Berlino, mercoledì 25 aprile 1945
Poco prima di mezzogiorno, Eva aveva dovuto interrompere la passeggiata abituale lungo il viale del Tiergarten perché i proiettili dell’artiglieria sovietica esplodevano troppo vicino ed era pericoloso rimanere allo scoperto. Rientrata nel bunker (era l’ultima volta che avrebbe visto la luce del sole), le dissero che una sesta donna, oltre lei, le due segretarie, la cuoca e la domestica, era venuta a vivere con loro. Era Magda Goebbels, bionda, vivace, fasciata in un abito di seta che le modellava le forme, che Hitler aveva invitato col marito e i loro sei figli nel suo bunker personale. Si erano installati nella camera lasciata vacante dal dottor Morell.
Eva aveva accolto Magda a braccia aperte, come una sorella, e si era orgogliosamente compiaciuta con lei quando le aveva annunciato la sua decisione di rimanere fedele al Führer fino alla morte.
Il bunker di Hitler era a forma di rettangolo diviso da un corridoio centrale che serviva da anticamera. A destra c’era la «stanza delle carte», dove si tenevano le riunioni militari, e solo attraversandola si poteva accedere alla camera da letto di Hitler e quindi al suo studio, superato il quale si raggiungeva il bagno che comunicava con un salottino collegato alla camera di Eva, bene ammobiliata e ricca di drappeggi, ma priva di porte e di finestre. Cosicché Eva, per andare a coricarsi, doveva attraversare tutte le altre stanze.
Sull’altro lato del corridoio c’erano la camera dei Goebbels, quella di Bormann, quella del dottor Ludwig Stumpfegger, che aveva sostituito Morell, l’infermeria, il centralino telefonico, una stazione radio a onde corte e i dispositivi per la ventilazione e l’afflusso dell’acqua.
Al piano superiore si trovavano gli uffici dello stato maggiore di Hitler che nel frattempo si era pietosamente assottigliato. Erano rimasti il capo della Gestapo e alcuni generali, fra i quali Hermann Fegelein, il cognato di Eva, che non aveva mai lasciato Berlino. Fegelein era soprannominato «l’occhio di Himmler» per la sua contiguità col comandante supremo delle SS. Naturalmente, non mancavano collaboratori, domestici, inservienti e le solite SS che circolavano nei corridoi carichi di mitra e di bombe a mano.
Verso sera (benché nel bunker non ci fosse né mattino né sera) la radio annunciò che alcune bombe erano cadute anche sul Berghof e che gli abitanti, affamati, avevano saccheggiato la casa del Führer. Anche la bella villa di Göring era stata colpita e, ascoltando questa notizia, Goebbels aveva applaudito e riso di gusto: ah, se quel grassone del suo rivale fosse stato anche lui polverizzato... Pochi giorni prima, il vanesio Primo maresciallo del Reich si era rifugiato in Baviera e aveva osato proporsi come successore del Führer. Hitler, interpretando tale annuncio come un tradimento, aveva ordinato alle SS di arrestarlo. Anche Eva, benché addolorata per il suo Berghof, non aveva potuto reprimere la soddisfazione nell’apprendere quella notizia: finalmente la superba Emmy aveva ricevuto la punizione che si meritava.
Hitler, invece, era rimasto indifferente. D’altronde, era sempre più assente e alternava momenti di fanatica certezza ad altri di totale disfattismo. Passava il suo tempo a scrutare le carte e a immaginare impossibili contrattacchi. Eva, scherzando, diceva che gli sarebbe bastata la pianta del quartiere per studiare il fronte.
Milano, mercoledì 25 aprile 1945
Questa data sarà scelta in seguito per commemorare l’insurrezione nazionale ma, per la verità, a Milano di insurrezione non c’era neppure l’ombra. La città era calma, i tram circolavano, all’Odeon era in programma la replica preserale di Christian, con Renzo Ricci, Eva Magni e Vittorio Gassman. Al teatro Ars la compagnia Dapporto-De Rege presentava la rivista Ba-bi-bo. Dall’ultima ruota del Lotto ancora in funzione, quella di Torino, era stata estratta la cinquina vincente: 40 20 66 31 62.
Grande confusione c’era invece nel cortile della prefettura di corso Monforte. Uomini armati o disarmati si agitavano attorno ai veicoli caricando zaini e valigie. Curiosamente, si notavano pochissime uniformi e molti «doppiopetto». La grisaglia aveva avuto finalmente la meglio sull’orbace e la camicia nera.
Alle 19 Mussolini era rientrato, scuro in volto, dall’arcivescovado borbottando: «Precampo a Como! Precampo a Como!». Ma che significava «precampo»? Forse il Duce aveva scelto come «ultimo campo» quello della Valtellina, tanto agognato da Pavolini? Chissà. Pavolini comunque ne era convinto e aveva assicurato a Mussolini che cinquemila militi delle sue brigate nere si stavano già concentrando a Como per seguirlo verso l’ultimo campo. A smorzare il suo fervore ci aveva provato Graziani: «Ma lo volete capire che tutto va in rovina?» aveva detto stizzito.
«Siamo dunque a un nuovo otto settembre?» aveva commentato Mussolini.
«Assai peggio, Duce» aveva sentenziato il vecchio maresciallo.
Mussolini non aveva alcuna intenzione di sacrificarsi nel rogo finale sognato da Pavolini. Aveva scelto Como forse perché, essendo più vicino alla Svizzera, sperava di poter in qualche modo sconfinare pur sapendo che il governo elvetico non l’avrebbe accolto. Oppure perché intendeva dare ascolto all’ostinato Birzer, sempre deciso a condurlo nel Reich attraverso l’Alto Adige. Pochi giorni prima aveva ordinato a Rachele di lasciare Gargnano e di raggiungere Como. E in direzione di Como si mosse, a tarda sera, anche lui con tutto il suo residuo seguito.
E Claretta? Dopo la partenza dei genitori e della sorella, la giovane donna si era riunita con la famiglia del fratello Marcello. Aveva ancora a disposizione la macchina guidata dal fedele Gasperini e, appena avuta notizia della partenza di Mussolini da corso Monforte, si era unita alla colonna che si era messa in movimento quella stessa notte. Si trattava complessivamente di 178 automezzi con a bordo 4636 fascisti e 345 ausiliarie. Mussolini viaggiava sull’Alfa Romeo guidata dal suo autista personale Pietro Carradori. Curiosamente, aveva voluto accanto a sé soltanto Nicola Bombacci, un suo vecchio amico di gioventù quando ancora militavano entrambi nel partito socialista.
L’episodio è degno di nota: Bombacci, amico personale di Lenin, era stato uno dei fondatori del PCI nel 1921, ma in seguito era stato radiato dal partito e, superate molte traversie, dopo l’8 settembre si era presentato inaspettatamente a Salò sognando irrealisticamente di realizzare il socialismo col suo antico compagno. Infatti, era stato lui a dettare con l’amico ritrovato i famosi «18 punti di Verona», ossia la costituzione della Repubblica Sociale. Ed era stato ancora lui, d’accordo con Mussolini, a scegliere l’aggettivo «sociale» e non «fascista», come avrebbero preferito i gerarchi.
Lungo la strada per Como non si registrarono incidenti, salvo un mitragliamento aereo che fece saltare un camion carico di fusti di benzina. I partigiani invece non si fecero vivi. Arrivati a Como, Mussolini fu ospitato nella prefettura; Claretta, Marcello, la sua compagna Zita Ritossa e i loro due bambini, Ferdinando e Benvenuto, avevano trovato alloggio poco lontano nell’albergo Firenze.
Berlino, giovedì 26 aprile 1945
Nel bunker della Cancelleria gli occupanti si erano così abituati a vivere isolati dal mondo che l’arrivo di estranei sembrava loro uno sbarco di marziani. L’ultima a visitare il bunker fu Hanna Reitsch, giunta in mattinata dopo uno spericolato atterraggio. Hanna, che aveva trentatré anni e il grado di capitano della Luftwaffe, era un asso dell’aeronautica. Era stata lei a pilotare il primo aereo a reazione realizzato in Germania e aveva persino volato su un velivolo che portava una V-1. «Era come cavalcare un missile» ci dirà molto tempo dopo quando la incontrammo in Africa, dove istruiva giovani piloti.
Hanna aveva condotto a Berlino il generale von Greim, che Hitler aveva convocato per nominarlo successore di Göring al comando della Luftwaffe. Il viaggio era stato rischioso e ancor più l’atterraggio, contrastato com’era dalla contraerea e persino dalla fucileria sovietica. Ma con una manovra quasi impossibile, Hanna era comunque riuscita ad atterrare col suo piccolo Fieseler Storch fra gli alberi di via Charlottenburg, davanti alla Cancelleria.
Era intenzione di Hanna condurre il Führer in salvo con quel piccolo aereo, ma Hitler, dopo aver ascoltato e ringraziato l’impavida aviatrice, aveva respinto l’invito. Hanna ripartirà da sola il giorno dopo e sarà l’ultima a lasciare il bunker.
In tutta quella confusione, nessuno aveva notato l’assenza dell’«occhio di Himmler», ossia del generale Fegelein. Il cognato di Eva non tornava simpatico al Führer, forse per la sua nomea di seduttore incallito: persino nel bunker dava la caccia a tutte le sottane. Ma anche perché lo infastidiva il suo comportamento troppo confidenziale con la cognata. Il giorno del suo ultimo compleanno, per esempio, quando in sua assenza Eva aveva organizzato la festicciola nella Cancelleria, Fegelein aveva ballato sempre con lei. Certo, era pur vero che Eva amava il ballo e che non perdeva occasione anche in questi frangenti di organizzare improvvisate festicciole danzanti, tuttavia anche al Berghof, erano corse delle chiacchiere sul loro conto…
D’altra parte, Eva era giovane e bella e, come per Claretta, «il sangue reclamava i suoi diritti». Ma Hitler non era reattivo come Mussolini. Il dottor Morell rivelerà, durante un interrogatorio, che Eva Braun l’aveva spesso incalzato affinché facesse qualcosa per stimolare il desiderio di Hitler, la cui libido, negli ultimi tempi, si era molto abbassata.
Quella sera, mentre Eva, con Magda e Hitler, stava ascoltando Goebbels che proponeva di nascondere le donne e i bambini nell’ambasciata italiana, che si trovava poco lontana nella Tiergartenstraße, un centralinista venne a chiamarla perché desiderata al telefono. Lei corse a rispondere, era suo cognato: «Eva, sono in salvo qui a Berlino. Ascoltami: devi lasciare subito il bunker o fra qualche ora sarà troppo tardi per fuggire. Non essere sciocca: è questione di vita o di morte. Ti aspetto». Eva ne fu inorridita: «Hermann, torna immediatamente nel bunker,» gli ordinò «altrimenti il Führer penserà che l’hai tradito. Torna subito…». Ma Fegelein aveva riappeso.
Eva non disse nulla a Hitler della telefonata, ma lui ne fu informato dall’ufficiale che ascoltava le conversazioni, e non perdette tempo a reagire. «Portatemi subito quell’individuo!» ordinò.
Eva ignorava che suo cognato avesse un appartamento privato a Berlino, ma non lo ignorava la Gestapo che vi irruppe alle cinque del pomeriggio e lo sorprese mentre stava preparando i bagagli. Naturalmente, Fegelein venne arrestato e nell’appartamento furono trovati molti franchi svizzeri e molti gioielli, compreso l’orologio con brillanti che Hitler aveva regalato a Eva. Fu ricondotto nel bunker e chiuso in una cella.
Como, giovedì 26 aprile 1945
Quella notte Claretta non aveva chiuso occhio. All’alba aveva raggiunto il console della milizia Vito Casalinuovo cui, in passato, Mussolini le aveva suggerito di rivolgersi in caso di bisogno, per avere notizie di lui.
«È partito nella notte» le rispose Casalinuovo. «Ma non so per dove: ha preso la via per Menaggio…»
«Lo raggiungerò anche se fosse andato in capo al mondo» disse lei allontanandosi in fretta. «So che ha bisogno di me.»
Mussolini aveva bisogno solo di mettersi in salvo. Quella notte aveva cercato di espatriare in Svizzera, ma l’ostinato Birzer gli aveva sbarrato la strada costringendolo, con la minaccia delle armi, a dirottare per Menaggio. Quando vi giunse, davanti all’Hotel Miravalle stazionavano già molte vetture di fascisti fuggiaschi. Poco dopo arrivò anche Claretta: vedendola, Mussolini si mosse verso di lei, ma la donna, spento il sorriso accennato al suo apparire, con uno scatto gli voltò bruscamente le spalle per rientrare nell’albergo inviperita. Accanto al Duce c’era la giovane ausiliaria Elena Curti.
Più tardi, Mussolini la raggiunse in camera, dove scoppiò probabilmente una scenata di gelosia perché si udirono grida, rumori e, quando il Duce uscì, aveva un vistoso cerotto sulla fronte. Dirà che aveva battuto accidentalmente contro uno spigolo.
Verso mezzogiorno era giunta a Menaggio anche un’autocolonna della Luftwaffe composta di anziani riservisti della Flak, la contraerea tedesca. Erano diretti in Alto Adige per poi proseguire nel Reich e il loro comandante, il tenente Hans Fallmeyer, non si era mostrato affatto entusiasta quando i fascisti avevano deciso di accodarsi alla sua colonna con la loro poco raccomandabile carovana. Era però bastato l’intervento di Birzer, con la sua parola magica (Führerbefehl), a fargli cambiare idea. Mussolini aveva invece mostrato di gradire quella compagnia. «Con duecento tedeschi,» aveva detto con sconcertante ottimismo «si va in capo al mondo.»
Nel frattempo, il gruppo era stato raggiunto da Alessandro Pavolini a bordo di un grosso carro blindato e seguito da due camion carichi di militi. Era andato a chiamarlo, in bicicletta, la giovane Elena Curti, che per due giorni pedalerà avanti e indietro come un’intrepida staffetta. Il blindato era in realtà un grosso autocarro «Lancia 3Ro», targato Lucca, che i brigatisti toscani comandati dal federale di Empoli, Idreno Utimpergher, avevano penosamente trasformato in un’autoblinda armata di mitraglie su disegno di un volenteroso carrozziere fascista di Piacenza. Il conducente si chiamava Merano Chiavacci, il mitragliere Ginesio Del Grande, entrambi lucchesi.
La serata fu impegnata per i preparativi della partenza prevista per l’alba. Mussolini dormì nella locale caserma delle brigate nere guardata a vista dai giovanissimi militi delle «Fiamme bianche» appartenenti al gruppo «Onore e combattimento». Claretta, col fratello e i suoi congiunti, si era trasferita in una casa privata distante pochi metri. Non intendeva assolutamente separarsi dal suo idolo anche se lui l’aveva più volte supplicata di farlo.
Berlino, venerdì 27 aprile 1945
Quella notte Eva aveva dormito poco, non tanto per il cupo fragore delle artiglierie al quale si era abituata, quanto per il pensiero della sorte che attendeva suo cognato. Hermann Fegelein era stato rinchiuso in una stanza trasformata in cella e il Führer non aveva esitato a pronunciare la sentenza. «Domani sarà fucilato.»
Lei aveva dovuto attendere a lungo prima di poter intercedere con Hitler in favore del cognato (il Führer era nottambulo), ma quando le fu possibile lo supplicò in lacrime di risparmiarlo. «È giovane, sua moglie aspetta un bambino, sarà il mio unico nipote: non puoi farlo nascere orfano…» Hitler si era alfine addolcito alle sue lacrime. Rinunciò a far fucilare Fegelein e si accontentò di farlo portare nel suo studio dove, davanti a Eva, dopo averlo accusato di tradimento, gli aveva strappato le spalline, la croce di ferro e tutte le altre decorazioni.
Ma il destino del generale Hermann Fegelein, di anni 39, non si era ancora concluso. Nel pomeriggio la radio svedese annunciò che Himmler aveva proposto dei negoziati agli Alleati autoproclamandosi successore di Hitler. Il Führer, fuori di sé dalla collera, non potendo colpire il traditore, cercò un capro espiatorio e naturalmente trovò Fegelein, «l’occhio di Himmler». Furono esaminate le sue carte private, e già la somma di franchi svizzeri trovati in suo possesso fu sufficiente come prova che Fegelein intendeva fuggire in Svizzera per iniziare le trattative per conto di Himmler. Ciò bastò a Hitler per ricredersi e per ordinare che venisse immediatamente giustiziato. Poi disse a Eva: «Tuo cognato è un traditore, non deve esserci pietà. Ricordati di Mussolini e di Ciano».
Impressionata da questo parallelo storico, Eva rispose rassegnata: «Tu sei il Führer, le considerazioni familiari non contano». Era stata anche informata che nella valigia di Fegelein erano stati trovati dei gioielli appartenenti a lei e che nel suo appartamento c’era una giovane signora ungherese, moglie di un diplomatico, con la quale lui conviveva. Tutto ciò aveva provocato la sua animosità.
Nel bunker la notizia della fucilazione di Fegelein venne accolta con generale apatia. Morire oggi o morire domani non faceva differenza.
Sulla strada per Dongo, venerdì 27 aprile 1945
Alle 5,30, quando l’alba non era ancora spuntata sul lago, la colonna dei fuggiaschi si era messa in movimento alla velocità di trenta chilometri orari: il massimo consentito dal blindato di Pavolini, che apriva la marcia. Era composta di ventotto veicoli. Dietro il blindato venivano i sei camion della Flak, l’Alfa Romeo guidata da Pietro Carradori con Mussolini e Bombacci a bordo. Seguivano alla rinfusa le auto dei superstiti dell’ultimo governo fascista con mogli, figli, amanti e i rispettivi bagagli. Con loro c’era naturalmente anche Claretta sull’auto guidata da Gasperini, oltre a Marcello e i suoi congiunti su una lucente Alfa Romeo. Chiudevano il corteo due automezzi dei ragazzi delle «Fiamme bianche» e il camion dell’immancabile Birzer con le sue SS. In totale, 177 tedeschi e 174 italiani.
Un’ora dopo, paventando il rischio di un’imboscata dei partigiani o del tiro di eventuali cecchini, era stato deciso di trasferire nella grossa autoblinda i soggetti più «preziosi». Mussolini, naturalmente, ma anche Bombacci, Pavolini e una decina fra ministri e gerarchi, nonché l’infaticabile Elena Curti. Birzer aveva autorizzato il trasferimento.
Il blindato aveva quindi ripreso la marcia con Mussolini seduto fra l’autista Chiavacci e il mitragliere Del Grande. Nell’interno del veicolo il disordine era indescrivibile: armi ammucchiate, caricatori e proiettili sparsi, mozziconi, resti di cibo, borse, valigie e persino alcuni pacchi di biglietti da mille, sigillati con le fascette go...