Quando ci batteva forte il cuore
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Quando ci batteva forte il cuore

  1. 224 pagine
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Quando ci batteva forte il cuore

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Pola 1945. La Storia è crudele con gli italiani dell'Istria, della Dalmazia e di Fiume: se nel mondo si festeggia la pace, qui le loro sofferenze non hanno tregua. Nives, maestra di scuola, si batte con grande coraggio nella difesa dei confini della patria. Sergio, suo figlio, ha sei anni, è cresciuto con lei, ha visto il padre per la prima volta soltanto al suo ritorno dalla guerra. Per lui prova soggezione, quasi diffidenza. Intanto la politica internazionale, con l'annessione dell'Italia orientale alla Jugoslavia, travolge l'esistenza degli istriani. Nel turbine di questa tragedia che sconvolge amori e amicizie, Flavio e Sergio, padre e figlio, impareranno a conoscersi, suggellando un'affettuosa dolcissima alleanza che li aiuterà, dopo imprevedibili avventure e grandi sofferenze, a costruire una nuova vita insieme. Nelle pagine di questo romanzo, la rigorosa ricostruzione di un periodo terribile e ancora poco conosciuto del Novecento si accompagna a una storia intima, delicata, toccante: un affresco importante, che illumina il dramma di un popolo e insieme racconta tutta l'emozione di un grande amore tra padre e figlio.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852030222

Stefano Zecchi

QUANDO CI BATTEVA
FORTE IL CUORE

Romanzo

Mondadori

QUANDO CI BATTEVA FORTE IL CUORE

A Federico per ricordare.
La vera e grande infedeltà
è dimenticare.

1

Mio padre mi ha insegnato a fischiare. Ci mettevo tutto il mio impegno per fargli vedere che avevo capito la lezione, come se a scuola mi stesse interrogando la maestra. Ma non c’era una volta che il cane mi ubbidisse. Correva via, indifferente al mio sgradevole sibilo, quasi volesse dirmi che il fischio, a cui dava retta, era un’altra cosa.
Mio padre sì che sapeva fischiare, e con lui Tommi non sgarrava: sembrava ipnotizzato dai suoi segnali. Io ce la mettevo davvero tutta: osservavo con attenzione per scoprire come lui serrava le labbra, come ci appoggiava le dita e modulava il soffio. Piccole variazioni che gli permettevano un’infinità di sfumature: il suo fischio era autorevole, suadente, ironico. Gli era possibile tutto, come se per lui cambiare il tono della voce o la modulazione dei sibili non facesse differenza. Provavo a imitarlo, inutilmente. Era una sofferenza: mi pareva inverosimile non riuscire in una cosa tanto semplice. Lo invidiavo per quella sua abilità, più spesso lo detestavo. Ancora non sapevo che i suoi fischi mi avrebbero salvato la vita.
Nel ’43, negli anni in cui a Pola la guerra si stava accanendo su di noi, preferivo stare con la mamma: mi aiutava a fare i compiti, mi accompagnava a scuola, soprattutto le confidavo i miei segreti, i miei desideri, i miei timori, sicuro di ricevere in cambio un aiuto, un consiglio. Al contrario, papà mi metteva soggezione, e con lui non mi sentivo mai all’altezza delle sue aspettative. E poi c’era quel maledetto fischio, che, riuscendomi così male, era la prova inconfutabile – ne ero convinto – della mia inettitudine ai suoi occhi.
Come se non bastasse, avevo anche il sospetto di non essergli molto simpatico. Ma non era colpa né mia né sua. Quando se ne andò in guerra ero appena nato, e ritornato a casa aveva ben altro per la testa che cercare l’affetto di suo figlio. E, d’altra parte, neppure io gli avevo fatto grandi feste, al suo arrivo.
Era domenica, la mamma se ne stava in cucina a preparare le frittelle, e io, trovato un po’ di spazio sul tavolo ingombro di piatti e padelle, le facevo compagnia disegnando. Tra il profumo del burro che rosolava sul fuoco le raccontavo di Gino, un mio compagno che la maestra aveva messo in castigo dietro la lavagna perché aveva mollato un pugno a Giacomo, quando sentimmo Rosi, la nostra vicina, chiamare «Nives, Nives» con gran concitazione. La mamma corse alla finestra, preoccupata che fosse accaduto qualcosa di grave, e in quello stesso momento suonò il campanello di casa. Immaginando che la mamma si sarebbe messa a chiacchierare con la Rosi, andai io ad aprire la porta. Mi trovai davanti un uomo così sporco e miserabile da farmi paura. Aveva il cappotto stracciato sulla manica e coperto di fango, le scarpe erano rotte, perfino diverse tra loro, e poi puzzava in modo così disgustoso che pareva fosse entrata in casa una capra.
È finita la festa, addio frittelle, pensai, ritornando al tavolo per continuare a disegnare, lasciando quell’uomo sull’uscio. Ero rassegnato, avevo fatto l’abitudine agli improvvisi cambiamenti di programma: con la mamma era difficile che filasse tutto liscio proprio come si era stabilito. Sempre impegnata, mai un attimo di pace: non le bastava andare a scuola la mattina, anche di pomeriggio aveva un sacco di riunioni. A casa nostra c’era un continuo andirivieni di gente: io capivo che parlavano di politica, perché la mamma non ne faceva mistero. Discutevano di cose importanti, lei mi diceva, ma comunque io rimanevo contrariato se, durante quegli incontri, oltre a dovermene rimanere nella mia cameretta, non potevo neppure uscire per andare a giocare con qualche compagno. La mamma indovinava al volo il mio stato d’animo, così, quando quella gente se ne andava, faceva di tutto per cambiarmi di umore, mostrandosi affettuosa, portandomi dei dolci, giocando anche con me. Insomma, di uomini che giravano per casa ne vedevo tanti ogni giorno, ma uno così indecente come quello che avevo appena lasciato sulla porta non l’avevo ancora incontrato.
Quando mia madre lo vide, rimase senza parole, lo abbracciò, lo baciò, non si separava più da lui, le scendevano le lacrime, non smetteva di singhiozzare: ho conosciuto così mio padre.
Era facile immaginarmi che stava incominciando qualcosa di nuovo: non avevo mai visto la mamma tanto emozionata e, considerando che tutta quella commozione nasceva per la presenza di un uomo così sporco e puzzolente, entrato in casa nostra in un giorno di festa, ero ancora più convinto che la mia vita sarebbe cambiata profondamente. Era da vedere se in meglio o in peggio: fino a quel momento non solo non avevo avuto un padre, ma mi pareva anche di non averne mai avuto bisogno. Per esempio, non invidiavo i miei compagni di scuola che avevano entrambi i genitori, circostanza neppure così frequente: nella mia classe erano soltanto in sei, e si sentivano molto importanti, come se la vita avesse deciso di premiarli. In compenso, per tutti noi a cui mancava il padre, la maestra aveva un occhio di riguardo, era più indulgente e non trascurava mai di incoraggiarci se faticavamo a seguire le lezioni.
Neppure la mamma mi era mai sembrata tanto addolorata di essere senza marito: sarà anche stata brava a nascondere il dolore, comunque non una volta l’avevo vista vestita di nero come molte altre donne della città a cui mancava il marito. “Eh, la guerra, la guerra” ripetevano rassegnate, scuotendo la testa, con il fazzoletto in mano per asciugarsi gli occhi. La mamma l’ho vista piangere quando mio padre è tornato, non quando era lontano da casa.
Tante volte, se disubbidivo o ero capriccioso, la mamma sgridandomi si lamentava di dover fare al tempo stesso da madre e da padre, di dovermi educare da sola senza il sostegno del marito. E così chiedeva anche l’aiuto della mia maestra perché m’insegnasse a comportarmi bene e non solo a leggere e a scrivere. Ma sarà che la maestra era sempre premurosa verso di me, sarà che la mamma provvedeva a tutto e mi aiutava in ogni occasione, pensavo che già io e lei fossimo una famiglia: a me andava bene così, e non capivo a cosa mi sarebbe servito un padre. Adesso poi che non era più il frutto della mia immaginazione, ma lo vedevo in carne e ossa, così sporco e misero, ero ancora più convinto della sua inutilità nella nostra casa.
Certo, il mattino dopo, ripulito e senza barba, era un’altra persona. Entrò in cucina mentre facevo colazione bevendo il caffelatte e mangiando pane abbrustolito con un po’ di marmellata, non ancora pronto per andare a scuola. Mi pareva altissimo, magro, gli occhi scavati, scuri, che mi fissavano. Mi si avvicinò: rimasi seduto senza fiatare, senza mangiare né bere il mio caffelatte. Era come se un estraneo fosse piombato in cucina e mi dicesse, soltanto con un’occhiata, che lì ero io l’intruso. Mi prese la testa fra le mani e mi diede un bacio sulla fronte.
«Svelto che fai tardi a scuola... e fatti valere.»
Quelle furono le prime parole che mio padre mi disse. Che ne sapeva lui se ero in ritardo e come avrei potuto farmi valere... Annuii e continuai a osservarlo per convincermi che quell’uomo, da quel momento, era mio padre.
Terminai subito la colazione, corsi in camera per finire di prepararmi e tornai in sala, dove la mamma mi aspettava per accompagnarmi a scuola. Mi sistemò il fiocco azzurro sul grembiulino nero, mi aiutò a indossare il soprabito e, davanti a mio padre che ci guardava mentre stavamo per uscire di casa, mi disse che al mio ritorno sarei andato con lui a fare una passeggiata per mostrargli tutto quello che era successo a Pola.
Quella mattina fui ripreso più volte dalla maestra perché non stavo attento. Pensavo alla passeggiata con il papà... Cosa gli avrei dovuto mostrare? Dove gli sarebbe piaciuto andare? Dovevo fargli vedere cos’era successo, aveva detto la mamma: le case distrutte dai bombardamenti? i danni all’Arsenale? le devastazioni nella chiesa della Marina? Volevo continuare a trascorrere le giornate come sempre, con i miei compagni del cuore, Umberto e Giorgio: giocare subito dopo mangiato, poi la merenda e i compiti. Non mi piaceva l’idea che mio padre mi cambiasse le abitudini.
Quella passeggiata non venne mai fatta.
Vedevo di solito mio padre alla sera, all’ora di cena. Mi chiedeva della scuola, senza sembrarmi però particolarmente interessato: non aveva mai niente da criticare, non mi rimproverava e chiudeva immancabilmente le nostre rapidissime conversazioni dicendo: “Tutto a posto, allora”.
«Il tuo papà ti vuole bene, ma deve riprendersi» mi disse la mamma una sera, mentre mi rincalzava le coperte, prima di darmi il bacio della buonanotte.
«Cosa vuol dire “riprendersi”, mamma?»
Mi ero messo seduto sul letto per ascoltare la sua risposta. Alla mamma piaceva spiegarmi le parole che non conoscevo, perciò immaginai che mi avrebbe fatto volentieri una delle sue lezioncine.
«Adesso rimettiti giù e dormi. È meglio, se no domani farai fatica a svegliarti.»
«No» le dissi senza incertezze.
«“Riprendersi” vuol dire che il papà ha sofferto molto in guerra. È stato catturato, imprigionato, si è ammalato, è riuscito a guarire per miracolo e poi è scappato dal campo di concentramento. Ha fatto un’infinità di chilometri a piedi per ritornare a casa... Non ti ricordi in che stato...»
«Sì, mi ha fatto paura.»
«E allora! Ti pare normale che da un giorno all’altro possa diventare come noi, cioè fare la nostra vita, riprendere le nostre abitudini?»
«No.»
«Vedi? Stagli vicino quanto più ti riesce. Ricordati che ti vuole molto bene... Adesso fai il bravo e dormi, che è già tardi.»
E l’occasione per stargli vicino arrivò presto. C’era stato un terribile bombardamento, ci eravamo riparati nel nostro rifugio scavato nella roccia del Castello e, cessato l’allarme, ritornavamo veloci a casa. Tra le macerie una bambina piangeva disperata, sola. La mamma si precipitò a soccorrerla, la prese in braccio, cercò di consolarla, ma la piccola non smetteva di piangere. Nessuno sapeva di chi fosse figlia, dove abitasse: mia madre con quella bimba in braccio provò a suonare i campanelli delle porte di casa lì attorno per avere delle informazioni. Inutilmente.
«Flavio, porta Sergio con te» disse a mio padre, «io devo preoccuparmi della bambina.»
Andai con papà, io e lui da soli: era la prima volta che capitava. Faceva freddo, camminavo stringendomi nel cappotto e di tanto in tanto tiravo fuori di tasca le mani per calcarmi meglio il baschetto in testa, fino a coprirmi la fronte.
«Perché non hai la sciarpa?» mi chiese mio padre.
«Me la sono dimenticata.»
Ci fermammo, si tolse la sua, e piegandosi sulle ginocchia me l’annodò al collo, allacciandomi anche gli ultimi due bottoni del cappotto. La strada fu breve, arrivammo in via Sergia dove papà aveva il suo negozio di calzature. C’ero già stato qualche volta con la mamma quando avevo bisogno di un paio di scarpe nuove. Il signor Mariani, a cui mio padre durante la guerra aveva affidato il negozio, me le provava, spingeva con il dito la punta per sentire dove toccava, mi faceva camminare avanti e indietro e poi, trovate quelle giuste, confezionava un bel pacchetto legandolo con uno spago che terminava con un occhiello in cui infilava la mia manina. La mamma ringraziava il signor Mariani e uscivamo senza pagare.
Il negozio adesso era più bello, mi sembrava più luminoso, con un elegante tappeto rosso, e anche le sedie foderate di velluto erano state cambiate. Mio padre, di ritorno dalla guerra, doveva averlo rinnovato, ma non mi aveva mai portato a vederlo. Dopo quell’ultima incursione aerea le bombe erano cadute qualche isolato più avanti rispetto al negozio, proprio vicino all’arco dei Sergi, ma non lo avevano danneggiato.
«Ci è andata bene» disse il signor Mariani lì, sulla porta.
Mio padre fece soltanto un cenno di saluto e incominciò a guardarsi in giro.
«Per lo spostamento d’aria è caduta solo l’insegna. Ha fatto caso?... Oh, finalmente rivedo il signorino Sergio. Proviamo a tirare su l’insegna e a rimetterla al suo posto?» chiese Mariani.
Faticarono molto e ci misero un bel po’ di tempo, ma alla fine riuscirono nell’impresa. Il signor Mariani, ormai di una certa età, uscì per bere al bar qualcosa che lo rimettesse dallo sforzo, mentre mio padre andò nel retrobottega dove aveva sistemato il suo laboratorio. Indossò un grosso grembiule di cuoio e, seduto su uno sgabello, incominciò a tagliare il pellame dandogli la forma di una scarpa.
«Ma le fai proprio tu, papà?»
«Sì.»
«Dall’inizio alla fine?»
«Propr...

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