari, alla pesca, alla lavorazione del marmo.
C’è anche chi scopre i primi business internazionali. Nel settembre 1977 Sebastiano Mesiti viene arrestato a Roma in un elegante appartamento di via Cavour, dove aveva impiantato un ufficio fittizio di import-export per trattare affari con i paesi arabi. Nello stesso anno viene assassinato Giorgio De Stefano, uno dei boss vincenti della prima guerra di ’ndrangheta. Nel suo borsello gli investigatori trovano le indicazioni per un piano di investimenti immobiliari e industriali di tali proporzioni da triplicare, se fosse stato realizzato, il già notevole giro d’affari del cartello dei De Stefano.
Oggi sono tanti quelli che sanno trarre vantaggi dalla globalizzazione dei mercati e dall’evanescenza del denaro, per investire con maggiore facilità i proventi del narcotraffico. In un paese cresciuto nei consumi ma fermo nello sviluppo, paralizzato da un reticolo di clientele e di malaffare, molti di loro usano con spigliatezza Skype e Blackberry. Un rampollo del clan Piromalli a Milano intrattiene rapporti quotidiani con New York e si esprime in inglese e francese con sicurezza; un boss della famiglia Nicoscia-Manfredi viene arrestato grazie alle sue «frequentazioni» su Internet, dove si fa chiamare «Scarface», come il trafficante di cocaina interpretato da Al Pacino. In Canada, un calabrese legato alla famiglia Rizzuto finisce in carcere con l’accusa di co...