Dio, patria e famiglia
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Dio, patria e famiglia

Dopo il declino

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  1. 160 pagine
  2. Italian
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Dio, patria e famiglia

Dopo il declino

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Dio, patria e famiglia sono tramontati. Un declino graduale, lungo la modernità, accelerato nel Novecento, esploso nei nostri anni. Sono stati il fondamento ideale e morale, storico e pratico della vita umana e di ogni civiltà. Il crollo di un muro, due torri e tre principi è alle origini della nostra epoca. Con il muro di Berlino cadde il comunismo, sorse l'Europa e dilagò la globalizzazione. Con le due Torri gemelle cadde la supremazia inviolata degli Stati Uniti e riemerse la storia dal fanatismo. Ma col declino di religione, patria e famiglia si spegne la civiltà e si ridisegna radicalmente la condizione umana.
Di tale crisi di solito non ci diamo pensiero, ma ne scontiamo gli effetti ogni giorno. Ereditiamo il vuoto e la perdita di questi tre cardini con la stessa naturale passività con cui i nostri padri ereditarono la fede e la loro osservanza. In queste pagine Marcello Veneziani non esorta a barricarsi tra le rovine, fingendo che nulla sia accaduto, non coltiva illusioni. Ma cerca di capire i motivi della loro caduta, ne osserva l'assenza nel mondo presente, riflette su cosa ci siamo persi e cosa abbiamo guadagnato, cosa c'è al loro posto e da cosa oggi si può ripartire per rifondare la vita. Un viaggio che si dipana tra filosofia ed esperienza individuale, pensieri dell'anima e sguardi sul nostro tempo. L'incontro con Dio, patria e famiglia avviene seguendo un percorso originario e originale.
"Vorrei parlarvi di Dio, patria e famiglia non attraverso i luoghi comuni, quelli più antichi di chi li elogia e quelli più recenti di chi li disprezza. Non voglio tesserne l'elogio funebre o il necrologio onesto. Io vorrei capire quale molla spinse ad aggrapparsi così a lungo a quei tre cardini, come fu intenso e corposo il loro amalgama uno e trino, quale molla ha poi spinto ad affossarli, e cosa resta ora, oltre il rimpianto e la maledizione della loro ombra. E intravedere cosa può sorgere oltre la loro presenza e il loro declino."

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852028878
Categoria
Religion

Epilogo

E ora, per ricominciare

Alba, tra poco suona
E ora da cosa ripartiamo, quali motivi e moventi per rifondare la vita? Proviamo a pensare la vita senza accennare alle tre ancore di salvezza e di approdo che il sentire comune del passato ha abbracciato. Proviamo a considerare perduti ormai Dio, patria e famiglia, innominabili persino, almeno come sono stati finora intesi e configurati; proviamo a cercare punti di riferimento su cui imbastire una trama di vita legata al pensiero. Lo scopo è orientare la vita e rendere il vivere sensato. Cioè darle una direzione e un destino. La filosofia non ci aiuta, è chiusa in se stessa a fare gli inventari di magazzino, è introflessa e riscrive continuamente il suo necrologio, ritenendo che si possa fare filosofia sulla sua stessa scomparsa. Il filosofo ha perduto alibi o fondamenti su cui poggiare, si perde nella grammatica dei suoi pensieri, scompone e disarticola il pensare, cercando l’analisi e trovando il balbettio.
Se in principio era il Verbo, alla fine si perde anche la parola. Eppure la filosofia ci ha educati a pensare e non saremo così ingrati e iconoclasti, ma anche così presuntuosi, da ritenere che si possa rifondare la vita prescindendo dalla filosofia. Ma la sua morte presunta, autocertificata per giunta, induce a ripartire dal pensiero in rapporto alla vita. Per questo il punto di origine del ripensamento non può essere un autore, una teoria, una scuola di pensiero, ma una visione del mondo, una Weltanschauung nel linguaggio pensante che le conferì dignità. Ripartiamo dalla visione del mondo che è visione della vita in relazione all’essere e allo svanire.
Terapia d’urto in forma di delirio, partiamo da una visione del mondo apocalittica. Sembra giunto il momento che il mondo finisca. Gli dei sono esausti, gli uomini sono troppi, l’etere è sovraccarico di onde fatue ed è vuoto di presenze spirituali, la terra è ormai stressata dagli abusi. I morti sono morti definitivamente nel ricordo dei vivi, e i vivi sono spenti, tenuti in vita artificialmente. È maturo per concludersi il nostro mondo, al di là delle superstiziose profezie che l’annunciano. Dico il mondo degli umani, ignoro gli altri mondi.
Psicologicamente l’umanità è davvero al capolinea: quella più ricca è in decadenza da troppo tempo per trascinarsi nel futuro, e quella più povera è troppo gremita per non scoppiare. Le risorse planetarie sono estenuate. I limiti dello sviluppo, della capienza e della pazienza sono ormai superati. Pur dissimulata, serpeggia l’attesa del botto finale; non aspettiamo ormai nulla di nuovo, di diverso, di sorgivo da nessuna parte.
Tutto ci appare già detto, fatto e consumato, soprattutto a noi, in Europa. Non è terrorismo apocalittico, si può aspettare la fine del mondo con moderato ottimismo, senza patemi. In fondo si tratta solo di anticipare una scadenza certa che avevamo tutti sin dalla nascita; l’unica differenza è che in quel caso non ci saranno scaglionamenti e la cosa, in fondo, non dispiace. Morte in contemporanea, senza eredi piangenti. Non so se ad altra umanità toccò la stessa sorte e se si diffuse anche allora un desiderio di estinzione. Ma il mondo è stanco, almeno il nostro, in preda a un’evacuazione esistenziale, uno spegnersi di energie e di vitalità, nell’emorragia del tempo; un’indolenza cosmica lo pervade e lo induce a svanire. Che non si protragga l’agonia e il fato proceda alacremente. Del resto, a cosa si aggrappa oggi la nostra vita se non solo a se stessa? Ma così non regge, s’avvita e poi precipita.
Il punto di svolta decisivo, essenziale, per salutare la nostra epoca e la nostra condizione è voltare le spalle all’ultimo Dio, ultima patria e ultima famiglia: l’Io. Non c’è altra soluzione, altra prospettiva, altro rimedio. A lui sacrificammo Dio e il mondo, patria e famiglia. Lasciar morire l’Io, ogni Io, rendersi disponibili all’Essere. Sciogliersi nell’Essere, annientarsi nell’Essere, sapendo che si tratta in realtà di un riempirsi e un ramificarsi. Non un perdersi ma un ritrovarsi.
Dopo il punto estremo dell’Occidente, sorge l’Oriente; l’ombra dell’Io si annulla nella luce dell’Essere. Dio, patria e famiglia ne furono gli annunci, i gradi per sciogliere l’Io negli stati superiori di sé o quantomeno gli argini per resistere alla tirannia dell’ego. Ora non resta che liberarsi dall’Individuo singolo assoluto e confluire nell’Essere. Se la Tradizione è trasmissione, l’ultima consegna è quella, la Tradizione confluisce consegnandosi all’Essere. Come sarà poi la vita, e il mondo, i rapporti umani, dopo quella consegna, nessuno è in grado di dirlo o saperlo. Ma la paura di vivere e di morire cessano risolvendosi nell’Essere, mutando punto di vista, cioè passando dall’esistenza singola e precaria di foglie alla persistenza dell’albero. Civiltà dell’Essere, siamo sue postazioni, suoi occhi, sue mani, sue menti, sue particelle. È l’unico cammino oltre il divino, il patrio e il famigliare che resta possibile. Il contrario è il Nulla.
Rispetto al presente Dio, patria e famiglia ci appaiono come varchi per superare la solitudine narcisistica dell’Io. Tre finestre affacciate sulla casa, sulla strada e sul mondo per liberarsi dall’egocentrismo, che vive, si nutre e muore di sé. Ma anche tre ragioni per trascendere la propria vita, fino a metterla in gioco in casi estremi. Dio, patria e famiglia sono stati la base dei doveri; in loro assenza sono rimasti i diritti.
Il bisogno dei nostri anni è uscire dalla gabbia senza grate dell’Io e fondare il culto dell’impersonalità. Cosa potrà degnamente sostituire quella triplice proiezione fuori e sopra di sé, senza annegare nel dominio dei mezzi e delle cose? Ecco un buon punto di partenza per una visione non chiusa nell’individualismo e nel feticismo del singolo, misura di tutte le cose. Riscoprire la virtù dell’impersonalità non vuol dire spersonalizzarsi, cioè regredire al di sotto della persona; ma dopo aver acquisito il ruolo e il senso della persona, accorgersi che non basta e che bisogna conquistare una visione impersonale della vita, del mondo e delle cose. Tornare nei ranghi, le mani nelle mani di chi è accanto, anello tra gli anelli, assumere doveri e non solo diritti, scoprire la prospettiva olistica del mondo e guardare le cose dal punto di vista dell’essere e non degli esseri isolati. Questa è la visione impersonale della vita, ripensando con gratitudine ai tre nessi che per primi ci elevarono oltre la assoluta solitudine dell’Io. Specchiarsi nella vita per cercare l’essere intransitabile e non il transitorio riflesso di sé. Far combaciare l’esistere con l’essere.
Conosco l’obiezione: si comincia col negare la sovranità dell’Io e si finisce col negare i diritti individuali, quindi la libertà e la persona, e infine il valore della vita umana. I rischi di una degenerazione dispotica o totalitaria non si possono escludere, ma non sono certo superiori agli stessi rischi insiti in una società che ha perso il senso del limite e del dovere, e non conosce confini all’espansione dell’ego. Da opposte premesse si può arrivare a simili risultati. È risaputo, del resto, l’intreccio tra anarchia e dispotismo. La tirannide è l’apoteosi dell’individuo titanico, è l’egemonia dell’egocentrismo che si concentra in un soggetto dominante, ma l’orizzonte è condiviso. In ambo i casi parliamo di rischi e deviazioni, non di esiti obbligati.
E la questione si sposta, riproponendosi intatta, sul piano etico e morale. Si può fondare l’etica o la morale senza uscire dall’Io? Si può affidare l’etica o la morale al punto d’incontro tra la coscienza e la norma? Basta per la morale come per l’etica, la progressione Io, legge, umanità? La teoria e l’esperienza ci dicono di no. Da qui la necessità di riaprire il discorso a monte e a valle, a ciò che precede e a ciò che segue il soggetto, al suo ethos pubblico e alla sua condotta interiore.
Nel cuore di una vita riempita dall’Io, si ravvisano i segni di collasso dell’Io medesimo. La stanchezza di vivere perduti tra le cose e le immagini, il disperdersi nel globale, sepolti da masse, numeri e codici; lo spegnersi della vitalità quando la vita è facile, opulenta o priva di problemi primari; l’incapacità di resistere, reagire e perseverare, laddove tutto è labile e fragile; la frustrazione di non poter raggiungere i modelli pubblici di eccellenza, di prestanza e avvenenza. L’Io esala nei suoi desideri, diventa solo un punto provvisorio in cui si condensano brevi visioni, voleri e relazioni, tutte volatili. E poi il vuoto che si è fatto intorno a sé, per proteggere se stessi e non dedicarsi ad altro fuori di sé, alla fine si ritorce contro e si propaga dentro l’Io. E l’Io non basta, non resta, non colma la vita di sé.
Del resto, la perdita di ogni speranza di immortalità dopo la vita e la sfiducia nella resurrezione inducono a considerare la morte come il disperdersi dell’Io nel cosmo. Quel che rappresenta meglio questa percezione dello sbriciolarsi dell’Io vivente è in un desiderio diffuso espresso per il post mortem: la richiesta crescente di cremazione e il disperdersi delle ceneri. Una metafora del vivere come consumare, o forse un coronamento: l’Io disperde le sue ceneri nel mondo. Alla resurrezione della carne stentano ormai a credere in tanti, credenti inclusi, anche se non lo esplicitano. Se c’è una promessa della fede che oggi appare impossibile è l’annuncio pasquale: la resurrezione dei morti nei loro corpi. Riusciamo ad accoglierlo come una metafora per la rinascita spirituale, un simbolo e un auspicio per l’anima che si eterna; ma non riusciamo più a concepirlo come una concreta promessa, seppure rimandata al giorno del Giudizio. Non a caso cresce anche tra i credenti il proposito di farsi cremare. La Chiesa ne ha preso atto, mutando atteggiamento, accogliendo la richiesta, ma rifiutandosi poi di accettare la seconda parte dell’intento: la dispersione delle ceneri. Non l’accetta perché vuol salvaguardare l’unità della persona, seppur in cenere, che costituisce la premessa alla resurrezione dei corpi. Ma dopo tanto abuso di Io in vita, siamo come stanchi del nostro soggetto e rassegnati a perderlo post mortem. Si fa strada l’idea che l’Io non sopravviva ma si annulli, tornando al grembo originario da cui prese corpo e vita.
Dopo la morte ci ricongiungeremo al mondo, ci scioglieremo nel Nulla o nell’Essere, o nel Tutto, che per i materialisti è il mondo naturale e per gli spiritualisti è una sorta di energia o Anima mundi. Nel desiderio di spargere le ceneri c’è anche la ripugnanza di finire reclusi in una cassa, sottoterra. Meglio disperdersi nell’aria o nell’acqua che decomporsi. A Pasqua si festeggia un glorioso equivoco tra risorgere nello spirito e resuscitare nel corpo. Celebrando la Resurrezione del Corpo di Cristo, tendiamo a escludere la nostra. Lasciateci sciogliere nel cosmo, e torni alla Luce il frammento di luce che è in noi. Liberazione dall’Io assoluto.
Provo a dire come si vive nei presenti luoghi dell’oblio dove non c’è Dio né patria né famiglia, e nemmeno degni sostituti. Provo a dire cos’è il nichilismo non con il linguaggio della filosofia ma della vita quotidiana. Verità in tempo reale.
Noi qui, rifugiati nelle case del benessere, al riparo del temporale. Fuori lampeggia il turbamento, tuona la crisi, grandina miseria. E noi qui ci nascondiamo nell’età avanzata, nostra o della civiltà, negli agi e pure nei disagi, simulando di vivere in un mondo concluso, come un orto concluso, nello spazio protetto e dimenticato della nostra benestante nullità, con vista mobile sul mondo. Mille conforti intorno a uno sconforto, il guscio di una vita assicurata e poi sordi rumori sullo sfondo, l’ombrello dell’Io ci ripara e ci separa; ma non possiamo caricarci noi soli del mondo e del tempo, del non essere immortali né martiri di cause perse in partenza, non vi dico poi all’arrivo. Noi ci defiliamo, viviamo i nostri spiccioli di vita, alla spicciolata, approfittando del marasma globale e della disattenzione generale. I giorni corrono e si sommano, difficile è distinguerli al passaggio, tanto sono simili e rapidi. Gira il tassametro del tempo, noi fuggitivi sempre più poveri di giorni. Come corrono le stagioni, come precipita la vita. Emorragia dei giorni, assenza di pensieri emostatici. Blenorragia dei sogni, tardano i risvegli, si passa da un sonno all’altro senza mai destarsi. Sperando di non morire, visto che non si vive. Si funziona. Dicesi nichilismo tutto ciò.
Il pensiero è come acqua che scorre, versata nel fiume del tempo, come lo figurarono i primi pensatori fino a Eraclito, alla ricerca di quel che resta nel fluire del tempo e dello spazio. C’è una pittura che visualizza questa concezione del mondo, della vita e del pensiero. Un’opera che compendia allo sguardo il triangolo di mente, esperienza e realtà. Pur esprimendo appieno la realtà, si tratta di un’opera surreale. E, pur riflettendo la mente e la vita umana, non ritrae figure umane, anzi è un paesaggio disabitato di presenze, salvo tracce allusive di opere umane. È Il ponte di Eraclito, un’opera di René Magritte del 1935 e condensa pensiero, vita e mondo in una visione.
C’è un ponte rotto o interrotto a metà che si riflette nel fiume per intero. Il fiume va a perdersi in un cielo di nuvole. È un simbolo perfetto perché è composto da due tessere, una visibile e una invisibile. Il Ponte di Magritte è un vero trattato in sintesi visiva sulla realtà e l’illusione, sull’essere e il divenire, sul visibile e l’invisibile, sulla fisica e la metafisica. La verità è nel fiume che riflette il ponte intero o nel ponte tronco che ci appare nella realtà? Il ponte intero è la verità oltre le apparenze, è l’immaginazione oltre la realtà o è la memoria del passato perduto, l’integrità di quel tempo? Il ponte interrotto che si riflette intero nell’acqua sta come la realtà all’illusione o come la realtà alla verità? E la realtà è l’apparenza o anche la sostanza del vero? L’acqua che scorre allude al dimenticare, ma in anni recenti si è scoperta la memoria dell’acqua, ipotesi scientifica controversa e suggestiva avanzata da Jacques Benveniste e ripresa da Luc Montagnier. Quel ponte ne sembra la profezia: l’acqua serba il ricordo di quel che nel tempo si è infranto. Ma potrebbe anche trattarsi di un ponte incompiuto, lasciato a metà, di cui l’acqua presagisce la sua compiutezza, come riflettendo un rapporto tra la potenza e l’atto. Il riflesso intero del ponte troncato può essere dunque memoria o presagio, illusione o allusione, evoca il passato o annuncia l’avvenire.
La vita, come la verità, è un gioco tra l’essere e il fluire, tra quel che appare e quel che scompare, ma anche tra il ricordo e la percezione. L’uomo abita inevitabilmente due mondi, due regni. E il ponte di Magritte, spezzato nella realtà solida e intero nella rappresentazione fluente, è la più suggestiva immagine del rapporto tra fisica e metafisica; quest’ultima è l’altra metà invisibile della realtà, che ne dà compiutezza, come l’anima rispetto al corpo. L’immagine d’insieme è quel che Aristotele definiva «sinolo», sintesi di forma e materia. L’Artista è attirato dal ponte intero riflesso nello specchio d’acqua dove l’immagine supera la realtà; il Poeta canta la nostalgia della metà invisibile nel mito dell’integrità perduta o inattingibile; il Filosofo cerca la relazione tra la visione fluviale e la realtà del ponte cercando una ragione all’essere e allo svanire. L’amore del sacro e dell’origine sono in quel riflesso che si specchia nelle acque ma è assente nella realtà. Per il metafisico l’essenza è il ponte l’intero, l’esistenza è la sua metà visibile.
La grande umanità e la forza didattica del cattolicesimo furono la figurazione del sacro, la rappresentazione visiva e umana di Dio, di Gesù bambino e poi in croce, della Madonna, dei Santi, e perfino del Diavolo. L’icona rese viva la fede nell’invisibile e fu la vera base della civiltà cristiana, della carità e dell’umanità, perché se vedi nel luogo sacro le immagini e i volti di bambini, di donne, di mendicanti, di morenti e di assurti in cielo, sei indotto per analogia ad amare le persone dai loro volti, nella loro umanità. Allo stesso modo, la filosofia dovrebbe accompagnarsi a una iconografia, farsi immagine, specchio, figurazione e allusione, per trasformare i concetti in mondo, i pensieri in vita, la realtà in rappresentazione. Magritte è tra i pochi pittori in grado di visualizzare concetti filosofici e metafisici nell’era postcristiana, come Dalí o de Chirico, ed esprimere la tensione tra verità, realtà e illusione: come Raffaello, Michelangelo e Caravaggio dettero carne, colore e vita al sacro, al santo e all’invisibile.
Il ponte di Eraclito descrive il nostro presente, la parte visibile da cui partiamo, che si affaccia nel vuoto e si proietta verso la parte ancora da compiersi. Il senso traspare, riflesso o pre-visto, nel corso fatale dell’acqua.
Per la traversata nel deserto della vita, una volta abbandonata la città natale, disponiamo in partenza solo della nostra intelligenza, nutrita dall’esperienza della vita. Ma in quell’esperienza gioca tutta la storia dell’umana avventura sintetizzata dentro la vita di un uomo: ciò che ha visto, ha saputo, ha sentito, ha amato, ha temuto. Tutto quel che gli è stato trasmesso, ha capito, ha appreso. Ogni tabula rasa è un’ipocrisia: non partiamo mai da zero, ripartiamo sempre da qualcuno e da qualcosa che ci costituisce, a partire dal linguaggio stesso. Non c’è nascita che non sia preceduta da inseminazione, da incontro, da trasmissione e connessione. Non c’è giorno che non attinga ad altri giorni, anche attraverso ciò che li nega, la notte. In fondo, nonostante le mille declamazioni, non conosciamo l’esperienza compiuta del Nulla, non c’è mai il niente assoluto dentro e dietro nessuno. Possiamo solo ripartire dalla notte per inventare la nostra giornata. Avventuriamoci nel rischioso cammino di una morale sorgiva e un pensiero aurorale, per una fondazione ontologica dell’etica.
Il nucleo di regole mosaiche su cui si è fondata la nostra civiltà mostra l’affanno dei principi rispetto alla varietà dei mondi e alla variabilità dei tempi. Emerge lo scompenso tra un’epoca mutante e una tavola di norme pietrificate, non per modo di dire. Prima di ripensare al Decalogo in versione odierna, forzando il mare a entrare in una tazza di tè – come scrisse Ezra Pound – proviamo a recensire i comandamenti biblici con alcune riflessioni elementari.
La civiltà giudaico-occidentale derivata dalle tavole di Mosè si fonda innanzitutto su divieti più che su prescrizioni – solo due comandamenti su dieci sono prescrittivi, tutti gli altri sono dissuasivi, partono da un «non» – e dunque riconoscono limiti invalicabili e il sacro rispetto delle leggi divine. Non rivelano la Verità ma indicano l’Osservanza. Dio e non l’uomo è misura di tutte le cose e, dunque, preambolo implicito dei comandamenti è il senso della misura; non oltrepassare il limite, riconoscere l’abissale distanza tra il Creatore e le creature. E tuttavia con la prevalenza quasi assoluta dei divieti, il Decalogo biblico somiglia più a un codice che al fondamento di una fede religiosa, con le sue credenze, i suoi precetti, le sue missioni e i suoi compiti. Il Decalogo sancisce una religione negativa, affermata per negazione. I comandamenti ci prescrivono come evitare il male, non ci indicano come praticare il bene. A meno che consideriamo il bene solo come un astenersi dal male.
In secondo luogo la civiltà mosaica si fonda sul comando impersonale della Legge e così ripudia gli imperativi dettati dalla decisione di un sovrano o dalla volontà umana e modulati secondo situazione; ha regole scritte, non negoziabili né modificabili, incise su pietra e promanate dall’alto, disposizioni ripetitive, non derivate dalle tre fonti ordinarie su cui si fondano le deliberazioni: la competenza dei capi o dei sapienti, la maggioranza del popolo o dei votanti, l’esperienza della vita o della storia. Ovvero le élite dirigenti, il popolo e la tradizione. Il fondamento è nelle tavole: non è necessario vivere ma osservare la Legge. Il Decalogo di Mosè è il paradigma trascendente di ogni Carta costituzionale.
I cardini di questa normativa celeste si imperniano sull’osservanza religiosa (I-II-III comandamento), sulla tutela della famiglia e della monogamia (IV-IX), sul divieto di macchiarsi di assassinio (V), sulla cond...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dio, patria e famiglia
  3. Dello stesso autore
  4. Prologo - C’era una volta Dio, patria e famiglia
  5. I. Al posto di Dio
  6. II. Al posto della patria
  7. III. Al posto della famiglia
  8. Epilogo - E ora, per ricominciare
  9. Copyright