Marina
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Marina

  1. 324 pagine
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Informazioni sul libro

Barcellona, fine degli anni Settanta. Óscar Drai è un giovane studente che trascorre i faticosi anni della sua adolescenza in un cupo collegio della città catalana. Colmo di quella dolorosa energia così tipica dell'età, fatta in parti uguali di sogno e insofferenza, Óscar di tanto in tanto ama allontanarsi non visto dalle soffocanti mura del convitto, per perdersi nel dedalo di vie, ville e palazzi di quartieri che trasudano a ogni angolo storia e mistero. In occasione di una di queste fughe il giovane si lascia rapire da una musica che lo porta fino alle finestre di una casa. All'interno, su un tavolo, un antico grammofono suona un'ammaliante canzone per voce e pianoforte; accanto, un vecchio orologio da taschino dal quadrante scheggiato. Óscar stesso, nel momento in cui sottrae l'oggetto e scappa, è sopraffatto da un gesto che risulta inspiegabile a lui per primo. Qualche giorno dopo però tutto gli apparirà tanto chiaro quanto splendidamente misterioso. Tornando sui suoi passi per restituire il maltolto, infatti, Óscar incontra la giovane Marina e il suo enigmatico padre, il pittore Germán. E niente per lui sarà più come prima. Il suo innato amore per il mistero si intreccerà da quel momento ai segreti inconfessabili del passato di una famiglia e di una Barcellona sempre più amata: segreti che lo spingeranno non solo alla più lunga fuga mai tentata dal detestato collegio, ma anche verso l'irrevocabile fine della sua adolescenza.
Scritto prima de L'ombra del vento e Il gioco dell'angelo, romanzi che hanno consacrato Zafón come uno degli scrittori spagnoli più popolari di tutti i tempi, di essi Marina anticipa i grandi temi: gli enigmi del passato, l'amore per la conoscenza, la bellezza gotica e senza tempo di Barcellona.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852027383

1

Alla fine degli anni Settanta Barcellona era un’illusione di vicoli e viali in cui si poteva viaggiare a ritroso nel tempo di trenta o quarant’anni semplicemente oltrepassando la soglia di una portineria o di un caffè. Il tempo e la memoria, la storia e la finzione, si fondevano in quella città stregata come acquerelli sotto la pioggia. Fu lì, tra quelle strade ormai scomparse, che cattedrali e palazzi usciti da un libro di fiabe architettarono lo scenario di questa storia.
All’epoca ero un quindicenne che ammuffiva tra i muri di un collegio con il nome di un santo alle falde della collina di Vallvidrera. In quei giorni il quartiere di Sarriá aveva ancora l’aspetto di un paesino arenato sulle rive di una metropoli modernista. Il collegio sorgeva in cima a una strada che si inerpicava dal Paseo de la Bonanova. La sua monumentale facciata faceva pensare più a un castello che a una scuola. La spigolosa sagoma color argilla era un rompicapo di torri, archi e ali tenebrose.
Il collegio era circondato da una cittadella di giardini, fontane, stagni paludosi, cortili e boschi di pini incantati. Tutt’intorno, cupi edifici ospitavano piscine velate da vapori spettrali, palestre stregate dal silenzio e lugubri cappelle in cui le immagini dei santi sorridevano al riflesso dei ceri. Il collegio aveva quattro piani, senza contare le due cantine e una mansarda di clausura in cui alloggiavano i pochi sacerdoti che ancora insegnavano. Le stanze dei convittori si affacciavano sui cavernosi corridoi del quarto piano, perennemente sprofondati nella penombra e avvolti da echi spettrali.
Passavo i giorni a sognare a occhi aperti nelle aule di quell’immenso castello, in attesa del miracolo che si ripeteva ogni giorno alle cinque e venti del pomeriggio. A quella magica ora il sole rivestiva di oro liquido le alte vetrate. Suonava la campanella che annunciava la fine delle lezioni e noi interni avevamo quasi tre ore di libertà prima della cena nel grande refettorio. In teoria, avremmo dovuto destinare quel tempo allo studio e alla riflessione spirituale. Non ricordo di avere mai dedicato a queste nobili attività un solo giorno di quelli passati in collegio.
Era il momento che preferivo. Eludendo il controllo del portiere, uscivo a esplorare la città. Presi l’abitudine di rientrare in collegio giusto in tempo per la cena, camminando per strade e viali mentre tutt’intorno a me calava l’oscurità. Quelle lunghe passeggiate mi davano un’inebriante sensazione di libertà. La mia immaginazione volava al di sopra dei palazzi e toccava il cielo. Per qualche ora le strade di Barcellona, il collegio e la lugubre stanza al quarto piano scomparivano. Per qualche ora, con in tasca soltanto un paio di monete, mi sentivo l’individuo più fortunato dell’universo.
Spesso il mio girovagare mi portava dalle parti del deserto di Sarriá, nient’altro che una specie di bosco sperso in terra di nessuno. La maggior parte delle antiche residenze signorili che un tempo avevano punteggiato il tratto settentrionale del Paseo de la Bonanova era ancora in piedi, anche se quasi in rovina. Le strade attorno al collegio tracciavano i contorni di una città fantasma. Muri ricoperti d’edera impedivano l’accesso a giardini selvatici in cui s’innalzavano ville monumentali. Palazzi invasi dalle erbacce e dall’abbandono, su cui la memoria sembrava galleggiare come nebbia che non vuole dissiparsi. Parecchie di queste ville attendevano solo di essere demolite e altrettante erano state saccheggiate nel corso degli anni. Alcune, tuttavia, erano ancora abitate.
I loro occupanti erano i discendenti dimenticati di stirpi decadute. Famiglie i cui nomi comparivano sulle prime pagine di “La Vanguardia” quando i tram suscitavano ancora la diffidenza delle invenzioni moderne. Ostaggi del loro passato moribondo che si rifiutavano di abbandonare le navi alla deriva. Temevano che, se avessero osato mettere piede oltre i confini delle loro cadenti proprietà, i loro corpi si sarebbero dissolti come cenere al vento. Come prigionieri, languivano alla luce dei candelabri. A volte, quando passavo in fretta davanti a quelle cancellate arrugginite, mi sembrava di cogliere sguardi sospettosi dietro le imposte scolorite.
Un pomeriggio, verso la fine di settembre del 1979, decisi di avventurarmi a casaccio per uno di quei viali disseminati di ville moderniste, del quale fino ad allora non mi ero accorto. La strada descriveva una curva che terminava davanti a una cancellata simile a molte altre, oltre la quale si scorgevano i resti di un vecchio giardino segnato da decenni di abbandono. Tra la vegetazione si notava la sagoma di una villa a due piani. La sua cupa facciata si ergeva dietro una fontana decorata con statue che il tempo aveva rivestito di muschio.
Era l’imbrunire e quel luogo mi sembrò un po’ sinistro. Lo avvolgeva un silenzio mortale, incrinato solo da una leggera brezza che mi sussurrava senza parole un avvertimento. Capii di essere finito in una delle zone “morte” del quartiere. Pensai che fosse meglio tornare sui miei passi e rientrare in collegio. Ero combattuto tra il fascino morboso di quel luogo dimenticato e il buonsenso, quando scorsi due brillanti occhi gialli che luccicavano nella penombra, fissi su di me come daghe. Deglutii.
Il mantello grigio e vellutato di un gatto si stagliava immobile davanti al cancello della villa. Un passerotto agonizzava tra le sue fauci. Un sonaglio argentato pendeva dal collo del felino. I suoi occhi mi studiarono per qualche secondo, poi il gatto si voltò e s’infilò tra le sbarre di metallo. Lo vidi scomparire nell’immensità di quell’eden maledetto portando il passerotto verso il suo ultimo viaggio.
L’apparizione di quella piccola fiera altezzosa e sprezzante mi intrigò. A giudicare dal mantello lustro e dal sonaglio, aveva un padrone. Forse la villa ospitava qualcosa di più concreto dei fantasmi di una Barcellona scomparsa. Mi avvicinai e appoggiai la mano sulle sbarre del cancello. Il metallo era freddo. Le ultime luci del crepuscolo infuocavano le tracce delle gocce di sangue lasciate dal passero in quella selva. Perle scarlatte che tracciavano un sentiero nel labirinto. Deglutii di nuovo. O meglio, ci provai. Avevo la bocca secca. Il cuore, come se sapesse qualcosa che io ignoravo, mi batteva nelle tempie all’impazzata. Fu allora che sentii il cancello cedere sotto il mio peso e capii che era aperto.
Quando feci il primo passo verso l’interno, la luna illuminava il pallido volto degli angeli di pietra della fontana. Mi osservavano. I piedi mi si erano inchiodati a terra. Mi aspettavo che quelle figure inanimate saltassero giù dai loro piedistalli e si trasformassero in demoni armati di artigli da lupo e lingue da serpente. Non accadde nulla di tutto ciò. Respirai a fondo, esaminando la possibilità di zittire la mia immaginazione o, meglio ancora, di abbandonare la mia timida esplorazione della proprietà. Ancora una volta, qualcun altro decise per me. Un suono celestiale invase le ombre del giardino come fosse un profumo. Sentii le variazioni di quel sussurro cesellare le note di un’aria accompagnata al pianoforte. Era la voce più bella che avessi mai ascoltato.
La melodia mi era familiare, ma non riuscii a riconoscerla. La musica proveniva dalla casa. Seguii la sua traccia ipnotica. Lame di luce vaporosa filtravano dalla porta socchiusa di una veranda a vetrate. Riconobbi gli occhi del gatto, fissi su di me dal davanzale di un finestrone del primo piano. Mi avvicinai alla veranda illuminata da cui proveniva quel suono indescrivibile. La voce di una donna. Il tenue alone di cento candele palpitava all’interno. Intravidi il trombone dorato di un vecchio grammofono su cui girava un disco. Senza pensare a quello che facevo, mi sorpresi a entrare nella stanza, soggiogato dalla voce di quella sirena prigioniera del grammofono. Sopra al tavolo su cui era appoggiato l’apparecchio, notai un oggetto brillante e rotondo. Era un orologio da taschino. Lo presi e lo esaminai alla luce delle candele. Le lancette erano ferme e il quadrante scheggiato. Mi sembrò d’oro e vecchio almeno quanto la casa in cui mi trovavo. Un po’ più in là c’era una vecchia poltrona rivolta verso un camino sopra il quale era appeso un ritratto a olio di una donna vestita di bianco. I suoi grandi occhi grigi, tristi e senza fondo, dominavano la sala.
Improvvisamente l’incantesimo andò in pezzi. Una sagoma si alzò dalla poltrona e si girò verso di me. Lunghi capelli bianchi e due occhi ardenti come braci luccicarono nell’oscurità. Riuscii solo a vedere due enormi mani bianche che si allungavano verso di me. In preda al panico, mi misi a correre verso la porta, inciampai nel grammofono e lo feci cadere a terra. Sentii la puntina che lacerava il disco. La voce celestiale si spezzò con un gemito infernale. Mi precipitai in giardino, sentendo quelle mani che mi sfioravano la camicia, e lo attraversai con le ali ai piedi e il terrore che mi bruciava in ogni poro. Non mi fermai nemmeno per un attimo. Corsi e corsi senza mai voltarmi indietro, fin quando una fitta di dolore mi trapanò il fianco e capii che a stento riuscivo a respirare. A quel punto ero zuppo di sudore e le luci del collegio brillavano a trenta metri da me.
Mi intrufolai da una porta vicina alle cucine che non era mai sorvegliata e mi trascinai fino alla mia stanza. Gli altri dovevano essere in refettorio da un bel pezzo. Mi asciugai il sudore dalla fronte, e a poco a poco il cuore recuperò il suo ritmo naturale. Iniziavo a calmarmi quando qualcuno bussò alla porta.
«Óscar, è ora di scendere a cena» mi avvertì uno dei miei tutori, padre Seguí, un gesuita razionalista che detestava dover fare il poliziotto.
«Vengo subito, padre» risposi. «Un secondo.»
Mi infilai velocemente la giacca di rigore e spensi la luce della stanza. Dalla finestra si vedeva lo spettro della luna che sorgeva su Barcellona. Solo allora mi accorsi che nella mano stringevo ancora l’orologio d’oro.

2

Nei giorni che seguirono, quel maledetto orologio e io diventammo compagni inseparabili. Lo portavo ovunque, lo tenevo addirittura sotto il cuscino mentre dormivo, per paura che qualcuno lo vedesse e mi chiedesse dove lo avevo preso. Non avrei saputo cosa rispondere. “Il fatto è che non l’hai trovato; l’hai rubato” mi sussurrava una voce accusatrice. “Il termine tecnico è furto con violazione di domicilio” aggiungeva la voce che, per qualche strana ragione, assomigliava in modo sospetto a quella dell’attore che doppiava Perry Mason.
Di notte aspettavo pazientemente che i miei compagni si addormentassero per esaminare il mio tesoro segreto. Quando calava il silenzio lo osservavo alla luce di una pila. Nemmeno tutti i sensi di colpa del mondo sarebbero riusciti a intaccare il fascino esercitato su di me dal bottino della mia prima esperienza nel “crimine disorganizzato”. L’orologio era pesante e sembrava d’oro massiccio. Il quadrante scheggiato faceva pensare a un colpo o a una caduta. Immaginai che fosse stato quell’impatto a rompere il meccanismo e a congelare le lancette sulle sei e ventitré. Una condanna per l’eternità. Sul retro si leggeva:
Per Germán, in cui parla la luce.
K.A.
19-1-1964
Mi venne in mente che quell’orologio doveva valere un mucchio di soldi, e i rimorsi non tardarono ad assalirmi. Quelle parole incise mi facevano sentire un ladro di ricordi.
Un giovedì di pioggia decisi di condividere il mio segreto. Il migliore amico che avevo in collegio era un ragazzo dagli occhi penetranti e dal temperamento nervoso che insisteva a farsi chiamare JF, anche se quelle iniziali avevano poco o nulla a che vedere con il suo vero nome. JF aveva un animo da poeta libertario e un’intelligenza così affilata che finiva spesso per tagliarcisi la lingua. Era debole di costituzione e bastava che qualcuno pronunciasse la parola microbo nel raggio di un chilometro perché lui si convincesse di avere preso un’infezione. Un giorno cercai su un vocabolario la parola ipocondriaco e gli fotocopiai la pagina.
«Non so se lo sapevi, ma la tua biografia compare nel Dizionario della Real Academia» gli annunciai.
Diede un’occhiata alla fotocopia e mi fulminò con lo sguardo.
«Prova a cercare alla “i” di idiota e vedrai che non sono l’unico a essere famoso» replicò.
Quella mattina, nell’intervallo di mezzogiorno, io e JF ci intrufolammo nel tenebroso salone dell’aula magna. I nostri passi nel corridoio centrale risvegliavano l’eco di centinaia di ombre che camminavano in punta di piedi. Due fasci di luce metallica cadevano sul palcoscenico polveroso. Ci sedemmo in mezzo a quel chiarore, davanti alle file di sedili vuoti che si fondevano con la penombra. Il sussurro della pioggia graffiava i vetri del primo piano.
«Allora?» sbottò JF. «Perché tutto questo mistero?»
Senza dire una parola, tirai fuori l’orologio e glielo diedi. JF aggrottò le sopracciglia e soppesò l’oggetto. Lo valutò con attenzione per qualche istante prima di restituirmelo, guardandomi intrigato.
«Che te ne pare?» chiesi.
«Mi sembra un orologio» rispose JF. «Chi è questo Germán?»
«Non ne ho la più pallida idea.»
Gli raccontai nei dettagli l’avventura che avevo vissuto qualche giorno prima in quella villa scalcinata. JF ascoltò attentamente il resoconto dei fatti con la pazienza e l’attenzione quasi scientifica che lo caratterizzavano. Finito il racconto, rifletté a lungo prima di esprimere le sue impressioni.
«In pratica, lo hai rubato» concluse.
«Non è questo il punto» obiettai.
«Bisognerebbe sentire cosa ne dice quel Germán.»
«Quel Germán probabilmente è morto da anni» suggerii senza troppa convinzione.
JF si grattò il mento.
«Mi domando cosa prevede il Codice Penale per il furto premeditato di oggetti personali e orologi con dedica…» insisté il mio amico.
«Ma quale premeditazione» protestai. «È successo tutto all’improvviso, senza che avessi il tempo di riflettere. Quando mi sono accorto di avere in mano l’orologio, era troppo tardi. Al posto mio avresti fatto così anche tu.»
«Al posto tuo avrei avuto un infarto» precisò JF, che era più uomo di parole che d’azione. «Ammesso che fossi stato così pazzo da intrufolarmi in quella casa solo per seguire un gatto luciferino. Chissà che razza di germi si possono prendere da una bestia così.»
Rimanemmo in silenzio per qualche istante, ascoltando l’eco lontana della pioggia.
«Comunque» concluse JF, «quel che è fatto è fatto. Non vorrai tornare in quella casa, vero?»
Sorrisi.
«Da solo, no.»
Il mio amico sgranò gli occhi.
«Ah, no. Scordatelo.»
Quel pomeriggio, finite le lezioni, io e JF ce la svignammo dalla porta delle cucine e imboccammo la misteriosa strada che portava alla ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Marina
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Capitolo 11
  15. Capitolo 12
  16. Capitolo 13
  17. Capitolo 14
  18. Capitolo 15
  19. Capitolo 16
  20. Capitolo 17
  21. Capitolo 18
  22. Capitolo 19
  23. Capitolo 20
  24. Capitolo 21
  25. Capitolo 22
  26. Capitolo 23
  27. Capitolo 24
  28. Capitolo 25
  29. Capitolo 26
  30. Capitolo 27
  31. Capitolo 28
  32. Epilogo
  33. Copyright