Hri ascoltava le canzoni di Aleandro Baldi. Ossessivamente. Non me ne sono mai fatto una ragione. Un ex agente scelto della polizia speciale macedone, un metro e novanta per 120 chili di tecniche militari e aggressività, con agganci potenti e pericolosi in tutto il mondo, si metteva lì, con la testa all’indietro sul sedile, e canticchiava Passerà. E s’incazzava moltissimo se gli squillava il telefono.
C’era una sola cosa che gli piaceva più del calcio italiano, o meglio, delle scommesse sul calcio italiano, ed era la musica italiana. Quella tremenda, dei cesti dell’autogrill. E Baldi più di tutti. All’inizio avevo pensato che fosse un vezzo, che volesse fare il verso a qualche padrino da fiction televisiva che si commuove davanti ai suoi uomini sentendo Caruso. Poi ho capito che no, non era così. Quella roba toccava qualche corda nascosta chissà dove nella sua enorme pancia e gli comunicava emozioni che sapeva solo lui.
Saliva in macchina. Apriva il cassetto portadocumenti e posava la pistola (la teneva sempre in una sacca di tela nera, leggera, chiusa da un cordino nero). Subito dopo, come se avesse urgenza di farlo, attaccava la musica.
Aveva una playlist, una sola, micidiale, che cominciava proprio con Baldi. La ascoltava a ripetizione. In un viaggio medio di lavoro poteva arrivare a sentirla una dozzina di volte. E c’erano anche i momenti clou, di solito quando passava Caruso nell’interpretazione di Pavarotti, in cui cantava ad alta voce. All’inizio la cosa m’imbarazzava un po’, poi ho imparato a non farci caso. E da un certo punto in avanti ho cominciato a cantare anch’io.
Quella mattina andò come sempre. Prima seguì con lo sguardo la scena dell’arresto di Bressan fino a che non girammo l’angolo (fece in tempo a vederlo piegarsi per entrare nella macchina della polizia). Poi posò la pistola, accese la musica e mi disse: «Allora andiamo verso Milano».
Rimasi sorpreso. Non perché pensassi che saremmo dovuti andare altrove, ma per come impartì quell’ordine. Come se fosse scontato, come se la sera prima ci fossimo salutati dicendoci: «Allora domani alle sette qui, che andiamo a Milano». E invece eravamo appena scappati da una pattuglia della polizia, che probabilmente ci ricercava «in tutta Europa» e che aveva arrestato a sessanta centimetri da noi uno dei nostri soci, il quale, peraltro, contava molto meno di noi. Se avessero saputo tutto e avessero potuto scegliere tra noi e lui, non ho dubbi su chi avrebbero portato dentro. Insomma, io ero ancora imbottito di adrenalina e lui, invece, si comportava con naturalezza, come se avesse un piano.
Forse l’aveva davvero, forse in questi anni aveva pensato spesso a che cosa fare nel caso in cui… Sicuramente era così. Presi la provinciale verso l’autostrada e mi mischiai alle altre automobili.
Sono incredibili gli effetti che un semplice casello autostradale può produrre sul cervello di una persona. Almeno sul mio. Il livello di adrenalina crollò di colpo appena ritirato il biglietto d’ingresso. E il sangue si freddò. Mi venne persino di rispondere «Ciao, bella» alla macchinetta che mi augurava buon viaggio, proprio come avevo visto fare a Hri in centinaia di occasioni. E per la prima volta, quella mattina, tornai a respirare.
L’autostrada era il nostro habitat, il nostro mondo. Avevamo passato gli ultimi due anni nella Bmw bianca muovendoci per svincoli, parcheggi, piazzole di sosta e cavalcavia, scomparendo e riapparendo a nostro piacimento in ogni angolo del paese, ovunque ci fosse un portiere da contattare o un terzino da convincere. Mi sentivo come un gatto in un salotto, lì dentro.
Sul perché stavamo andando a Milano, non avevo la minima idea. Ci andavamo raramente, e quando capitava, di solito nei weekend, lo portavo sempre nello stesso posto: un bell’hotel in zona corso Como. Il più delle volte non uscivo nemmeno dall’auto. Parcheggiavo fuori dall’ingresso, lui scendeva, incontrava un signore, pochi minuti dopo risaliva e ripartivamo.
Questa volta, insolitamente, decise di darmi spiegazioni: «Adesso sistemiamo un paio di cose, poi ce ne andiamo». Disse proprio così, caricando parecchio quel «ce ne andiamo» perché non ci fossero dubbi su ciò che stavamo facendo. Stavamo scappando dall’Italia.
Del resto, in quelle condizioni non c’erano molte altre possibilità. Se ti cerca la polizia, puoi fare tre cose. Uno: arrenderti e farti arrestare, ma in quel caso devi essere pronto a farti la galera (specialmente se sei un macedone con precedenti penali per omicidio e una brutta faccia), e comunque alla fine, per uscire, ti tocca «parlare». Due: nasconderti, ma devi avere agganci veri, magari direttamente nella polizia. Tre: scappare, se sai come farlo.
Il suo telefonino squillò interrompendo Mietta e Minghi che cantavano «trottolino amoroso…». «Che cazzo è successo, quindi?» sibilò rabbioso prima ancora di dire «pronto», mentre abbassava il volume. Aspettava quella chiamata, evidentemente. E la sua non era una domanda, ma un ordine. Voleva essere informato su quanto era accaduto, su cosa la polizia aveva scoperto e sul perché.
Seguirono cinque, sei secondi di assoluto silenzio. Denso. Poi, nell’abitacolo, l’aria esplose.
Non ricordo cosa gridasse. Ricordo solo che mi facevano male i timpani, urlava talmente forte che la sua voce, piena di rabbia e, sì, anche di dolore, dopo aver rimbalzato sul parabrezza, tornava verso di noi investendoci, come un’onda del mare. Non avevo mai sentito nessuno urlare così forte. Continuava a dire «no, no, no». E piano piano il suo tono perdeva rabbia e acquistava dolore. Alla fine, era diventato una sorta di lamento, il grido inumano dell’ultimo dinosauro prima dell’estinzione.
Capii cosa era successo solo quando, dopo aver chiuso la comunicazione, mi guardò sconsolato. «Coglione…» mormorò quasi in lacrime. E non ci fu bisogno di altre parole.
Marco Paoloni. Era lui. Nell’ambiente lo chiamavano «il Gattone». Era un portiere. Grosso, e per una questione di esperienza io ho sempre diffidato dell’intelligenza di quelli grossi, nel senso di palestrati. Non era invidia, piuttosto statistica. Alto due metri, bello. Dicevano che era forte, coraggioso nelle uscite nell’area piccola, abbastanza reattivo. Ma nessuno lo considerava come portiere. Per tutti, Marco era un malato di scommesse. Il più malato. Una malattia che prima lo rovinò come atleta, poi come uomo, e infine anche come criminale. Ora che ci penso, è difficile dire per quale di queste tre cose avesse meno talento.
Dalla soglia della serie A, dove era arrivato giovanissimo (terzo portiere della Roma a 17 anni, con tanto di debutto da guinness e convocazione per l’Under 19), il Gattone si ritrovò rapidamente nelle paludi eterne della C, dove ormai gli capitava persino di fare panchina. Nella Primavera della Roma aveva incrociato uno dei più forti centrocampisti italiani, Daniele De Rossi. Ma non solo lui. Molti dei suoi compagni di quella squadra erano finiti in serie A, e passavano le domeniche a correre sotto la curva facendo gesti idioti verso tifosi indemoniati o, al massimo, a lamentarsi di zolle d’erba non perfettamente connesse, e lui, Marco Paoloni, una domenica sì e l’altra pure era costretto a tuffarsi in campi di terra putrida e a sbucciarsi le ginocchia come quando era ragazzino: un tuffo, una sbucciatura. Il Gattone pensava che, per un talento come il suo, quella fosse una brutta fine. E invece era solo l’inizio.
Un giorno qualcuno mi raccontò che a Civitavecchia, dove era cresciuto calcisticamente, il suo vecchio preparatore rischiava l’infarto ogni volta che lo vedeva sulla panchina di qualche stadio di provincia. Ci aveva scommesso sopra, a quel portierino, l’aveva portato da un vecchio e importante dirigente – suo amico dei tempi in cui erano entrambi giovani promesse – e gli aveva detto: «Guarda questo, è un fenomeno, diventerà un numero uno». Si era esposto, aveva speso il suo nome e la sua faccia con quello che, allora, era considerato uno degli uomini più potenti e preparati del calcio italiano. Il dirigente gli diede retta, si fidava, gli organizzò un provino con la squadra Primavera. Lo lanciò. Ma il volo fu breve. Più breve di un tuffo in area di rigore. Il Gattone si schiantò subito per terra. Forse non era ancora pronto.
Dalla Capitale fu spedito nelle squadre di provincia a «farsi le ossa», come si diceva una volta. Lui, invece, si fece il Suv e la casa con vista sul mare, cominciò a prendersi le pacche sulle spalle dei tifosi al bar e i sorrisi delle avventuriere locali, quelle aspiranti cubiste più di tacco che di gamba, giusto per intendersi. Insomma, non avendo una personalità sua si accontentò di essere quello che gli altri volevano che fosse. Puntò forte sul luogo comune. Non era ancora un vero «calciatore», ma già si muoveva come uno di loro. Solo che i soldi della provincia non sono gli stessi del grande palcoscenico. Mentre il prezzo dei Suv o delle case al mare è sempre lo stesso.
Allora, cominciò a fare quello che facevano tutti gli altri, scommettere. Per «arrotondare». Solo che lo faceva più in grande. Quantitativamente. Scommetteva su tutto. Calcio, tennis, basket. In Italia e all’estero. Si giocava l’intero stipendio nell’arco di una settimana. A volte vinceva, altre perdeva. E questo lo illuse inizialmente di poter restare in equilibrio e magari, davvero, con un po’ di fortuna, «arrotondare».
Sua moglie Michela, una donna giovane e bellissima, ma soprattutto di quella dolcezza un po’ severa che soltanto le donne di una certa famiglia, di una certa provincia, riescono ad avere, una volta a cena lo tenne almeno mezz’ora sul fatto che «arrotondare» non significa nulla, anzi, significa rovinarsi.
«Nel mondo degli adulti c’è un solo modo per guadagnarsi da vivere: lavorare. Non arrotondare. Chi arrotonda, o ruba o fallisce. E io non ho sposato né un ladro né un fallito.» Il discorso suonava più o meno così. Ed era anche un gran bel discorso. Ma quell’altro era già in un punto del vortice in cui tutto ciò che viene da fuori è indistinto rumore. E l’unica cosa che si sente, che si capisce davvero, è il richiamo della scommessa, che poi è solo la voce della disperazione, travestita.
Cominciò con i prestiti, e fu la sua fine. Chiese soldi anche alla moglie. Che non avrebbe voluto, ma era troppo innamorata di quel suo uomo immenso e bellissimo per resistere alla tentazione di farlo contento, di fidarsi. Lui le fece firmare di tutto. Le rubava il bancomat e, non conoscendo il codice, cercava disperatamente di azzeccare la combinazione giusta, lui che nella vita avrebbe dovuto soltanto scegliere da che parte buttarsi su un calcio di rigore: lo guardo, lo osservo, tira a destra o a sinistra? Botta o piazza? Non è che questo stronzo ora mi fa il cucchiaio? Ecco, dalla psicologia del centravanti, Paoloni era diventato esperto del crittogramma del bancomat.
I soldi, gli servivano i soldi: familiari e amici, dopo essersi anche cimentati nell’orrendo rito dell’elemosina («Guarda, è un momento difficile, non posso proprio, sai, la bambina deve mettere l’apparecchio, mia moglie è una sanguisuga, il presidente non ci paga da mesi, vabbè, dài, una mano te la voglio dare, ecco, questi sono duecento euro»), si erano eclissati. Erano rimasti soltanto quegli altri, quelli brutti che ti prestano i soldi senza battere ciglio ma poi te li richiedono al doppio. Sembrava la fine, appunto. Ma invece, ancora una volta, era solo un altro inizio.
Dopo una manciata di stagioni in provincia, era già pronto a fare l’ultimo passo verso il baratro. Quello del «non ritorno». Chiese un prestito all’agenzia che gli accettava le scommesse. Glielo concessero: era un loro cliente, ma soprattutto era un calciatore, quindi poteva dare «ottime garanzie». Glielo dissero esplicitamente, «ottime garanzie», prima di dargli il prestito, qualche migliaia di euro, ma lui non capì cosa intendessero o non volle capirlo: doveva pagare altri debiti, doveva giocare.
Prese quei soldi e li usò per scommettere. Qualcuno mi disse anche che vinse 45.000 euro. Fu persino così ingenuo da andare a festeggiare conl prosecco al bar davanti a casa. Ma non so se sia solo una leggenda.
Pagò i debiti e ciò che gli rimase in tasca lo usò per altre scommesse. Che però andarono male. Pochi mesi dopo chiese un altro prestito. Ma stavolta non vinse. E nemmeno le successive. Stava cominciando a finire tutto. «Questo lo ammazziamo» si dicevano al telefono quelli che, chiaramente, non erano più amici. Dalle richieste passarono alle minacce. Alle quali peraltro, inizialmente, Paoloni si dimostrò sordo. Fino a quando, al telefono, la voce che lo chiamava ogni sera elencandogli la serie di disgrazie che gli sarebbero capitate, non fece il nome di sua figlia di tre anni.
Il Gattone scoppiò a piangere. Decise di sistemare tutto. Ma lo fece nel peggiore dei modi: «aggiustando» una partita. Paoloni a quel tempo giocava nella Cremonese.
Cremona è una città particolare: quando fa caldo, fa un caldo della madonna e ci sono migliaia di zanzare. Quando fa freddo, l’umido ti prende le ossa, ti entra nella faccia e nelle gambe, e ti consuma, e poi la sera scende una specie di nebbiolina fitta fitta che ti impedisce di vedere e persino di respirare, prendi fiato e ti sembra di bere latte. A Cremona, poi, dopo le undici di sera non c’è un dannato posto che ti dà da bere, a parte una birreria con le panche di legno appiccicoso. E poi Cremona è un posto di merda perché ci sono gli sbirri bravi, bravissimi. E già gli sbirri sono un problema, ma gli sbirri bravi sono spesso un problema irrisolvibile.
Paoloni giocava nella Cremonese. Ed era nella merda: il suo debito soltanto con un bookmaker – che, detto così, fa fico ma in realtà altri non era che un tabaccaio abruzzese, tale Massimo Erodiani – era enorme. Qualcuno diceva 200.000, qualcun altro 500.000 euro. Erodiani per lungo tempo aveva accettato scommesse a credito dal Paoloni, sperando poi di rifarsi anche con le dritte che quello gli avrebbe dato. Per rientrare dal debito avevano organizzato anche un piano di ammortamento, proprio come si fa con le finanziarie: una cosa tipo 5000 euro al mese. Ma dove cazzo li andava a prendere Paoloni 5000 euro al mese da dare solo a Erodiani?
Il Gattone decise così di sistemare tutto «organizzando» una partita. Fu semplice. E seppe soltanto dopo che sulla dritta («Il Paoloni ha fatto la partita») ci scommise sopra mezza città. Si trattava solo di far vincere gli avversari. Niente di più, niente di meno. Non era la prima volta che si trovava in situazioni del genere. Da quando giocava nei Pulcini gli avevano fatto richieste simili. A volte era stato lo stesso allenatore a dire: «Ragazzi, a questi oggi servono punti, a noi non ce ne frega niente, magari l’anno prossimo ci torna utile». Altre volte era stato qualche compagno di squadra a chiedergli: «Facciamogliene fare almeno uno», perché aveva preso accordi suoi. Però non gli era ancora mai capitato di essere lui il regista, unico, di tutto. D’altronde, nella sua vita aveva sempre e solo scommesso sulla propria bravura, ed evidentemente gli era andata male. Perché non cominciare a giocare anche sui propri limiti?
Quella domenica scommisero tutti: chiaramente tutti quelli a cui Paoloni doveva dei soldi. Scommisero i Milanesi, e forse anche i Bolognesi. E scommettemmo anche noi. Se non sbaglio, era la partita con lo Spezia, Cremonese-Spezia, Lega Pro. Quella che un tempo si chiamava serie C. La Cremonese vinceva 2 a 1, la partita era praticamente finita. Ci aveva promesso che sarebbe finita con tanti gol, un over 3,5. L’over è una partita che termina con almeno 3 gol, uno dei risultati più redditizi in assoluto. Ancora più redditizio è l’over 3,5: per vincere servono almeno 4 gol.
Era il novantesimo. E Paoloni fece un capolavoro: con il pallone tra i piedi, tentennò sul lato corto dell’area, in direzione della bandierina di calcio d’angolo, quasi cadde; sembrava implorare l’attaccante avversario di farsi sotto, ma non per «scherzarlo» con un colpo di tacco come si faceva quando eravamo ragazzini, no, per consegnargli la palla e regalargli la rete. L’attaccante, si chiamava Colombo, arrivò, e Gattone fece finta di perdere il pallone. Lo perse. Dagli spalti gridarono al fallo, ma non c’era, e così Colombo, incredulo, si ritrovò il pallone tra i piedi. Gli bastò passarlo al centro dove un compagno lo spinse nella porta vuota, segnando il gol più comodo della sua carriera.
Lo show, però, non finì così. Al terzo e ultimo minuto di recupero, un’ala funambolica dello Spezia saltò in velocità due giocatori sulla fascia destra e provò a entrare nell’area della Cremonese, ma restava pur sempre un giocatore di secondo livello. Così la palla finì nelle mani di Paoloni in uscita, che, mentre rilanciava l’azione, agganciò con una manata l’arbitro il quale, anche lui incredulo, fu quasi costretto a estrarre il cartellino rosso.
Mi ricordo che i telecronisti cominciarono a balbettare increduli, e le «prodezze» del Paoloni finirono persino alla «Domenica sportiva» come esempio di «guarda u...