Tutte le volte che ce l'abbiamo fatta
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Tutte le volte che ce l'abbiamo fatta

Storie di italiani che non si sono arresi

,
  1. 224 pagine
  2. Italian
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Tutte le volte che ce l'abbiamo fatta

Storie di italiani che non si sono arresi

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"La nostra narrazione collettiva è un po' così: un misto tra il pasticciaccio brutto e la storia esemplare, il ruzzolone nel ridicolo e la storia strappacuore, la missione che naufraga nel menefreghismo e l'impresa titanica." L'Italia è un Paese che si sottovaluta, fermo sulla soglia del mondo, abitato da irrimediabili Peter Pan. Perché non siamo capaci di salire sul "cavallo bianco" della Storia? Perché viviamo in un luogo pieno di memorie ma senza memoria? Perché abbiamo costruito il futuro e non riusciamo a viverlo? Tutte le volte che ce l'abbiamo fatta è una passeggiata in un caleidoscopico Paese sempre in bilico; una terra, tuttavia, dalle straordinarie avventure e ricca di biografie esemplari. Dopotutto noi italiani siamo figli di Collodi e Manzoni, siamo capaci di volare con Domenico Modugno e di correre con Pietro Paolo Mennea; di riconoscerci in Alberto Sordi e nello stile delle sorelle Fontana. Siamo sognatori come Federico Fellini, ma anche geniali scienziati come Enrico Fermi o Guglielmo Marconi: come sarebbero le nostre vite oggi senza le loro scoperte? Eppure, parlando al telefono, nessuno ricorda che il suo inventore è stato un italiano, Antonio Meucci; utilizzando un oggetto di plastica, non si pensa a Giulio Natta e, seguendo una partita di calcio, il pensiero non va al "metodo" di Vittorio Pozzo, con il quale la Nazionale vinse due mondiali consecutivi. Con stile brillante, Mario Sechi ci racconta l'Italia attraverso questi personaggi eccezionali, facendo emergere, sullo sfondo, la storia e l'economia, le visioni e le previsioni. Dal Risorgimento al Dopoguerra, dagli anni Settanta, con il caso Moro, sino alla sfida della contemporaneità, assistiamo a un'Italia percorsa da crisi economica, populismo e tecnocrazia, ma popolata ancora da grandi talenti, come Sergio Marchionne e Riccardo Muti, metafora del genio di un Paese che, nel bene e nel male, cerca ogni giorno di ritrovare slancio, forza e creatività. Un orizzonte possibile, per quelli che partono e per quelli che restano, ma che hanno sempre l'Italia nel cuore.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852030789
Argomento
Storia

Pretesto

Tutte le volte che ce l’abbiamo fatta
(ma non ci siamo presi sul serio)

Un caffè del centro di Roma. Tarda sera. Due bicchieri.
Vino rosso.
«Voi italiani non salite mai sul cavallo bianco.»
«Cosa vuoi dire?»
«Quello che ho detto: che non salite mai sul cavallo bianco. L’italiano, quando c’è un problema che abbatterebbe chiunque, ci pensa su, poi dice: “Andiamo al mare”. È la vostra forza.»
«Non è invece la nostra debolezza?»
«No, pensa al tuo Paese: è straordinario, e questa sua straordinarietà è proprio nel rifiuto di salire in sella al cavallo bianco.»
«Forse non vogliamo salvarci?»
«Gli italiani non hanno alcun bisogno, né tantomeno desiderio, di salvarsi, essere tedeschi, spagnoli o inglesi. Sono italiani e dunque niente cavallo bianco, si va al mare!»
Prendo il mio taccuino, scrivo. Discutiamo sul titolo di un libro futuro.
«Tutte le volte che ce l’abbiamo fatta
«No, dovresti intitolarlo così: Tutte le volte che non ce l’abbiamo fatta
«È negativo. Gli italiani, alla fine, ce l’hanno sempre fatta.»
«Ma non salite mai sul cavallo bianco. È un elemento del vostro carattere, il più forte.»
«Allora aggiungiamo un sottotitolo: Tutte le volte che ce l’abbiamo fatta. Ma non ci siamo presi sul serio
Lei sorride: «Ecco, questo è perfetto: è italiano».
Chiudo il taccuino. Non è mai troppo tardi, ma lei se ne va. Torna nella terra straniera da cui è venuta.
L’Italia e gli italiani. Riapro il taccuino. «Non salite mai sul cavallo bianco.» Davvero siamo così noi italiani? Perché non saliamo sul cavallo bianco? Abbiamo un blocco naturale della crescita, qualcosa che ci impedisce di arrivare alla maturità e preferiamo restare in eterno sulla soglia del mondo, un piede dentro e un piede fuori, in bilico, irrimediabili Peter Pan?
In principio fu il cavallo bianco... ma quale? Ah, questo sì che è molto «italiano»: Roberto Benigni in sella a un cavallo bianco fa il suo ingresso nel teatro Ariston di Sanremo. Il nostro patriottismo celebrato nel rito pop televisionaro, luogo di costruzione e decostruzione di identità, carattere in pixel di una nazione.
La nostra narrazione collettiva è un po’ così: un misto tra il pasticciaccio brutto e la storia esemplare, il ruzzolone nel ridicolo e la storia strappacuore, la missione che naufraga nel menefreghismo e l’impresa titanica. Tanto che alla fine sul cavallo bianco ci sale un attore, un comico, un narratore di Dante, un caratteraccio, un caratterista, un cabarettista, un alchimista della parola. Come vedremo nelle pagine seguenti, tutto questo lavorio, questa apparente fatica di Sisifo, ha perfino un senso, è una continuazione della nostra storia che a volte si ribella e diventa controstoria.
Benigni, dunque. Festival di Sanremo 2011, 17 febbraio, terza serata, quella più attesa, giorno dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia. «Buonaseraaaaa, viva l’Italia!» Il Piccolo Diavolo scende dal cavallo, abbraccia l’inossidabile Gianni Morandi con quel sorriso da Morandi; ridacchia Roberto: è un giocoliere medievale, uno di quelli che sulle piazze di paese sputa fuoco, mangia spade e racconta storie, «’sta cosa del cavallo è bellissima, anche se all’inizio avevo un po’ di dubbi a fare l’entrata col cavallo perché... è un periodo che ai cavalieri non gli dice tanto bene...». Pochi secondi per evocare Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, figura metaforica di un ciclo storico, un ventennio diviso tra chi è con lui e chi è contro di lui. In fondo è la nostra storia reloaded, un «guelfighibellinismo», che non conosce cadute di audience. Benigni è sul palco, si muove come un torero di consumata bravura nell’arena. Agita la muleta, chiama l’applauso, ha in mano il gioco. Svolge con raffinata eleganza, un Cecco Angiolieri dei nostri tempi, un’esegesi dell’inno di Mameli che è un tuffo nei nostri storici luoghi non comuni.
Benigni e Mameli. E i protagonisti di quella storia che ci ha consegnato le chiavi del Paese, il Risorgimento: le radici carbonare, lo statista Cavour, il rivoluzionario Mazzini, gli illuminati Savoia, Garibaldi, l’eroe dei due mondi («che non è Marchionne») e il Piemonte con la prima capitale d’Italia a Torino («poi fu subito spostata a Detroit»), e ancora Garibaldi che «era seguito dai più grandi scrittori dell’epoca: il duca di Wellington, Charles Dickens, grande come Shakespeare o Dante, Alessandro Dumas padre, quello che ha scritto I tre moschettieri, che ha scritto Il Conte di Montecristo, seguiva Garibaldi col taccuino, in tutto il mondo. Victor Hugo, George Sand, mandavano soldi, si tassavano per finanziare questa cosa di bellezza che c’era in Italia, questa grandezza immensa, eroica, epica, che non si vedeva più. Erano diventati un mito, tutti gli italiani. Li seguivano … e in ogni parte dove c’era un’ingiustizia si diceva: chiamiamo Garibaldi».
Benigni è rutilante, ripercorre la storia della nostra unità e, con l’arte del linguaggio e la mimica, trasmette il senso di un’era: «C’era un fervore: le Cinque Giornate di Milano, c’era Manzoni, Verdi. L’Italia è l’unico paese dove prima è nata la cultura e poi la nazione. Non esiste nessun altro luogo al mondo. È una cosa impressionante. Ha tenuto insieme la lingua, la lingua e la cultura immensa. … Erano persone mirabili: Cavour, Mazzini e Garibaldi, tutti e tre entrati in politica, e usciti dalla politica più poveri di quando erano entrati. Ma hanno arricchito gli italiani, enormemente. Un Paese che non proclama forte i propri valori con forza è pronto per l’oppressione e la servitù. Se non ci si ricorda del nostro passato, non si sa dove si va. … Mameli ha vent’anni, Novaro è il musicista. Una sera stavano tutti a Torino. Arriva un pittore, Barzini, con un foglio e dice: “Guarda cosa ti manda Goffredo”. Novaro lo lesse e disse: “È una cosa bellissima”».
L’inno è una porta sul nostro futuro non ancora compiuto. Perché Mameli scriveva «Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta». E Benigni, sul palco dell’Ariston, centocinquant’anni dopo, non può fare a meno di commentare quel primo verso così: «Svegliatevi. L’unica maniera per realizzare i propri sogni è svegliarsi!».
Svegliarsi. Per aprire gli occhi, o semplicemente non dormire in piedi, per mettersi sulla scia della storia di quelli che l’hanno fatta, un popolo deve costruire, partecipare e credere a una narrazione collettiva. Deve sentirsi attore di una storia a più voci di grande gittata e precisione millimetrica. Sappiamo tutti che poi la storia si incarica di correggere il tiro, cambiare la traiettoria e spesso ribaltare il risultato sperato, ma senza questa visione del domani, senza un progetto di longue durée, un Paese esiste come espressione geografica, ma finisce per diluire la propria identità e sparire.
Ci crediamo ancora? Abbiamo una narrazione chiavi in mano del futuro? La prima e la seconda domanda sono legate, una catena indissolubile. Un Paese comincia a pensare possibile una storia collettiva quando l’idea è una risposta ai suoi bisogni, alle sue pulsioni e ai suoi ragionamenti. Le premesse possono a quel punto diventare promesse e azioni. Mi piacerebbe scrivere che sì, abbiamo il nostro racconto collettivo e una visione per cui viviamo nel presente ma pensando e costruendo il futuro. Milioni di italiani hanno vissuto con questa tensione ideale dal Risorgimento fino a qualche decennio fa. Poi, il vuoto. O meglio, una nazione che si rivela a macchia di leopardo, un divertissement storico che appare e scompare.
Lavorando nei giornali, tutti i giorni ti chiedi se la realtà è quella rappresentata, ben sapendo che il tuo mestiere contribuisce a plasmare un’idea della percezione di quella realtà e dunque, alla fine, del Paese. La cronaca e i fatti comandano, non dovrei avere alcun dubbio su questa formula del mio mestiere. È una regola alla quale nei giornali non si sfugge, pena l’inattualità o, peggio, il ridicolo. Tuttavia, penso anche che quello che incolonniamo, e ancor più quel che si vede in tv e online, sia spesso un sottoprodotto di lavorazione, uno spazio di dibattito un po’ deformato dalla compulsività dell’informazione e da un’agenda confusa sul piano politico-istituzionale.
È per questo che il recupero delle radici, giorno dopo giorno, mi appare sempre più necessario, e il lavoro degli storici, perfino di quelli che la storia l’hanno interpretata a senso unico, con omissioni e deviazioni, mi sembra un bene prezioso. Ristabilire la distanza. Perché non abbiamo ancora fatto bene tutti i conti con la nostra storia. Risorgimento e fascismo restano pietre miliari del nostro percorso verso la contemporaneità, mentre l’oblio – dei fatti e dei loro protagonisti – è il nemico da combattere, l’armata che, cancellando ogni residuato storico, finisce per polverizzare il significato dell’Italia, il suo essere nel mondo, le ragioni non solo della sua unità costituzionale, ma della sua originale cultura, unico cemento del Paese.
Risorgimento e fascismo – piaccia o meno – sono state le nostre due grandi narrazioni collettive. Si acciglino pure, i parrucconi e i gendarmi della memoria, quelli che hanno «paura di dover riflettere su se stessi e dover rileggere la propria storia politica».1 La verità è che non si può far finta che non siano esistiti, né l’uno né l’altro. O essere intermittenti, e pensare di cancellarne uno per esaltare l’altro. La storia non fa sconti, presto o tardi esige il pagamento del prezzo pieno e presenta il conto.
Lo sforzo corale di grandi personalità sintetizzato dal progetto politico di un sol uomo, Camillo Benso di Cavour, e la parabola di un regime pieno di comparse ma scolpito sui muri dal pugno di un «uomo nuovo», Benito Mussolini, sono le porte usb alle quali collegare i cavi della contemporaneità, solo così possiamo accedere al database della nostra identità, del carattere degli italiani.
Lo so, qui dovrebbe aprirsi una discussione storico-accademica, perché «il carattere nazionale non è la stessa cosa dell’identità nazionale, anche se nel linguaggio corrente le due nozioni vengono spesso confuse. Ambedue i concetti sono piuttosto elusivi e si prestano a molteplici definizioni e utilizzazioni, ma si può dire che il carattere nazionale tende a riferirsi alle disposizioni oggettive consolidate (un insieme di particolari tratti morali e mentali) di una popolazione, mentre l’identità nazionale, espressione coniata più di recente, tende a indicare una dimensione più soggettiva di percezione e di auto-immagini che possono implicare un senso di missione e di proiezione nel mondo».2
A me sembra invece che le due cose siano talmente intrecciate da essere alla fine soltanto una e in movimento: carattere e identità sono il frullato di esperienze individuali che poi diventano collettive. In ogni caso, essendo semplicemente un cronista del mio tempo che ogni tanto si volta indietro (qui Karl Kraus mi avrebbe fucilato dandomi con tono sprezzante dello storico)3 ma cerca di guardare avanti (qui, invece, Vitaliano Brancati mi avrebbe dato dell’ottimista ricordandomi che «l’Italia non si stanca mai di essere un Paese arretrato. Fa qualunque sacrificio, perfino delle rivoluzioni, pur di rimanere vecchio»)4 parto da un dato per me intangibile: sono gli uomini che fanno la storia.
Così «il Fascismo deve a Mussolini quasi tutto: Mussolini al Fascismo quasi nulla, perché senza di esso sarebbe stato certamente alla testa di qualche altro straripamento; e molti che oggi gridano contro Mussolini, debbon gridare soprattutto contro se stessi, che non hanno valutato a tempo la forza dell’uomo».5 E aveva ragione Klemens von Metternich quando disse: «In Europa allo stato attuale esiste un solo vero uomo politico, ma disgraziatamente è contro di noi. È il conte di Cavour». Benito e Camillo Benso, icone di un Paese che si perde e si ritrova. A ondate. L’Italia procede a strappi, fa i suoi salti di campo quando prova lo shock. Per questo il passato ha un valore inestimabile. Possiamo trarne grandi lezioni.
Vi ricorda qualcosa questo passaggio di Indro Montanelli sugli anni Venti? «Lo Stato era indebitato fino al collo. La disoccupazione in aumento. Ma sei mesi prima era tornato al governo Giovanni Giolitti. E tutti pensavano che il vecchio navigatore non avrebbe ripreso il timone della barca se non fosse stato sicuro di poterla rimettere in rotta.»6
Gli esiti fascisti e sfascisti, i comunismi e i luogocomunismi sono sempre dietro l’angolo. Non è occultando o sminuendo la storia che si fa un’opera di (ri)costruzione e (ri)lancio di un Paese. «Macché parentesi! Lo abbiamo inventato e anche esportato in giro per il mondo, a mano armata o nel senso che altri – conservatori come Churchill e progressisti come Roosevelt – vi guardavano con attenzione, come a una possibile soluzione del problema della integrazione della masse. E ancor oggi, sul piano storiografico è così. Quali aspetti della storia d’Italia attirano interesse e si studiano all’estero, uscendo ovviamente dall’arte e dalla letteratura? In sostanza, due: proprio il Risorgimento e il Fascismo.»7
L’analogia non è mai operazione dal risultato certo, ma non vi sono dubbi che mentre scrivo l’Italia è giunta alla fine di un altro Ventennio, è in una transizione incerta e il quadro internazionale mostra un passaggio a Oriente della storia, della cultura e della ricchezza. Oggi è l’Asia il motore di cambiamento dello scenario mondiale. «Cina e India ne sono i protagonisti per eccellenza, tanto sul terreno economico che su quello politico. Insieme annoverano il 40 per cento della popolazione mondiale e ne conteranno ancor di più nei prossimi decenni: soprattutto la Cina dopo che Pechino ha messo d’un canto la politica di pianificazione familiare che dagli anni Ottanta aveva imposto un limite alle nascite. India e Cina sono anche i paesi che attualmente vantano una maggiore crescita annua del Pil, che consumano più risorse del pianeta – rastrellandone altre attualmente un po’ dovunque – e che si affacciano sempre più fuori dalle loro frontiere con una serie di investimenti diretti per la conquista di imprese e società finanziarie anche in Occidente. Oltretutto, sono decine di milioni i cinesi e gli indiani d’oltremare che vivono sparpagliati in numerosi paesi, pressoché in ogni angolo del mondo, e che costituiscono, per via dei loro legami familiari e delle loro attività, una sorta di network in grado di attivare sinergie e rapporti complementari con la madrepatria. Per tutti questi motivi, non solo l’economia globale è destinata a tingersi sempre più di colori asiatici. Anche il volto del mondo assumerà sempre più connotazioni d’impronta orientale, se si considera che, sommando alla Cina e all’India un paese in forte crescita demografica come l’Indonesia, l’Asia giungerà a comprendere, di qui a poco più di un decennio, quasi metà della popolazione del pianeta.»8
E noi? Noi italiani che facciamo in questo mondo che guarda sempre più verso il Sol Levante? Non saliamo sul cavallo bianco e andiamo al mare? Siamo forse le marionette immobili di una rappresentazione che vede muraglie di cinesi muoversi come un sol uomo alla conquista del mondo, i giapponesi capaci di rialzarsi sempre, anche dopo uno tsunami, e gli indiani fare calcoli e fondere l’acciaio? Che cosa è l’Italia? Ce la faremo?
L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. I puristi della Costituzione, quelli che «non si cambia perché è bellissima» – antidiluviani sacerdoti di una Carta che non funziona più (e si vede) – dovrebbero ricordare l’articolo 1 e riflettere un minuto: stiamo perseguendo quell’impegno? Stiamo creando, consolidando e proteggendo i posti di lavoro? Occupazione e disoccupazione sono indici che raccontano lo stato di salute di un Paese. Insieme al prodotto interno lordo, sono l’insostituibile termometro del benessere e – si rassegnino a questo dato oggettivo i sognatori di altri strumenti di misurazione – della fiducia, della capacità di costruire il futuro, insomma, in una brutale ma vera sintesi, della felicità.
L’andamento di occupazione e disoccupazione nel nostro Paese, il nostro tasso di disoccupazione, dal 2010 al 2012 è passato dall’8,4 per cento al 10,9 per cento, è previsto in aumento anche per il 2013 e sugli anni a venire pesa l’incognita di un sistema industriale senza politica industriale.
Sono dati che possono fluttuare in futuro ma, senza una brusca inversione di rotta, parliamo di uno zero virgola o di un punto: una miseria nella scarsità dell’attuale mercato del lavoro.
La crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti con la bolla dei mutui subprime nel 2008 si è propagata all’Europa trasformandosi in recessione. L’effetto distruttivo è quello di una diminuzione progressiva dell’occupazione, posti di lavoro che svaniscono e un tasso di sostituzione sempre più basso, una contrazione della produzione molto rapida e un crollo della fiducia tra le imprese e le famiglie. Il contrasto tra economia virtuale e reale è sempre più forte. La finanziarizzazione della nostra vita, lo sviluppo abnorme di un sistema del credito che punta sulla leva finanziaria e il guadagno da trading in luogo dell’antico e salutare mestiere di raccogliere e impiegare denaro, è uno sviluppo fuori controllo del capitalismo che cinque anni fa ha svoltato e lasciato l’Occidente con l’illusione che, in fondo, si tratta di un ciclo e prima o poi tutto tornerà come prima.
Qui sta l’error...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Tutte le volte che ce l'abbiamo fatta
  3. Pretesto - Tutte le volte che ce l’abbiamo fatta(ma non ci siamo presi sul serio)
  4. I. Tra Pinocchio e Promessi sposi
  5. II. Il regista e la pantera
  6. III. Un americano a Roma
  7. IV. Volare
  8. V. Il Pozzo dimenticato
  9. VI. L’Ultimo Bianco
  10. VII. Le tre sorelle
  11. VIII. Fermi tutti
  12. IX. Il matto della radio
  13. X. Piange il telefono
  14. XI. Un Paese di plastica
  15. XII. Imported from Chieti
  16. XIII. Note di rigore
  17. XIV. Visioni e previsioni
  18. XV. La fine e l’inizio. Moro
  19. Orizzonte - Perché possiamo farcela
  20. Note
  21. Copyright