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Le risposte della fede

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  1. 144 pagine
  2. Italian
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Le risposte della fede

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Navigare è da sempre sinonimo di vivere e conoscere. Un'immagine che l'era informatica ha reso ancora più familiare e ricca di significati. Più che mai incerta, tuttavia, si è fatta la rotta per un¿umanità spaesata che «naviga nel mare di Internet come un Ulisse che non ha, però, alle spalle nessuna Itaca e, quindi, non sa dove volgere la prua della nave per puntare a una meta». Ha ancora senso, allora, inseguire un approdo o bisogna rassegnarsi a procedere a vista?
Gianfranco Ravasi ci propone un percorso di ricerca in cui una sapienza antica si confronta criticamente con i dubbi dell'uomo contemporaneo. Il tragitto si snoda, in un crescendo emotivo e spirituale, lungo la direttrice che collega tre grandi porti: la «città secolare», la moderna metropoli, vorticosa e disincantata, che ha relegato il sacro fuori dai suoi confini e nella quale anche Dio, se dovesse presentarsi sulla sua piazza principale, «al massimo verrebbe fermato come un estraneo a cui chiedere di esibire i documenti d'identità»; la «città dell'uomo», «affascinante e scintillante di luci» ma spesso «devastata dalle sue scelte storiche», un luogo dal forte valore simbolico, che può diventare segno e anticipazione dell'incontro col divino o inaridirsi nell'illusione di bastare a se stessa; e infine «la città di Dio», il traguardo ultimo della nostra peregrinazione, che si può abbracciare solo con lo sguardo della fede.
La nave con cui l'autore ci invita a solcare l'oceano tempestoso della storia, infatti, «batte bandiera cristiana» e la sua bussola è la Bibbia, ma lungo l'itinerario si possono incrociare, anche solo per un attimo, compagni di viaggio provenienti dalle più svariate esperienze: scrittori e drammaturghi come Borges, Pirandello e Ionesco, filosofi come Pascal, Kierkegaard e Nietzsche, artisti come Gauguin e Chagall, cantautori come Guccini e De André, e altre grandi personalità che, in ogni epoca, hanno dato voce alle domande fondamentali sul nostro destino.
Con la consueta profondità intellettuale e la propensione al dialogo che la stessa cultura laica gli riconosce, Ravasi affronta anche gli scogli più insidiosi dell'attualità, come quello dei rapporti tra Chiesa e Stato o tra ricerca scientifica e religione, e immergendosi nell¿inquietudine e nelle lacerazioni del nostro tempo disegna le coordinate per un viaggio ricco di suggestione, che coinvolgerà credenti e non credenti accomunati dal desiderio di continuare a interrogarsi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852029523

IV

La città di Dio

La tormentata ma esaltante navigazione della fede, partita dalla «città secolare», transitata per la «città dell’uomo», conosce un approdo che noi denominiamo con la celebre titolatura di un’opera di colui che ci ha anche offerto la metafora dell’itinerario per mare, cioè sant’Agostino. Tuttavia già un antico profeta d’Israele, Ezechiele, giunto al termine del suo abbozzo della Gerusalemme escatologica ne siglava così il cartello segnaletico: Jhwh shammah, in ebraico «Io-Sono è là». In realtà, come vedremo subito, non è una metropoli eterea, una città invisibile da relegare nell’archivio dell’utopia. Essa si incardina già nella terra degli uomini. E questo accade soprattutto nella visione che stiamo proponendo, modellata sulla concezione ebraico-cristiana.
La raffigurazione potrebbe essere affidata a certi dipinti di Chagall nei quali Dio s’affaccia sullo shtetl, il villaggio ebreo mitteleuropeo, nel quale patriarchi e profeti, sapienti e discepoli delle Scritture Sacre hanno i volti quotidiani dei cittadini, gli angeli svolazzano sui tetti delle case con Salomone e la Sulammita innamorati e la stessa croce di Cristo è infitta fra le pietraie delle nostre colline. In questo nodo che unisce tempo ed eterno, spazio e infinito, uomo e Dio, entrambe le religioni, l’ebraica e la cristiana, marciano insieme, anche se con accenti ed esiti diversi. Inizieremo il nostro percorso in quella città attraverso l’evocazione di una scena di un passato lontano.
La tenda del Lógos
Cessato l’inverno, la primavera si è affacciata sulla terra e nella campagna sono sbocciate le primizie. Un ebreo fedele ne ha raccolte alcune in una cesta e si è recato al santuario per offrirle al sacerdote. Costui le riceve, le depone sull’altare e invita il fedele a pronunciare il Credo d’Israele: «Mio padre era un Arameo errante, scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele» (Dt 26,5-9). Sono sorprendenti gli articoli di questa professione di fede. Nelle parole di quell’antico credente emergono i volti dei patriarchi di Israele, a partire appunto da quell’«Arameo errante» che era Giacobbe, passando attraverso la drammatica esperienza egiziana con la grande liberazione esodica e l’ingresso in quella terra che sta ora germogliando di primizie.
Per usare un’espressione di Rilke, «l’Inconoscibile si erge silenzioso e salvatore» sul fiume della storia. Dio non è da cercare in teofanie paranormali, in estasi alienanti, in cieli dorati. La sua trascendenza s’impasta con la nostra immanenza. Il suo silenzio ineffabile non è mutismo o indifferenza, ma è azione efficace di salvezza e liberazione. Per questo si è soliti dire che la religione biblica è storico-salvifica o è una «storia sacra» o una «storia della salvezza». La sua originalità è proprio nel non escludere la «città dell’uomo» dal territorio della «città di Dio», relegando quest’ultima in cieli remoti e invisibili. Tale unitarietà – che può sembrare un ossimoro – raggiunge il suo estremo nel cristianesimo. Esso va oltre la collocazione del Dio eterno nel grembo della storia ove si rivela; lo scopre in un volto umano e in un nome ebreo, Gesù, con una sua vicenda biografica che vela ma non elide la sua alterità trascendente.
A questo riconoscimento e al suo valore strutturale per il credere ci conduce una pagina che ha segnato la storia e la cultura, l’inno che funge da prologo al quarto Vangelo. In esso si anticipa la risposta alla scommessa di Ionesco che avevamo menzionato in apertura al nostro testo: il Non-So-Chi si identifica in una persona con un nome che è divenuto noto a tutti. L’Io-Sono riceve ora un’identità diretta. Sarà proprio quell’uomo a ripeterlo: «Credete che Io-Sono … Prima che Abramo fosse, Io-Sono … Chi cercate? Risposero: Gesù il Nazareno! Replicò: Vi ho detto: Io-Sono» (Gv 8,24.58; 18,7-8). E continuerà nell’identificazione ulteriore anche degli altri nomi, o cognomi, che avevamo scoperto per il Dio Io-Sono: «Io-Sono la luce del mondo» (8,12).
Ma entriamo nel capitolo di apertura del Vangelo di Giovanni ove scegliamo solo due frammenti: En arché en ho Lógos … ho Lógos sarx eghéneto, «In principio era il Verbo … e il Verbo carne divenne» (1,1.14). In forma essenziale, quasi assiomatica, si definisce quell’incrocio totale che già l’antico Credo di Israele aveva intuito: il Lógos «che era presso Dio, anzi, che era Dio, per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza del quale nulla è stato fatto di ciò che esiste, nel quale era la vita e la vita era la luce degli uomini» (1,1-4), acquisisce il «divenire» storico e indossa lo statuto della «carne» che è espressione di limite, caducità, temporalità, spazialità, mortalità. Colui che percorreva il cielo dell’infinito e dell’eterno, come continua Giovanni, «pone la sua tenda in mezzo a noi» (1,14), con evidente allusione al tempio di Sion e alla sua tenda dell’alleanza. Non è da escludere che il greco eskénosen, «si accampò, pose la tenda» ammicchi foneticamente attraverso le tre componenti radicali s-k-n alla parola shekinah con cui il giudaismo indicava la «presenza» divina nel tempio.
La «carne», il corpo, l’esistenza storica di Gesù di Nazaret si trasformano nel nuovo tempio ove Dio si rivela. L’incontro tra uomo e divinità è esplicito e non più mediato. Lo cantava suggestivamente Borges nella poesia intitolata proprio col versetto citato del prologo del quarto Vangelo, Giovanni 1,14, e inserita nella raccolta Elogio dell’ombra (1969). Eccone solo alcuni versi: «Io che sono l’È, il Fu e il Sarà / accondiscendo ancora al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo … / Vissi stregato, prigioniero d’un corpo e di un’umile anima… / Appresi la veglia, il sonno, i sogni, / l’ignoranza, la carne, / i tardi labirinti della mente, / l’amicizia degli uomini / e la misteriosa dedizione dei cani. / Fui amato, compreso, esaltato e appeso a una croce».
La classica dottrina delle due nature nell’unica persona proclamata dal Concilio di Calcedonia del 451, dottrina che trova largo spazio nei trattati di cristologia, è la codificazione secondo categorie greche di una concezione che brilla già nell’inno giovanneo. Quest’ultimo diventa quasi la stella polare che risplende sulla «città di Dio» e che guiderà anche il nostro cammino al suo interno. La prima componente è ancora quell’Io-Sono da cui abbiamo preso le mosse. Ora in greco è chiamato Lógos, secondo una delle analogie più costanti per dire l’Ineffabile, Dio. Il Verbo, la Parola, diventa, quindi, il compendio del mistero nel quale ci inoltriamo, volando su ali d’aquila (per evocare il simbolo tipico, l’aquila appunto, assegnato nella tradizione all’evangelista Giovanni). La Parola suprema e perfetta, col suo carico di rivelazione, di comunicazione, di dialogo, di svelamento, di comunione, è il nuovo nome che Io-Sono assume. Una presenza che è rintracciabile già nell’incipit stesso delle Scritture, della creazione e della storia.
Wort, Kraft, Sinn, Tat
Infatti in apertura alla Genesi si legge: Wayy’omer ’elohîm: yehî ’ôr. Wayyehî ’ôr, «Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (1,3). È questo il bereshît assoluto, l’«in principio» per eccellenza, ricalcato appunto dall’en arché en ho Lógos, «in principio era la Parola» del Vangelo giovanneo. La Parola divina squarcia il silenzio del nulla e fa fiorire l’essere. La stessa Parola conduce e dà un senso profondo alla storia, così da trasformarla da pura nomenclatura di eventi in una «storia della salvezza». Si pensi solo alla Parola divina che si sfrangia nelle dieci parole del Decalogo che scendono dalla vetta del Sinai e diventano per l’uomo «lampada per i passi e luce sul cammino» morale ed esistenziale (Sal 119,105). «Dio vi parlò in mezzo al fuoco: voce di parole voi ascoltaste, immagine alcuna non vedeste, solo una Parola» (Dt 4,12): così Mosè riassume l’esperienza natale di Israele vissuta al Sinai.
È una Parola archetipica che contiene in sé tutta la famosa tastiera di armoniche semantiche proposta dal Faust di Goethe; essa è ovviamente Wort, «Parola, Verbo» che si comunica; è pero anche Kraft, «potenza» efficace che trasforma, è Sinn, «significato» profondo della realtà, ed è infine Tat, «azione» creatrice e salvatrice. Non per nulla in ebraico dabar non è solo «parola» ma anche «atto». Tutte le volte che le nostre parole si sviliscono, si svuotano, diventano cave e logore, come ci ha già ricordato Qohelet-Ecclesiaste (1,8), noi smarriamo una via maestra per parlare di Dio. Anzi, ogni volta che si rompe il circuito virtuoso che regge e alimenta il dire e il fare, Dio diventa inesprimibile e incomprensibile. Diceva Ezra Pound: «In principio c’era la Parola, ma la Parola fu tradita».
Questa Parola per essere udibile ed effabile ha bisogno di parole che il canale trascendente e carismatico della rivelazione profetica concretizza e trasmette. Ecco, dunque, le Scritture Sacre che introducono l’altra «natura» della Parola, quella storica e immanente, umana e contingente, affidata a lingue umane. In questa luce è significativo proprio l’«Io-Sono» Gesù di Nazaret le cui parole sono impostate su entrambi i versanti, quello della trascendenza e quello della storicità. Il primo aspetto, luminoso, di Lógos puro e divino è percepito anche da chi non lo riconosce come tale. Basti solo citare questo episodio esemplare narrato proprio dal quarto Vangelo. «Alcuni volevano arrestare Gesù. Ma nessuno mise le mani su di lui. Le guardie tornarono, infatti, dai capi dei sacerdoti e dei farisei e questi dissero loro: Perché non lo avete condotto qui? Risposero le guardie: Mai un uomo ha parlato come parla costui!» (Gv 7,44-46). La Parola divina non può essere incatenata. Essa è efficace e di fronte al male ingaggia una battaglia di supremazia: «Lo voglio, sii guarito!» si legge spesso nei Vangeli quando si narrano le guarigioni operate da Cristo.
È una Parola estrema che travalica le mere logiche sociali: basterebbe soltanto ascoltare Gesù sul monte mentre proclama le Beatitudini che ribaltano tutte le comuni categorie culturali, sociali e psicologiche. Felici, infatti, diventano i poveri, le persone in lacrime, i miti, gli affamati e assetati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia (Mt 5,3-12). Facile è, allora, comprendere la reazione sconcertata degli stessi discepoli e della folla: «Molti dei suoi discepoli, dopo averlo ascoltato, dissero: Questo linguaggio è duro: chi può intenderlo?»; «Non compresero nulla di quello che aveva detto; quel parlare restava per loro oscuro e non capivano ciò che aveva detto» (Gv 6,60; Lc 18,34).
Eppure queste parole, che rivelano un mondo e un modo di pensare sorprendente e diverso, sono contemporaneamente radicate nell’immanenza della quotidianità; il Lógos si esprime con la sarx, la «carne» linguistica e simbolica di una cultura. L’Io-Sono conosce, come diceva sopra Borges, il linguaggio che scandisce i tempi dell’uomo. Così, Gesù Cristo parte spesso dai piedi dei suoi uditori: nelle almeno 35 parabole che egli racconta (forse un’ottantina, se si inglobano anche le metafore o le immagini espanse) introduce terreni aridi, semi, tarli, uccelli, scirocco e tramontana, lampi, piogge, arsure e così via. Non ignora la società con figli difficili, genitori ammirevoli, casalinghe sbadate, cene nuziali, braccianti e fittavoli, costruttori di case e di torri, ragazzi che giocano in piazza, magistrati corrotti e vedove indifese, vicini di casa importuni, esattori delle tasse, ricchi egoisti e mendicanti, debitori e creditori, portieri di notte e altro ancora, sempre secondo quella linea che invita a scoprire il divino nell’umano. Lapidaria è una dichiarazione di Gesù: «Il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,21).
Le stesse mani di Cristo recano in sé una forza sovrumana e soprannaturale ma sono costantemente protese sulle sofferenze umane al punto tale che un teologo canadese, René Latourelle, ha potuto affermare che «il Vangelo senza i miracoli sarebbe come l’Amleto di Shakespeare senza il principe!». Si pensi che il Vangelo di Marco nel resoconto della vita pubblica di Cristo (escludendo quindi gli ultimi tre dei sedici capitoli di cui è composto) è occupato per quasi la metà dalla narrazione di miracoli. E questi atti sono denominati significativamente dagli evangelisti non tanto térata, «prodigi», o thaumásia, «meraviglie», bensì dynámeis, cioè «atti di potenza», oppure seméia, «segni». In essi, infatti, non predomina l’evento spettacolare, tant’è vero che spesso sono compiuti in disparte rispetto alla folla. Con questi gesti si vuole dire che la Parola si fa Atto, la trascendenza non intride solo le parole ma anche gli eventi, il Lógos raggiunge la sarx in senso stretto, e lo fa non tanto per un clamore taumaturgico che assicuri successo all’attore ma per svelare negli atti – come era accaduto alle parole – la presenza dell’Io-Sono, cioè dell’Altro per eccellenza, di quel Creatore che non abbandona la sua creatura limitata e caduca.
La notte oscura della passione
Ebbene, lungo questa traiettoria si perviene allo specifico cristiano che porta alle estreme conseguenze la tesi affermata già in germe dalle Scritture Sacre ebraiche. In esse Dio entrava nelle vie della «città dell’uomo» e ne seguiva i percorsi storici, ora tacendo ora intervenendo in opere e in parole. Nel cristianesimo c’è un «molto di più» come dirà san Paolo: Dio stesso decide di deporre il manto della sua trascendenza e, come si è visto, sceglie di assumere in sé la sarx, la nostra finitudine e fragilità. Comincia a farlo presentandosi attraverso una nascita umana che è ovviamente un inizio nel tempo, e per di più con una natività umiliante, ai margini della società e sperimentando subito lo statuto di profugo (si leggano i primi due capitoli di entrambi i Vangeli di Matteo e di Luca, noti come i «Vangeli dell’infanzia» di Gesù). Le sue parole autobiografiche lo presentano come «mite e umile di cuore» che convoca a sé gli «affaticati e gli oppressi» (Mt 11,28-29).
Infatti egli sarà costantemente in solidarietà con gli ultimi della terra a livello fisico e morale, attirandosi l’accusa di essere sempre in cattiva compagnia di prostitute, pubblicani e peccatori: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro» (Lc 15,2). La sua corte dei miracoli è costituita appunto da tutte le degenerazioni fisiche e morali possibili. Ma Gesù non si accontenta di questa vicinanza. In un caso emblematico, com’è quello della lebbra – che nell’immaginario dell’antico Vicino Oriente rappresentava una delle sindromi più sconcertanti, perché considerata come la sede quasi sperimentabile dell’incontro tra peccato e malattia, tra colpa morale e castigo fisico (un po’ come accade ai nostri giorni per l’Aids in certi ambienti moralistici) – Cristo non solo viola la norma biblica che costringeva a non avvicinare il lebbroso perché simile a uno scomunicato che infettava fisicamente e moralmente, ma gli va incontro, «stende la mano e lo tocca» nella carne malata, quasi ad assumere su di sé malattia e colpa (Mc 1,40-42).
Ecco, inizia qui l’immanenza suprema del divino, vero apice dell’asserto giovanneo del Verbo che diviene carne. È ciò che la teologia cristiana denominerà col termine «Incarnazione». Sappiamo, però, che la carta d’identità degli esseri umani è scritta soprattutto nel dolore e nella morte, il segno fisico e metafisico della nostra realtà creaturale limitata e impotente. Ed è, allora, proprio qui che scatta la grande avventura di Dio, che in Gesù Cristo non s’accosta solo all’uomo ma diventa uomo e quindi si avvia a percorrere la lunga galleria oscura della passione e della morte, trasformandosi così in autentico compagno del nostro viaggio esistenziale. La «città di Dio», quindi, attira a sé il quartiere più importante della «città dell’uomo», quello del male, della finitudine e persino del peccato, in una scelta di solidarietà suprema.
È qui che si compie appunto l’«incarnazione» piena del Lógos divino, è qui che la trascendenza si unisce all’immanenza, è qui che le distanze tra i due poli estremi si annullano non tanto in un panteismo confuso ma in un «en-teismo»: il divino, che si era «ritirato» nella creazione, attira e accoglie in sé l’essere creato, redimendolo. La diversità rimane, ma non è più separatezza: il simbolo più eloquente per descrivere questo incontro potrebbe essere l’abbraccio d’amore nel quale i due innamorati conservano la loro identità ma – come dice la Bibbia (Gn 2,24) – diventano «un’unica carne», cioè un’unica esistenza. È per questo che il nome supremo dell’Io-Sono, con l’evento della passione e morte, è «Amore», come si diceva in apertura al nostro viaggio nel mare del mistero divino e umano.
La «passione» è, dunque, l’atto estremo dell’«incarnazione». Dio in Cristo trapassa attraverso tutte le iridescenze oscure del limite umano. C’è la paura della morte, incubo che sovrasta ogni ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Guida ai naviganti
  3. Dello stesso autore
  4. I. All’imbarco
  5. II. La città secolare
  6. III. La città dell’uomo
  7. IV. La città di Dio
  8. V. All’approdo
  9. Indice dei nomi
  10. Copyright