Noi che costruiamo gli uomini
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Noi che costruiamo gli uomini

Storie di donne che sono riuscite a credere in se stesse

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  1. 132 pagine
  2. Italian
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Noi che costruiamo gli uomini

Storie di donne che sono riuscite a credere in se stesse

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Rassegnate, prive di autostima, incapaci di affrancarsi dai tradizionali ruoli che la società ha sempre loro riservato: ecco l'autoritratto delle italiane emerso da un'indagine Nielsen, a pochi mesi dalla riuscitissima manifestazione "Se non ora quando" che aveva infuso nuova linfa e nuove speranze nel mondo femminile. Tra le interpellate, una su due afferma che le donne sono più inclini a occuparsi dei figli che a svolgere qualunque altro compito, una su tre è convinta che partecipare alla politica sia roba da uomini, una su quattro ritiene giusto che siano gli uomini a comandare e una su tre non ha nulla da obiettare sul fatto che guadagnino di più.
È possibile cambiare questa mentalità, che non solo influisce negativamente sulle prospettive professionali, ma può rendere le donne più vulnerabili di fronte a maltrattamenti e soprusi?
Luisella Costamagna ne è convinta e risponde raccontando le storie di dieci donne che ce l'hanno fatta, che hanno vinto le piccole o grandi sfide della loro vita e ora sono soddisfatte di se stesse. Prima ancora degli impedimenti esterni, le protagoniste di queste vicende hanno dovuto superare una ben più insidiosa e subdola barriera interiore, "la barriera del questo non posso farlo, o del questo non riuscirò mai a farlo ", una barriera per cui "non c'è legge, campagna di sensibilizzazione o quota rosa che tenga". La loro carta vincente è stata acquisire passo dopo passo, fra mille ostacoli, consapevolezza del proprio valore e della propria dignità. E, a prescindere dalle scelte fatte e dai risultati ottenuti, ora possono guardarsi allo specchio e dirsi: "Sì, sono proprio come mi volevo".
Sono donne che a volte hanno dovuto toccare il fondo prima di trovare la forza per riscattarsi, come Bruna, vittima delle violenze, fisiche e psicologiche, di un marito oppressore; o Patrizia, faticosamente risalita dall'inferno della tossicodipendenza e della detenzione. Donne che hanno ribaltato un destino che sembrava già scritto, come Ida, magistrata di altissimo livello a dispetto di un'infanzia segnata da malattia e povertà. O semplicemente donne alla ricerca della propria dimensione ideale, come Alessandra, che ha lasciato un incarico di dirigente d'azienda all'apice della carriera per fondare una società tutta al femminile in cui il tempo del lavoro sia conciliabile con quello della famiglia; o Sara, giovane ricercatrice innamorata della propria professione, che sogna di creare un museo dei bambini e non ha permesso alla precarietà contrattuale di diventare precarietà progettuale.
Noi che costruiamo gli uomini è un appello appassionato rivolto a tutte le donne, perché abbiano il coraggio di mettersi alla prova, sfidare i luoghi comuni, essere fino in fondo padrone delle proprie scelte e del proprio destino, indipendentemente dai traguardi che si prefiggono: realizzarsi, infatti, "non significa per forza diventare manager, o ministri della Repubblica o grandi scrittrici. Significa soltanto fare qualcosa che pensavi di non poter fare ".

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Informazioni

«Lo sai che sei una donna in gamba?»

Difficile avere stima di se stesse se non si riceve stima dagli altri. Più che difficile, impossibile. Può sembrare banale, ma non lo è per tutti. In questo senso una delle imprese più difficili, credo, è riuscire a camminare in equilibrio.
Da una parte c’è quello che tu pensi di te stessa, quello che vuoi e che sei riuscita a ottenere, quello che ti pare irraggiungibile, quello che ti sembra alla tua portata ma non per il momento, quello che ti puoi permettere e quello che ti sfugge e forse ti sfuggirà sempre. Da una parte ci sei tu che ti giudichi – o almeno ti descrivi.
Dalla parte opposta ci sono gli altri. Quello che pensano di te. Quello che ti dicono esplicitamente e – peggio – quello che non ti dicono, e ti fanno semplicemente capire. Gli altri che giudicano quello che fai, e a volte quello che sei. Passo dopo passo.
L’impresa difficile è mantenersi in equilibrio. Non cadere vittime di se stesse, non farsi soverchiare dalle proprie manie di perfezione o, al contrario, dai propri disfattismi. E però guardarsi, anche, dall’essere succubi di quello che gli altri pensano di noi.
Essere capaci di dire: «Non ti piaccio? Fa lo stesso». E però anche: «Non mi piaccio? Nessun problema, mi do tempo. Mi piacerò, ci sto lavorando».
Ma che succede se una persona che ci sta accanto, anzi la persona che ci sta accanto, e che dovrebbe capirci, ascoltarci, venirci incontro, non solo non ci stima, ma addirittura cerca di farci sentire «nulla»?
Sembra impossibile, il più delle volte sicuramente è incomprensibile. Un uomo che sta con una donna per tormentarla, per passare le sue giornate ad aggredirla, a criticarla. Ad annullarla.
La scelta logica sarebbe lasciarla. Dirle semplicemente «non mi piaci» e andarsene. Ma restare lì, a un palmo da lei, per ridurla ai minimi termini?
È una delle peggiori forme di vigliaccheria che possano esistere. Un’affermazione di sé che passa attraverso l’annullamento dell’altro. Anche perché dall’umiliazione, dall’offesa, dall’insulto si passa rapidamente alla violenza fisica, come tristemente ci racconta ogni giorno la cronaca.
Se ti considero «nulla», allora quando ti prendo a male parole non sto facendo nulla. E quando ti metto le mani addosso, in realtà non sto picchiando nessuno.
È difficile liberarsi dalla violenza di qualcuno a cui vuoi bene. Perché oltre alla sua costrizione fisica e psicologica, c’è anche la barriera dentro di te. Quella domanda che ti ossessiona:
«Come posso avere visto qualcosa di buono in questa persona? È impossibile che io mi sia sbagliata».
E si resta lì, in attesa che il qualcosa di buono torni a galla. Perché se non lo fa, magari l’errore è nostro. Magari la colpa è nostra: non sappiamo tirarlo fuori, quel buono. Siamo inadeguate.
Magari, in qualche modo, quella violenza è meritata.
Può continuare all’infinito. A meno che qualcosa o qualcuno, un giorno, non ci diano una spinta e non ci facciano scavalcare quella barriera. Com’è accaduto a Bruna.
***
«Quando ho visto la mia prima busta paga mi sono detta: ammazza, faccio una cosa che mi piace… e mi pagano pure!»
Bruna ha quasi cinquant’anni e dirige da anni un centro antiviolenza per donne in una grande città. È alta, mora, e sul suo volto ci sono tutti gli spigoli della sua storia e tutta la bellezza di come è andata a finire.
La prima volta che ha messo piede nel centro antiviolenza, Bruna stava dall’altra parte. Dalla parte di quelle donne avvilite e terrorizzate e piene di sensi di colpa che hanno appena trovato il coraggio di denunciare ciò che stanno passando. Botte, insulti, minacce, violenze.
Non era mica una missione, la sua. Non aveva dentro nessun sacro fuoco. Del tipo mi impegnerò contro la violenza sulle donne, questo è il mio obiettivo, la mia missione. No, è stata la vita a portarcela, molto più semplicemente.
E non ha mai neppure pensato al centro antiviolenza come a una carriera. Piuttosto il punto di arrivo di una strada: la strada su cui è stata costretta a camminare.
Se deve raccontare come tutto è cominciato, a Bruna viene in mente quando era ragazzina.
«Ero brutta come la fame» dice ridendo «e nessuno mi si filava.»
Nella città dov’è nata, nessuno la considerava. Quando andava nel paesino dei suoi, al Sud, tutto cambiava. Lei era quella che veniva dalla Grande Città, e i ragazzini la guardavano come una bestia rara.
Quanto le piaceva andare al paese. Non si sentiva più un cesso, come si era abituata troppo in fretta (e senza motivo) a rappresentarsi, ma si sentiva carina; le veniva perfino voglia di tagliarsi i capelli, di curarsi, di cambiare gli occhiali comprandosi – addirittura – un paio di Lozza all’ultimo grido.
Tra tutti quelli che la corteggiano, Bruna ne nota subito uno. Capelli biondi, occhi azzurri, modi gentili. Non c’è dubbio, è il Principe Azzurro. O almeno lo sembra. A ogni modo, è lei la prima a chiamarlo così. E il corteggiamento non dura a lungo: i due si fidanzano, lei quattordicenne lui sedicenne. E, vista l’assiduità e l’intensità, fin da subito, più che un gioco da adolescenti sembra una grande storia d’amore. Di quelle vere.
Come da copione, il padre di Bruna va su tutte le furie. L’idea che la sua bambina abbia trovato così presto il suo Principe Azzurro non gli piace per niente, e ne fa una tragedia. Bruna risponde con una contro-tragedia; e visto che non è tipo da mezze misure, decide di fare le cose in grande e si imbottisce di certe pillole del nonno. Ancora oggi non ha la minima idea di che pillole fossero. Quello che conta è che lo scopo è raggiunto: suo padre si spaventa terribilmente e, grazie alla paura, capisce quanto sia importante per lei quella «cosa». Si fa forza, si fa anche un po’ di violenza, e pronuncia una frase storica:
«Va bene. Ma allora devi fidanzarti in casa».
Detto fatto. Anche se lui vive al paese e lei nella grande città. Anche se lui frequenta l’istituto industriale e lei il liceo.
E tutto perché il Principe Azzurro è uno del paese, e il paese è l’unico luogo dove Bruna sente di non essere una qualunque, una signorina Nessuno, ma ha un ruolo, e interessa a qualcuno. Mica poco.
Con Principe Azzurro Bruna scopre tutto: dal primo bacio alla prima volta a letto. Tutto di lui le pare magnifico, ogni secondo con lui le pare pura gioia.
Eppure, se solo si fermasse un attimo a pensarci, si renderebbe conto di non conoscerlo. Chi è quel ragazzo così biondo e così sicuro di sé? Bruna non conosce le sue idee, i suoi gusti, non è mai andata con lui a fare una gita, non ha mai condiviso praticamente nulla con lui, se non quelle brevi visite in città o al paese.
A un certo punto rimane incinta. E la cosa la spiazza, perché – per uno di quei folli percorsi mentali che sono la materia di cui è fatta l’adolescenza – da tempo si era convinta di essere sterile. Sembrava evidente, dal momento che faceva l’amore con il suo Principe Azzurro, non prendeva nessuna precauzione e non succedeva niente.
E invece. Quinta liceo, diciotto anni, la maturità in vista, lui al servizio militare. Niente mestruazioni. Bruna non è sterile; Bruna è incinta. Ma non vuole diventare mamma. Decide di abortire.
E torna alla fiaba.
Dopo l’«incidente di percorso», la storia continua più intensa di prima. Per andare a trovare il suo Principe in Friuli, dormendo in un albergo fetido senza una lira in tasca, e mangiando i panini che lui le porta dalla caserma, racconta ogni tipo di balla al padre: perfino un fantomatico corso di stenodattilografia a Caserta. Per stare con lui un giorno in più marina la scuola, scappa, inventa storie. Farebbe qualunque cosa per lui.
Perché lui è il massimo.
Salvo un difetto: quando sente la sorella minore dire che vorrebbe andarsene dal paese, e quando la vede farsi amici a Santa Maria Capua Vetere, gente che sta meglio di loro – perché lei aspira a qualcosa di più – il Principe si arrabbia. E la tratta male. Molto male, certe volte. Al punto da alzare le mani.
«Lei deve stare con le persone che le vogliono bene, con la famiglia,» diceva «non con quelli che c’hanno i soldi.»
E con questa scusa, il voler bene, la paragonava a una prostituta, e imponeva su di lei la sua autorità di fratello-padrone. Come se il voler bene gli desse diritto di decidere della sua vita, di sovraintendere alle sue scelte.
Bruna non viene neanche sfiorata dall’idea che quel tipo di comportamento, un giorno, potrebbe coinvolgere anche lei. Bruna guarda Principe Azzurro e non ha dubbi: lui la vede diversa, vede in lei dei valori, non le farebbe mai una cosa del genere. Figuriamoci. Certo, c’erano stati episodi strani: tipo quella volta che lui, in autogrill, arrabbiato per una perdita di tempo, le aveva dato uno spintone mentre scendevano le scale, rischiando di farla cadere. Ma era stato un attimo, pensa Bruna. Un attimo di rabbia. Può succedere a tutti, non è il caso di dargli peso. Cos’è un attimo sbagliato di fronte a un mare di attimi perfetti?
Nonostante l’aborto, Bruna e Principe Azzurro continuano a fare l’amore liberamente, senza precauzioni. Perché lui sostiene con convinzione che «certe cose le usano le donne di strada». Così lei, a vent’anni, rimane incinta per la seconda volta. Ma la gravidanza s’interrompe spontaneamente. Non s’interrompono, però, le abitudini dei due: sicché un anno dopo c’è di nuovo un pupo in arrivo. Bruna ha finito il liceo, si è iscritta a Giurisprudenza, dà una mano allo zio materno che ha un bar, e insomma le pare di essere ormai abbastanza grande. Sarà mamma.
Qualcuno prova a sconsigliarla, con una domanda tutto sommato ragionevole: «Come hai intenzione di campare?». Nessun problema, ribatte lei: accanto all’appartamento dei suoi genitori ce n’è un altro, sempre di loro proprietà. Basta sfrattare gli inquilini e il gioco è fatto. Lei e Principe Azzurro si sposano. Una cosa naturale.
Quello che ancora non sa è che, da quel giorno, lui – ora sei mia moglie – comincerà a considerarla come una cosa sua.
Si chiama senso di possesso; ma per ora se ne sta dietro le quinte, discreto, silente.
Anche perché lui è sempre in giro: nel frattempo si è messo a suonare il basso in un complesso e batte tutti i locali del Sud, sera dopo sera. Fanno cover di gruppi italiani, e pure di qualche straniero, e hanno fissato un sacco di date. Così quando Madre Natura, una mattina che Bruna è al paese, decide che il bimbo deve venire al mondo nonostante sia parecchio in anticipo, Principe Azzurro non c’è. Sta suonando. E Bruna, con la sua emorragia, deve vedersela da sola.
Ospedale di primo mattino. Il dottore non ha dubbi: bisogna fare il cesareo. Poi viene il pomeriggio e lui smonta, perché il suo turno è finito, e arriva un collega. Neppure lui ha dubbi: ma quale cesareo. Non se ne parla nemmeno. Si va in sala parto. Bruna non ci capisce più niente. Fa quello che le dicono. Il bimbo, di soli sei mesi, nasce in tarda serata. E muore poco prima dell’alba.
Eccola, Bruna, nell’agosto del 1983. Sposata per modo di dire, sola, madre di un esserino vissuto una sola notte. Vuole vederlo, ma glielo impediscono. Vuole andare al funerale ma non può, deve stare a letto. Continua a tornarle in mente la sera prima, quando si era avvicinata all’incubatrice per toccarlo, e all’ultimo momento si era fermata.
«Meglio di no. Magari gli faccio male» si era detta.
E adesso è troppo tardi.
In mattinata, finalmente, arriva il Principe. Se c’è da andare al cimitero, nessun problema, se ne occupa lui. Ma è come se stesse concedendo un favore, e in realtà fosse da un’altra parte. Bruna gli parla, prova a fargli capire quanto sia sconvolta, cerca la sua vicinanza, ma senza risultati. Non si è mai sentita tanto sola.
Ma forse non è che un momento passeggero. Un altro. Bruna non pensa che forse potrebbe – o dovrebbe – riflettere su quel matrimonio avventato e sempre più deludente. Continua a portarsi dietro la soggezione che s’impadronisce di lei ogni volta che si trova davanti Principe Azzurro. Lei che con le amiche, a scuola, era un ciclone, sempre pronta a scherzare, a fare casino, appena è con lui si sente una frana. Sempre inadeguata. Sempre un passo indietro. Come se stare con lei fosse una concessione, un dono che Principe Azzurro le elargisce in via del tutto eccezionale. Forse Bruna potrebbe capire che non è esattamente così; o forse certe cose le capisci soltanto con l’aiuto di qualcun altro.
Quel che è certo è che, qualche mese dopo, Bruna è di nuovo incinta. E la gravidanza, questa volta, è a rischio. Tocca stare otto mesi a letto. L’unica è trasferirsi dalla mamma, nell’appartamento accanto. Anche Principe Azzurro si sposta in città, per farle compagnia; tanto il gruppo musicale si è già sciolto, il sogno di sfondare è durato ben poco. Solo che lì, in città, non ha niente da fare. Al paese, almeno, potrebbe lavorare con il cognato, che compra (non si sa bene dove) biancheria a uno e la rivende a cento; ma no, si trasferisce lì, per starle vicino, senza un lavoro. Sì, finalmente le è accanto; ma quello starle vicino, di tanto in tanto, diventa tensione.
Quando il bimbo nasce, lui decide che non può continuare a starsene con le mani in mano: deve lavorare. Proclama che vuole tornare al paese a vendere la biancheria, e portare Bruna con sé. E lo fa. Vanno a vi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Noi che costruiamo gli uomini
  3. Introduzione
  4. «Lo sai che sei una donna in gamba?»
  5. La ragazza che non somigliava a nessuno
  6. «È andata quasi bene»
  7. Il giusto equilibrio
  8. «Non puoi capire»
  9. Rinascere sempre
  10. La testa sulle spalle
  11. «Mi sono tolta la maglia della salute»
  12. «Scusi, ma il notaio non c’è?»
  13. Andare lontano
  14. Ringraziamenti
  15. Copyright