Anna Bolena
  1. 276 pagine
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La "scalata" di Anna Bolena inizia, sotto l'abile regia del padre, con un periodo trascorso in Francia, come damigella d'onore della principessa Maria d'Inghilterra, moglie di Luigi XII. Al suo rientro in Inghilterra Anna si era trasformata in una splendida dama di corte, elegante, desiderabile e prezioso oggetto di scambio per le ambizioni del padre. Ma neppure lui poteva immaginare quale sarebbe stato il futuro della ragazza che, dopo aver infiammato il cuore del re Enrico VIII, lo sposò nel 1533 e gli diede una figlia, Elisabetta, destinata a diventare la più grande regina della Storia inglese.
Nonostante questo folgorante inizio, l'astro di Anna Bolena tramonta presto: invidie, intrighi, la mancanza del tanto sospirato erede maschio, la condurranno in breve tempo sul patibolo per volere dello stesso re che pur di poterla sposare aveva divorziato dalla prima moglie, Caterina d'Aragona, e si era separato dalla Chiesa di Roma.
Carolly Erikson ricostruisce le vicende che hanno segnato l'esistenza di questa sfortunata regina, sullo sfondo di una perfetta rievocazione dei rapporti familiari, del ruolo delle donne, degli scontri politici, dell'intreccio di ragioni personali e ragion di Stato, in una grande corte europea del Rinascimento.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852031083
Carolly Erickson

ANNA BOLENA

Traduzione di Giuseppe Pallavicini Caffarelli
Mondadori

Anna Bolena

I

Anna Bolena, giovanissima gentildonna venne inviata
in Francia, e là diventò una dama della regina.
Nella luce dorata di un pomeriggio settembrino, una lunga teoria di cavalli, di muli, di carri, procedeva lentamente sulla strada di Dover. I cavalieri – ve n’erano centinaia – appartenevano alla corte reale di Londra. Al loro passaggio i contadini correvano su dai campi per osservarli e restavano in piedi, in mezzo agli schizzi di fango, a gridare, sbracciandosi in segni entusiastici di saluto.
I viaggiatori, nei loro rigidi abiti di broccato e sotto i pesanti mantelli imbottiti, avevano un’aria contegnosa, consapevoli della loro magnifica apparenza e del divario di classe e di reddito che li separavano dai braccianti e dai villici. L’orgoglio li manteneva impettiti e distanti, ciononostante si sentivano a disagio e confidavano di raggiungere Dover prima che calasse la notte. Mentre il cielo s’incupiva e cominciava a piovere sui loro copricapi piumati e sui loro mantelli da viaggio, la loro ansia aumentava. La pioggia era più di un semplice inconveniente: significava tempesta sulla Manica e una traversata rischiosa per la principessa Maria e per coloro che dovevano accompagnarla in Francia.
Alla fine del 1514 il regno di Enrico VIII durava già da cinque anni e la sua torreggiante persona, gagliarda ed energica, godeva di una fama eroica. Aveva soltanto ventitré anni ma si era già guadagnato un’aureola leggendaria. Per il suo popolo era il Grande Enrico «il nostro grande re»; per gli stranieri era il temibile cavaliere che aveva battuto i francesi alla battaglia degli Speroni, mettendoli in fuga con la sua rombante cavalleria. Con la sua barba e i suoi capelli fulvo-dorati, la sua risata, i suoi modi cordiali e la sua forte corporatura atletica, Enrico era abbagliante; e lo diventava ancor più indossando lucide armature tempestate di gioielli, vestiti d’oro e farsetti d’argento. Giovane, forte, vittorioso, cavaliere senza macchia e senza paura, sembrava «un essere sceso dal cielo»: le grida e le acclamazioni della folla si levarono altissime al suo passaggio.
Era un plauso anche per la squisita giovane che gli cavalcava affianco. Era Maria, la sorella minore, una delicata bellezza di diciannove anni che per il suo splendente incarnato e i lineamenti leggiadri era considerata una delle donne più affascinanti di quella generazione. Maria Tudor, dovendo sposarsi, era al centro dell’interesse del corteo regale diretto a Dover, prima tappa del suo viaggio nuziale.
Non solo stava per diventare sposa, ma anche regina. Suo fratello, dopo essersi guadagnato fama bellica sconfiggendo i francesi, alleandosi ora con loro stava guadagnandosi fama diplomatica.
Nell’intricata sequenza di trattati, battaglie e temporeggiamenti di cui era intessuta la politica continentale, Enrico stava svolgendo un ruolo bizzarro. Era stato alleato di suo suocero Ferdinando d’Aragona contro Luigi XII; ora abbandonava il re spagnolo per quello francese. La principessa Maria – che era stata fidanzata a Carlo, un nipote di Ferdinando del ramo fiammingo – ora si trova promessa al «vecchio debole e vacuo» vedovo che regnava sulla Francia.
Non fosse stato per il fatto che lei amava un altro uomo, Maria si sarebbe adattata facilmente ai progetti del fratello. Dopo tutto il Borbone aveva più di cinquant’anni, era di costituzione debole e senescente e non sembrava essere longevo. Aveva promesso di ricoprire la sua giovane moglie di gioielli, e come prova della sua parola le aveva inviato un cofanetto di pietre preziose, fra le quali spiccava un diamante unico «ampio e lungo quanto un dito a grandezza naturale», chiamato Specchio di Napoli. Regali di tale sorta e il titolo di regina potevano rendere più sopportabile un breve matrimonio con una persona anziana.
Se proprio fosse stata obbligata a sacrificarsi per uno sposo «vecchio e malaticcio», Maria rifletté, l’avrebbe fatto con la speranza, dopo la sua morte, di essere libera di prendersi un secondo marito di proprio gradimento; basta con i matrimoni di stato, suo fratello doveva garantirglielo. E con la mente assorta in tali accordi Maria cavalcava pensierosa e preoccupata lungo la strada di Dover.
A breve distanza dal re e da sua sorella seguiva la paffuta e rubiconda regina Caterina, sussultando ogni volta che la lettiga sprofondava nelle buche improvvise del terreno. Era avanti nella gravidanza, mancavano più o meno due mesi al parto, e sebbene le sue condizioni fossero rassicuranti – doveva pur dare alla luce un bambino sano, un erede al trono – era turbata per il deciso mutamento diplomatico intrapreso dal suo irruente consorte.
Caterina non era solo la regina, era anche, a tutti gli effetti, fuorché nel titolo, l’ambasciatrice spagnola in Inghilterra. Meglio di qualsiasi altro ambasciatore ufficiale che suo padre Ferdinando avrebbe potuto inviare alla corte di Enrico VIII, essa conosceva il paese e il suo monarca; viveva là da tredici anni e se il suo inglese era viziato da un forte accento spagnolo, la sua conoscenza della politica insulare non era inficiata da quella cecità culturale che affliggeva gli stranieri. Propendeva comunque per la Spagna e per i suoi alleati. In effetti, preferendo vedere l’Inghilterra alleata di Ferdinando e dei suoi parenti asburgici, fu costernata dal riavvicinamento del marito ai francesi. Qualcuno diceva che il distacco di Enrico da Ferdinando andasse persino oltre la rottura diplomatica e che Enrico pensasse di trovare il modo di sciogliere il suo matrimonio senza figli e di prendere in sposa una francese. Ma il suo comportamento verso Caterina non dava adito a tali chiacchiere, inoltre lei era incinta e questa volta non poteva partorire un bambino morto o fatalmente gracile. Doveva essere un figlio sano.
Vicino ai monarchi volteggiava l’elemosiniere di corte Thomas Wolsey, l’abile prete che l’anno prima, durante la campagna militare di Francia, aveva cominciato a rendersi indispensabile a Enrico. Figura imponente nel suo abito talare, Wolsey aveva l’aspetto di un alto aristocratico e non sembrava figlio di un rozzo macellaio. La sua intelligenza circospetta era infallibile nel badare alla comitiva reale e alla sua scorta a cavallo, attento com’era agli ostacoli della strada, ai carri pericolanti, ai cavalli zoppi e alle bande di predoni che vivevano spogliando i viaggiatori in quel tratto così frequentato.
Con il trascorrere del pomeriggio i cavalieri si sparpagliarono e formavano una linea lunga di un miglio, ora raccogliendosi, ora frazionandosi in piccoli gruppi, a parlare, a cantare o a passarsi l’otre del vino. Il viaggio aveva certamente uno scopo ufficiale eppure assumeva un’aria familiare. Molti cortigiani avevano portato con sé le mogli e alcuni anche i figli.
Una bambina del seguito, piccola, scura, di età indefinibile, cavalcava inosservata fra le damigelle d’onore delle principesse. Era molto più giovane delle altre, una fanciulla sottile fra belle ragazze ancora da maritare, che doveva sentirsi un po’ fuori posto e a disagio in loro compagnia.
Il suo disagio scaturiva più dal suo aspetto che dalla sua età, poiché Anna era afflitta da sconcertanti deformazioni che la obbligavano a nascondere la testa e le mani quando qualcuno la guardava da vicino. Sul collo si notava un grosso neo, una macchia troppo evidente per poterla nascondere nei folti capelli neri. Su una mano era cominciato a crescere un sesto dito con una doppia unghia e un rigonfiamento eccessivo di carne. Questi segni fisici, notevoli già di per sé, lo erano ancor di più in un’età in cui le stranezze assumono sempre una rilevanza più significativa. La gente ignorante avrebbe potuto pensare che quel dito rudimentale in sovrappiù fosse un segno del diavolo; a un osservatore più smaliziato, qual era il padre di Anna, quei difetti più che diabolici apparivano disastrosi, in quanto avrebbero sminuito le sue qualità al momento di maritarsi.
Per quanto ne sappiamo, Maria Bolena, la sorella, non presentava simili imperfezioni. Più anziana, Maria era un tipo precocemente sensuale e attraente. Era già la seconda volta che svolgeva l’incarico di damigella d’onore presso una principessa – aveva trascorso un anno a Bruxelles alla corte di Margherita di Savoia, reggente dei Paesi Bassi – e la sua invidiabile esperienza di vita all’estero doveva farla apparire più equilibrata e raffinata rispetto alla sorella minore.
Al confronto di Maria, Anna era grezza e poco promettente, il tipo di figlia che un padre meno ambizioso avrebbe spedito in un convento a farsi suora. I conventi erano gremiti di fanciulle altolocate dagli arti sciancati, dal cervello debole o dal volto deforme, e lei, con i suoi difetti e il suo infelice colorito, era candidata a vivere dignitosamente da oscura religiosa. Se soltanto i suoi capelli fossero stati biondi come quelli della principessa Maria, o intensamente ramati come quelli della regina, invece che neri e terribilmente spessi; se soltanto la sua pelle fosse stata chiara e rosea invece che scura e terrea come quella di una zingara; se soltanto i suoi occhi fossero stati dolci e illuminati d’azzurro come nelle pitture sacre invece che neri e penetranti, per lei vi sarebbe stata qualche speranza. Comunque fosse, Tomaso Bolena era deciso a farne una colta gentildonna francese. E anche se doveva venire eclissata dalla più dotata sorella, poco male, egli avrebbe tratto il meglio da quello che Anna poteva offrire.
Forse Tomaso Bolena, mentre cavalcava brillante e orgoglioso accanto agli altri gentiluomini di corte, non pensava neppure alle figlie. Era un bell’uomo perspicace, vicino ai quarant’anni, bramoso di ricchezze e di promozioni, che il suo notevole successo a corte non gli aveva ancora procurato. Entro pochi giorni avrebbe assunto il suo incarico più importante come ambasciatore in Francia e i suoi pensieri erano rivolti più ai particolari del suo mandato che alla sistemazione della prole.
Sotto il regno precedente Bolena era salito al rango di scudiero del corpo del re, e aveva poi approfittato delle sue conoscenze linguistiche per svolgere missioni diplomatiche in Scozia, presso la corte imperiale di Massimiliano I, nei Paesi Bassi e ora in Francia. Enrico VIII confidava nell’esperienza e nel savoir faire di Bolena negli affari esteri e lo remunerava con concessioni secondarie di cariche, di terre e di entrate. Tuttavia la sua maggiore ricompensa proveniva da un matrimonio fortunato.
Quando Tomaso Bolena aveva sposato Elizabeth Howard, era soltanto un uomo energico e di bell’aspetto, praticamente nessuno o quasi. Certo, suo nonno, un mercante, era stato sindaco di Londra e sua madre era la figlia di un conte. Comunque Bolena, prendendo in moglie la figlia di Thomas Howard, aveva avuto accesso al più alto livello sociale, in quanto nelle vene degli Howard scorreva sangue reale e sotto la monarchia degli York avevano goduto di titolo ducale.
All’epoca di quel matrimonio, il titolo era stato revocato, a causa del trionfo dei Tudor sugli York alla battaglia di Bosworth. Ma Thomas Howard alla fine era riuscito a riabilitarsi, e da risoluto comandante aveva servito Enrico VIII sul campo, distinguendosi per coraggio e lealtà. L’anno precedente, il 1513, l’anziano Howard aveva sbaragliato gli scozzesi a Flodden Field. In premio il re gli aveva restituito il ducato perduto per cui le sorti dell’intera famiglia Howard – inclusi i Bolena – avevano ripreso a salire rapidamente. E proprio come genero del duca di Norfolk, Tomaso Bolena si avviava con le figlie alla volta della Francia.
Improvvisi capovolgimenti di fortuna come quelli degli Howard e dei loro parenti acquisiti erano comuni in un’epoca di parvenu. Le classi erano instabili: i nobili e i gentiluomini calzavano stivali ancora inzaccherati di fango. Era un’epoca, soprattutto, di grandi opportunità, in quanto il vecchio ordinamento sociale era mutevole e la gerarchia medievale, con il suo triunvirato di re, clero e pari di antico lignaggio, stava cedendo il posto all’incalzare di una nuova forma di potere. Gli antichi titoli venivano conferiti ai rispettivi nuovi arrivati a corte, a famiglie che si erano sollevate dalla condizione contadina soltanto da due o tre generazioni. Il clero era ancora influente e preminente nel Consiglio della Corona, l’impetuosa carriera di Thomas Wolsey lo dimostrava chiaramente, mentre uomini come Bolena e, ancor più, il suo tirannico cognato Thomas Howard, giovane erede al ducato e conte di Surrey, avanzavano il loro diritto a pilotare il re. La monarchia stessa stava cambiando. Mentre i Plantageneti avevano governato l’Inghilterra per secoli, i Tudor sedevano sul trono soltanto da un trentennio, e se Enrico VIII non fosse riuscito a generare un figlio maschio, la dinastia si sarebbe estinta con lui.
Per questo motivo il matrimonio della sorella minore di Enrico, la principessa Maria, assumeva un’importanza enorme. Se egli fosse morto senza erede maschio, le sue sorelle avrebbero ereditato il trono: per prima, la sorella maggiore Margherita, regina di Scozia (e, se le fosse sopravvissuto, il figlio Giacomo), poi, Maria, regina di Francia. Un osservatore spassionato, infatti, avrebbe potuto sostenere che, con il suo imminente matrimonio, Maria sarebbe diventata la Tudor più illustre, poiché la Francia era molto più vasta, più ricca e più potente dell’Inghilterra: come regina di questo paese essa avrebbe scavalcato tutti i suoi parenti, vivi o morti, sia per rango, sia per ricchezze.
Per cui era un grande onore e una grande occasione per la bruna figlioletta di Tomaso Bolena essere ammessa a partecipare alla festa nuziale. Che essa fosse consapevole di questo in prospettiva del suo imminente viaggio in Francia è comunque assai improbabile. Mentre non vi sono testimonianze sul comportamento e sui pensieri di Anna – forse nessuno le prestò molta attenzione e di sicuro nessuno annotò ciò che lei fece o disse – possiamo però immaginare che si avviasse all’imbarco con un misto di eccitazione e di apprensione.
La sua apprensione dovette aumentare all’approssimarsi del corteo reale alla meta, scorgendo le torri e le massicce mura del castello di Dover e, al di là di esse, il mare grigio.
Era un mare rabbioso, la cui superficie sferzata da un vento infido s’infrangeva in cupe increspature e in profondi abissi. Le navi noleggiate per il viaggio oscillavano paurosamente nel porto e apparivano penosamente piccole e leggere sotto la furia di quegli elementi. Ve n’erano quattordici, ma ciò non diminuiva la loro fragilità.
Nel giro di un paio di giorni, Anna si sarebbe imbarcata su uno di questi beccheggianti vascelli per compiere la traversata fino alla Francia, un luogo che doveva sembrare a una distanza incredibile ed estraneo a una bambina. Le avrebbe tenuto compagnia la sorella, ma non l’aristocratica madre. Assieme alle fanciulle più anziane del seguito della principessa, sarebbe stata affidata alle cure della solida e austera lady Guildford. Per una ragazzina che non era mai uscita di casa, i rischi di quel viaggio dovevano assumere una connotazione paurosa. Quella di saper nuotare era l’ultima cosa che si potesse immaginare nell’educata figlia di un gentiluomo.
Il corteo nuziale e la scorta sostarono alcuni giorni nel castello di Dover, rifugiandosi all’interno dei bastioni normanni, mentre una tempesta dopo l’altra si abbattevano sulla costa e infrangevano il mare in tante onde spumeggianti. Tutto ciò che serviva al viaggio aveva trovato riparo al castello: le centinaia di cavalli della principessa e del suo seguito, le dozzine di massicci bauli di quercia, ricolmi degli oggetti portati in dote e del corredo, i carri stipati di mobilia per le nozze, di abiti e di effetti personali della servitù.
Ogni sera si sperava che la mattina seguente il mare si sarebbe calmato e che il cielo sarebbe tornato azzurro; ogni mattina invece soffiava un vento freddo, il cielo era ricoperto di nubi nere e la costa era avvolta dalla nebbia. Pareva che quel tempo ventoso non volesse mai smettere e, essendo già la prima settimana di ottobre, il re decise di non aspettare oltre ad affidare sua sorella alle fortune della Manica.
Cominciò il carico degli animali e delle merci, i viaggiatori scambiarono i loro saluti. La principessa Maria in un ultimo colloquio con il fratello ottenne la promessa di poter contrarre un matrimonio di propria scelta una volta che Luigi XII l’avesse lasciata vedova.
Nell’alba tempestosa del 2 ottobre, Maria e il seguito salirono a bordo. Poche ore dopo la partenza da Dover il cielo coperto si rabbuiò come fosse già il crepuscolo e il vento soffiò sulle navi, facendole deviare a caso in mezzo alle paurose voragini delle onde. Le nobildonne scesero sottocoperta dove, affrante dal mal di mare, si adagiarono sulle loro scomode cuccette. Sopraccoperta i marinai lottavano per mantenere le navi sulla rotta, ma il vento sibilante e le cattedrali delle onde li soverchiavano, e poco dopo anch’essi furono presi dal mal di mare e quasi tutti si fermarono.
Per parecchi giorni la piccola flotta fu travolta dalla tempesta, sollevandosi e abbassandosi nel mare profondo; il fasciame e le alberature scricchiolavano all’urto delle onde che si schiantavano contro le prue. Erano andate perdute molte navi nella Manica, e come voleva l’usanza, i marinai e i passeggeri pregavano la Vergine Maria, Stella dei Mari, Porto di Salvezza, perché li proteggesse nell’ora del pericolo.
Finalmente, forse grazie alla potenza delle preghiere o a una robusta barra di timone, quattro delle quattordici navi del convoglio giunsero in vista di Boulogne e tre di esse manovrarono per entrare in porto, la quarta, la nave della principessa, s’incagliò alla bocca del medesimo, e Maria dovette essere trasportata a braccia da uno dei suoi gentiluomini. Verdognole per la sofferenza, lei e le sue dame, dopo essere state alloggiate in gran fretta, furono rivestite di panni asciutti e fatte accomodare vicino a un gran camino fiammeggiante. Stavano troppo male per mangiare e il freddo e la continua paura le avevano tanto intorpidite che quasi non riuscivano a parlare. Ma dopo alcuni giorni di riposo cominciarono a ristabilirsi e presto furono in grado di dare il via alle feste cerimoniali e ai benvenuti ufficiali predisposti per loro.
La principessa Maria, restituita alla sua usuale bellezza, cavalcò doverosamente incontro al futuro sposo che l’aspettava ad Abbeville. Il loro matrimonio fu reso grande e splendido dagli arazzi, dal rilucente vasellame e dagli abiti intessuti d’oro che si erano miracolosamente salvati nelle casse inzuppate d’acqua.
Eppure, la scura fanciulla, che assisteva alla solenne cerimonia assieme alla sorella, non poteva non essere stata toccata da quella durissima prova. Aveva corso un grave pericolo, almeno una volta si era trovata accanto alla morte. Per parecchio tempo avrebbe sognato i venti ruggenti e le onde verdastre, più sovente, forse, della casa appena lasciata alle spalle.

II

La piacevole libertà di Francia, che è la cosa più lodevole,
rende le nostre donne più desiderabili, più amabili,
più avvicinabili e più generose di qualsiasi altra.
All’inizio del sedicesimo secolo nessun’altra monarchia era più magnifica di quella francese. Il regno era vasto, ricco e popoloso. Un prospero contado coltivava fertili campagne; l’industriosa popolazione delle città dava vita a fiorenti traffici; i nobili e la classe cavalleresca, da tempo anacronistici in guerra, fatta eccezione per i capitani e i comandanti, avevano trovato una nuova sistemazione come cortigiani e conducevano una vita brillante all’ombra del sovrano. Certo, vi erano ancora anni di carestia, durante i quali gli abitanti dei villaggi morivano di fame e i lupi scendevano in città a cacciare le prede, anni durante i quali le lotte feudali producevano ancora il caos nella vita delle campagne, ma ai visitatori stranieri la Fran...

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