Il prigioniero del cielo
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Il prigioniero del cielo

  1. 350 pagine
  2. Italian
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Il prigioniero del cielo

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Informazioni sul libro

Nel dicembre del 1957 un lungo inverno di cenere e ombra avvolge Barcellona e i suoi vicoli oscuri. La città sta ancora cercando di uscire dalla miseria del dopoguerra, e solo per i bambini, e per coloro che hanno imparato a dimenticare, il Natale conserva intatta la sua atmosfera magica, carica di speranza. Daniel Sempere - il memorabile protagonista di L'ombra del vento - è ormai un uomo sposato e dirige la libreria di famiglia assieme al padre e al fedele Fermín con cui ha stretto una solida amicizia. Una mattina, entra in libreria uno sconosciuto, un uomo torvo, zoppo e privo di una mano, che compra un'edizione di pregio di Il conte di Montecristo pagandola il triplo del suo valore, ma restituendola immediatamente a Daniel perché la consegni, con una dedica inquietante, a Fermín.
Si aprono così le porte del passato e antichi fantasmi tornano a sconvolgere il presente attraverso i ricordi di Fermín. Per conoscere una dolorosa verità che finora gli è stata tenuta nascosta, Daniel deve addentrarsi in un'epoca maledetta, nelle viscere delle prigioni del Montjuic, e scoprire quale patto subdolo legava David Martín - il narratore di Il gioco dell'angelo - al suo carceriere, Mauricio Valls, un uomo infido che incarna il peggio del regime franchista.
Carlos Ruiz Zafón torna al genere che lo ha reso famoso in tutto il mondo e alla saga tanto amata dai suoi lettori con un nuovo appassionante episodio che si inserisce nell'universo letterario del Cimitero dei Libri Dimenticati. Il Prigioniero del Cielo riannoda le trame di L'ombra del vento e Il gioco dell'angelo, e getta luce sui misteri che erano rimasti insoluti solo per aprire nuovi inquietanti interrogativi. E soprattutto ci trascina nel turbine di una narrazione carica di tensione e colpi di scena, in grado di trasmetterci, con la forza delle emozioni, il lato più cupo dell'animo umano, ma anche di sedurre con il fascino sottile di una Barcellona in chiaroscuro che non smette di stregarci.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852027444
Seconda parte

Dal mondo dei morti

1

Barcellona, 1939
I prigionieri nuovi li portavano di notte, in automobili o furgoni neri che attraversavano la città in silenzio, partendo dal commissariato di Vía Layetana senza che nessuno li notasse, o volesse notarli. I veicoli della Policía salivano per la vecchia strada che portava sulla collina del Montjuic e più d’uno raccontava che, quando aveva intravisto sulla cima il profilo del castello stagliato contro le nubi nere che strisciavano su dal mare, aveva capito che non ne sarebbe mai uscito vivo.
La fortezza era ancorata alla parte più alta della roccia, sospesa tra il mare a est, il tappeto di ombre steso da Barcellona a nord e l’infinita città dei morti a sud, il vecchio cimitero di Montjuic, il cui fetore risaliva la montagna e s’infiltrava fra le crepe delle pietre e le sbarre delle celle. In altri tempi, il castello era stato utilizzato per bombardare la città a cannonate, ma appena pochi mesi dopo la caduta di Barcellona e la sconfitta finale in aprile, la morte vi si era annidata in silenzio e i barcellonesi, imprigionati nella più lunga notte della loro storia, preferivano non alzare gli occhi al cielo e riconoscere il profilo della prigione in cima alla collina.
Ai prigionieri della polizia politica, quando entravano, veniva assegnato un numero, normalmente quello della cella che avrebbero occupato e in cui, con molta probabilità, sarebbero morti. Per la maggior parte degli inquilini, come a qualcuno dei carcerieri piaceva chiamarli, il viaggio al castello era di sola andata. La notte in cui l’inquilino numero 13 arrivò a Montjuic pioveva a dirotto. Piccoli rivoli di acqua torbida sanguinavano dai muri e l’aria puzzava di terra smossa. Due ufficiali lo scortarono fino a una stanza in cui non c’era altro che un tavolo di metallo e una sedia. Una lampadina nuda pendeva dal soffitto e sfarfallava quando l’impulso del generatore si indeboliva. Rimase lì per quasi mezz’ora, aspettando in piedi con i vestiti fradici, sotto la sorveglianza di una sentinella armata di fucile.
Alla fine si sentirono dei passi e la porta si aprì per far entrare un uomo giovane che non doveva avere più di trent’anni. Indossava un vestito di lana appena stirato e profumava di acqua di colonia. Non aveva l’aspetto marziale del militare di carriera o di un ufficiale di polizia. I suoi lineamenti erano delicati e l’atteggiamento cortese. Il prigioniero pensò che si dava arie da signorino e che rivelava l’atteggiamento condiscendente di chi si sente superiore al posto che occupa e al palcoscenico che deve condividere. La caratteristica del suo aspetto che più richiamava l’attenzione erano gli occhi. Azzurri, penetranti e affilati di avidità e diffidenza. Solo in quegli occhi, dietro la facciata di studiata eleganza e gesti cordiali, si intuiva la sua vera natura.
Gli occhiali rotondi gli ingrandivano lo sguardo e i capelli imbrillantinati e pettinati all’indietro gli conferivano un’aria vagamente affettata e incongrua con il sinistro scenario. L’individuo si sedette sulla sedia dietro il tavolo e aprì una cartellina che aveva in mano. Dopo una rapida analisi del suo contenuto, unì le mani appoggiando i polpastrelli sotto il mento e guardò a lungo il prigioniero.
«Mi scusi, ma credo ci sia stato un equivoco…» disse il prigioniero.
Il colpo con il calcio del fucile nello stomaco gli mozzò il respiro e cadde a terra raggomitolato su se stesso.
«Parla solo quando il signor direttore ti interroga» gli intimò la sentinella.
«In piedi» ordinò il signor direttore, con voce tremula, ancora poco abituata a comandare.
Il prigioniero riuscì a rialzarsi e affrontò lo sguardo scomodo del signor direttore.
«Nome?»
«Fermín Romero de Torres.»
Il prigioniero guardò quegli occhi azzurri e vi lesse disprezzo e disinteresse.
«Che razza di nome è? Mi prendi per scemo? Forza: nome, quello vero.»
Il prigioniero, un ometto gracile, tese i documenti al signor direttore. La sentinella glieli strappò di mano e li mise sul tavolo. Il signor direttore diede loro un’occhiata rapida e schioccò la lingua, sorridendo.
«Un altro di quelli di Heredia…» mormorò prima di gettare i documenti nel cestino. «Queste carte non valgono niente. Mi dici come ti chiami o dobbiamo fare sul serio?»
L’inquilino numero 13 cercò di articolare qualche parola, ma gli tremavano le labbra e a stento fu in grado di balbettare qualcosa di incomprensibile.
«Non avere paura, ché non mangiamo nessuno. Che ti hanno raccontato? Ci sono un sacco di rossi di merda che spargono calunnie in giro, ma qui le persone, se collaborano, vengono trattate bene, da spagnoli. Forza, spogliati.»
L’inquilino sembrò esitare un istante. Il signor direttore abbassò gli occhi, come se tutta la situazione lo mettesse a disagio e solo l’ostinazione del prigioniero lo trattenesse lì. Un attimo dopo, la sentinella gli diede un altro colpo con il calcio del fucile, stavolta nei reni, che lo fece stramazzare al suolo.
«L’hai sentito, il signor direttore. Nudo. Non abbiamo tutta la notte.»
L’inquilino numero 13 riuscì a mettersi in ginocchio e a liberarsi a poco a poco dei vestiti sporchi e insanguinati che lo ricoprivano. Quando fu completamente nudo, la sentinella gli infilò la canna del fucile sotto un’ascella e lo costrinse ad alzarsi. Il signor direttore sollevò lo sguardo dal tavolo e sfoggiò un gesto di disgusto notando le bruciature che gli ricoprivano il dorso, le natiche e buona parte delle cosce.
«Sembra che il nostro campione sia un vecchio conoscente di Fumero» commentò la sentinella.
«Lei stia zitto» ordinò il signor direttore con scarsa convinzione.
Guardò impaziente il prigioniero e vide che stava piangendo.
«Su, non piangere e dimmi come ti chiami.»
Il prigioniero sussurrò di nuovo il suo nome.
«Fermín Romero de Torres…»
Il signor direttore sospirò, seccato.
«Guarda, mi stai facendo perdere la pazienza. Voglio aiutarti e non mi va di dover chiamare Fumero e dirgli che sei qui…»
Il prigioniero iniziò a gemere come un cane ferito e a tremare in modo così violento che il signor direttore, a cui chiaramente la scena dava fastidio e che desiderava sbrigare quell’incombenza prima possibile, scambiò un’occhiata con la sentinella e, senza aprire bocca, si limitò ad annotare sul registro il nome che gli aveva fornito il prigioniero e a sussurrare qualche maledizione.
«Guerra di merda» mormorò tra sé quando portarono il prigioniero nella sua cella, trascinandolo nudo lungo i tunnel pieni di pozzanghere.

2

La cella era un rettangolo buio e umido con un piccolo foro scavato nella roccia da cui s’intrufolava l’aria fredda. Le pareti erano coperte di tacche e di segni incisi dai vecchi inquilini. Alcuni scrivevano i loro nomi, delle date o lasciavano qualche indizio della loro esistenza. Uno si era messo a graffiare crocifissi nell’oscurità, ma il cielo non sembrava essersene accorto. Le sbarre che sigillavano la cella erano di ferro rugginoso e lasciavano un velo di ossido sulle mani.
Fermín si era accoccolato su una branda, cercando di coprire la propria nudità con un pezzo di stoffa cenciosa che, immaginò, faceva le veci di coperta, materasso e cuscino. La penombra aveva una sfumatura ramata, come il fiato di una candela smorta. Dopo un po’, gli occhi si abituavano a quelle tenebre perpetue e l’udito si affinava per captare lievi movimenti di corpi nella litania di echi e sgocciolii portata dalla corrente d’aria che filtrava dall’esterno.
Fu solo dopo aver trascorso lì la prima mezz’ora che Fermín si accorse che all’altra estremità della cella c’era una massa nell’ombra. Si alzò e vi si avvicinò lentamente per scoprire che si trattava di un sacco di tela sudicia. Il freddo e l’umidità avevano iniziato a inzuppargli le ossa, ma, sebbene l’odore di quel fagotto punteggiato di macchie scure non invitasse a congetture allegre, Fermín pensò che forse la sacca conteneva l’uniforme della prigione che nessuno si era preso la briga di consegnargli e, con un po’ di fortuna, qualche coperta con cui proteggersi dal freddo. Si accovacciò davanti alla sacca e sciolse il nodo che chiudeva una delle estremità.
Quando abbassò la tela, il bagliore delle candele che tremolavano nel corridoio gli svelò quello che per un attimo scambiò per il viso di un bambolotto, un manichino come quello che i sarti mettevano in vetrina per esibire i loro vestiti. Il puzzo e la nausea gli fecero capire che non si trattava di niente del genere. Coprendosi il naso e la bocca con una mano, tirò via il resto della tela e arretrò fino a scontrarsi con il muro della cella.
Il cadavere sembrava quello di un adulto dall’età indefinita, tra i quaranta e i settantacinque anni, che non doveva pesare più di cinquanta chili. Una lunga chioma e una barba bianca gli ricoprivano buona parte del torso scheletrico. Le mani ossute, con unghie lunghe e ritorte, sembravano le grinfie di un uccello. Aveva gli occhi aperti e le cornee gli si erano raggrinzite come frutti maturi. La bocca era socchiusa e la lingua, gonfia e annerita, era rimasta di traverso fra i denti marci.
«Gli tolga i vestiti prima che se lo portino via» disse una voce dalla cella sull’altro lato del corridoio. «Nessuno gliene darà altri fino al mese prossimo.»
Fermín sondò le ombre e percepì quei due occhi brillanti che lo osservavano dalla branda dell’altra cella.
«Niente paura, ché il poveretto non può più far male a nessuno» assicurò la voce.
Fermín annuì e si avvicinò di nuovo al sacco, chiedendosi come avrebbe portato a termine l’operazione.
«Mi scusi» mormorò al defunto. «Riposi in pace e che Dio l’abbia in gloria.»
«Era ateo» informò la voce dalla cella di fronte.
Fermín annuì e la fece finita con le cerimonie. Il freddo che inondava la cella arrivava fino alle ossa e sembrava suggerire che lì i gesti di cortesia fossero superflui. Trattenne il respiro e si mise all’opera. Gli indumenti avevano lo stesso odore del cadavere. Il rigor mortis aveva iniziato a estendersi lungo il corpo e il compito di svestirlo risultò più faticoso di quanto avesse immaginato. Spogliato il defunto dei suoi ornamenti, Fermín lo ricoprì di nuovo con il sacco, chiudendolo con un nodo da marinaio che nemmeno il grande Houdini sarebbe riuscito a sciogliere. Poi, indossati quei vestiti sfilacciati e pestilenti, Fermín si stese di nuovo sulla branda chiedendosi quanti utenti fossero già passati per quella stessa uniforme.
«Grazie» disse alla fine.
«Non c’è di che» rispose la voce dall’altro lato del corridoio.
«Fermín Romero de Torres, per servirla.»
«David Martín.»
Fermín corrugò le sopracciglia. Il nome gli risultava familiare. Rimase a rimestare tra echi e ricordi per quasi cinque minuti, poi gli si accese la lampadina e ricordò pomeriggi rubati in un angolo della biblioteca del Carmen a divorare una serie di libri con copertine e titoli forti.
«Martín, lo scrittore? Quello de La città dei maledetti
Un sospiro nell’ombra.
«In questo paese nessuno rispetta più gli pseudonimi.»
«Scusi l’i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il Cimitero dei Libri Dimenticati
  3. Frontespizio
  4. Il Prigioniero del Cielo
  5. Prima parte. Una favola natalizia
  6. Seconda parte. Dal mondo dei morti
  7. Terza parte. Rinascere
  8. Quarta parte. Sospetto
  9. Quinta parte. Il nome dell’eroe
  10. Epilogo. 1960
  11. Copyright