L'acustica perfetta
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L'acustica perfetta

  1. 204 pagine
  2. Italian
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L'acustica perfetta

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Informazioni sul libro

Arno e Sara si incontrano da ragazzini e istintivamente si amano. Un pomeriggio d'estate lei lo lascia, dicendogli che "le piacciono gli amori infelici". Si ritrovano molti anni dopo, decidono di sposarsi: sono allegri, innamorati, sembrano felici. Arno è convinto di darle tutto se stesso e non si spiega le malinconie e le bugie che affiorano poco a poco. In fondo, la sua vita gli piace così com'è: suona il violoncello alla Scala, ha avuto tre figli dalla donna della sua vita, non si fa domande. Ma il disagio di Sara col tempo aumenta, finché una mattina Arno non sarà costretto da un evento inconcepibile a chiedersi chi è davvero la persona con cui ha vissuto tredici anni, la donna che ama da sempre. Con titubanza, inizia a seguire una pista di ferite giovanili e passioni soffocate e, con crescente sgomento, ritrova il bandolo di storie insospettabili.
Può una donna restare con un uomo che pensa di amarla ma non ha mai voluto conoscerla davvero? Può un uomo accettare che sua moglie non si fidi di lui? Si può vivere senza esprimere se stessi? E come incide il dolore nelle nostre vite? Abbiamo tutti le stesse carte in mano?
Costruito secondo la vertiginosa spirale di una fuga, L'acustica perfetta ha la delicatezza di un romanzo di formazione - la formazione di un uomo adulto, di un amore - e la rapinosa potenza di un romanzo d'indagine.
Daria Bignardi dà voce a uno straordinario protagonista maschile, attraverso le cui parole si compone, tassello dopo tassello, il ritratto di una donna inquieta e vibrante. Un percorso verso la verità che si cela al fondo di ogni relazione, verso il cuore buio che ciascuno di noi protegge anche dalle persone amate, un viaggio nel profondo, dentro i silenzi e i segreti delle nostre vite. Fino all'imprevedibile finale.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852030468

1

Ho amato nella vita una donna sola: quando mi lasciò, non la rividi per sedici anni.
La sera che la ritrovai pioveva, avevo vegliato un cadavere tutta la notte ed ero stanco. Se uno stormo di gabbiani sulla pista non avesse ritardato la partenza del mio volo non l’avrei più incontrata.
C’erano troppe persone in attesa di un taxi, ed ero stato tentato di seguire uno degli autisti senza licenza che abbordano i viaggiatori bisbigliando «taxi per fuori Milano». Poi mi ero ricordato di quando Massimo aveva preso una di quelle auto abusive e si era trovato in tangenziale «seduto sopra un sedile sfondato coperto di peli di cane, con un tizio inquietante che mi fissava dallo specchietto retrovisore: gli ho dato i soldi che mi ha chiesto senza fiatare, anche se era il doppio del solito, temendo che mi menasse e mi desse in pasto alle Bestie di Satana».
Per lui, noi continentali siamo tutti inquietanti.
Stavo tornando dal funerale di suo padre: era morto d’infarto due giorni prima, in un cantiere di Porto Torres.
Dopo la pausa di mezzogiorno era scomparso: i suoi operai l’avevano cercato per tutto il pomeriggio finché uno era entrato nel bagno chimico e l’aveva visto riverso sul pavimento. Aveva cinquantatré anni. Quando Massimo me l’aveva detto, al telefono, non avevo potuto fare a meno di immaginare quel cesso angusto e chiedermi se l’avessero rinvenuto coi pantaloni calati.
Anche il nonno di Massimo era mancato «a soli cinquantatré anni», come aveva sottolineato quella mattina il parroco di Aggius, durante la messa funebre. Nessuno si era mosso, ma in quel momento tutti gli sguardi si erano rivolti ai fratelli Sanna: tra loro, Massimo sarebbe stato il primo a raggiungere i cinquantatré, anche se mancavano ancora vent’anni.
Si era girato verso di me stirando l’angolo della bocca in una smorfia che sapevo essere un piccolo sorriso e dal banco dietro avevo osservato il movimento d’ascella che facciamo noi maschi quando ci tocchiamo i coglioni.
Non è mai stato superstizioso: quel toccamento era a mio beneficio, per sdrammatizzare una situazione che in realtà era drammatica soprattutto per lui. Massimo fa così.
Quella sera, in coda per il taxi, stavo ripensando alla strana giornata che avevo vissuto, alla veglia notturna, a tutto tranne che a Sara. Non la vedevo da sedici anni. Sognavo di incontrarla dal giorno che mi aveva lasciato e fantasticavo sarebbe successo a un mio concerto: avrei alzato lo sguardo dopo un assolo perfetto e sarebbe stata là.
Non mi sarei mai aspettato di ritrovarla in quell’aeroporto grigio, in una sera di pioggia. Eppure la cosa che non avrei mai potuto immaginare non fu quel che successe – quello era scritto – ma ciò che accadde tredici anni dopo. Se qualcuno me lo avesse predetto, gli avrei riso in faccia.
Lei invece sembrava che sapesse tutto. Come se mi stesse aspettando.

2

Avevo cercato di non piangere, quando mi aveva lasciato. Nel giardino di suo zio, a Marina di Pietrasanta, era comparsa una vecchia 127 bianca, col baule e gli sportelli spalancati: era arrivata la madre di Sara per riportarla a casa, a Genova. La sentivo dentro la villetta gialla: «Dove butto la sabbia del gattooo?». Sara era ospite della sorella ricca di sua madre, Marta, moglie del dottor Bonfanti.
Quel giorno ero arrivato a casa loro col fiatone, correndo per salutare Sara che partiva, proprio mentre lui usciva dal cancelletto del giardino con uno scatolone tra le braccia. Ero andato a sbattergli addosso, e per la prima volta mi aveva sorriso. Gli avevo detto qualcosa come “scusi, buongiorno, buonasera…”, ma si era allontanato senza rispondermi e forse senza nemmeno vedermi.
Dopo, le infinite volte che avevo ripensato a quel pomeriggio chiedendomi cosa avrei potuto dire o fare per convincere Sara a non lasciarmi, mi ero domandato dove andasse a quell’ora il dottor Bonfanti e cosa ci fosse dentro la scatola. Di solito veniva in spiaggia solo al tramonto, vestito in un modo che a me, abituato alle magliette sformate dei miei genitori, sembrava di inconcepibile eleganza: camicia azzurra, calzoni di lino chiaro, Superga bianche e panama in testa. Scendeva lungo la passerella del Bagno Vela e il bagnino si precipitava a portargli alla tenda, la prima davanti al mare, un secchiello con una bottiglia e due bicchieri in ghiaccio. Sua moglie Marta beveva con lui, fumando sigarette bianche, fino a che il sole spariva dentro al mare. Quell’aperitivo al tramonto era un’abitudine eccentrica in quegli anni, un lusso trasgressivo che mi incuteva un’ammirata soggezione.
Sara spesso la sera non cenava: le bastavano le olive e i cubetti di focaccia avanzata dal mattino che guarnivano l’aperitivo del dottore. Se aveva ancora fame, qualche volta si prendeva da sola un gelato dal freezer. Il Bagno Vela era la sua seconda casa, anzi la prima: rimaneva in spiaggia fino all’ultimo barlume di luce, con addosso il costume ancora umido dei mille bagni in mare.
Appena finivo di mangiare con mia nonna, prendevo la bicicletta e mi precipitavo a cercarla. La trovavo che faceva la doccia all’aperto, da sola, nella semioscurità, oppure seduta a gambe incrociate in riva al mare, con le spalle rivolte alle onde, intenta a osservare i profili delle Apuane che diventavano viola e poi scomparivano nel buio.
Sara ha sempre amato la natura, è l’unica cosa in cui non è cambiata, ma nel tempo ho capito che il suo è un amore ossessivo, estremo. Come se nei tramonti, nei cieli, tra le nuvole, cercasse l’assoluto che gli umani non potevano darle. Allora non me ne rendevo conto, ma Sara è sempre stata ostinatamente alla ricerca di qualcosa, come se la vita da sola non le bastasse.
Quella domenica pomeriggio, mentre sua madre continuava a gridare domande alle quali nessuno rispondeva e noi davamo la caccia al gatto, mi lasciò.
Me l’aveva detto così, come fosse un dettaglio marginale, mentre afferrava Nero e lo infilava nella gabbietta: «Arno, non sono più la tua ragazza».
Ero andato a sedermi sotto uno dei quattro pini in fondo al giardino, con la schiena appoggiata al tronco, i gomiti puntati sulle ginocchia e i pugni sotto al mento. Dovevo ancorarmi per non tremare o cadere svenuto. Il tronco mi grattava la schiena nuda e sudata e gli aghi di pino secchi mi pungevano attraverso il costume da bagno, ma era nulla in confronto al male che sentivo dentro: per la prima volta in vita mia capivo il significato dell’espressione “avere il cuore spezzato”.
Sara mi raggiunse e si accovacciò di fronte a me con una pigna in mano. «Chiudi gli occhi, annusa» mi disse avvicinandomela alle narici. Sentii prima il profumo della resina e poi la pressione di un bacio sopra ogni palpebra. Ci mise un’eternità a passare da una palpebra all’altra. Con imbarazzo mi ero sentito crescere un’erezione impossibile da occultare nel costume da bagno e avevo deciso di non riaprire gli occhi mai più. Col cuore che scoppiava e il pisello che pulsava, riuscii a dirle soltanto: «Perché non vuoi più che stiamo insieme?».
Avevo quindici anni ed ero l’unico della compagnia senza motorino, ma lei aveva scelto me, quell’estate. Era la ragazza più bella che avessi mai visto, e stava con me.
«Mi piacciono gli amori infelici» aveva risposto. Ci ho messo trent’anni a capire che lo pensava davvero.

3

Che ora sarà? Ho sonno, è prestissimo, che mal di testa quell’amaro di merda, non dovevo accettarlo. Dov’è Sara? Si sarà alzata all’alba, fa così quando litighiamo: non dorme. È buio, il portinaio sta trascinando fuori dal cortile i bidoni della spazzatura, segno che non sono ancora le sei. Non voglio guardare l’orologio, voglio riaddormentarmi. Servirebbe un’altra coperta, ma se mi alzo mi sveglio: a che ora accendono i termosifoni, sei e mezzo? Fa freddo per essere solo novembre.
Ieri sera non ci siamo detti niente, non ce n’era bisogno, ma è riuscita a rovinare la serata con una sola frase. Un tempo non ci facevo caso, abbozzavo, ma dopo quasi quattordici anni insieme sto esaurendo la pazienza. Sarà in cucina, in piedi davanti al tavolo con la sua tazza di caffè in mano, a parlare con Graffio. «Sei il più buono della famiglia», l’ho sentita dirgli ieri mattina, mentre lo accarezzava con tanta forza che volavano peli dappertutto. A Graffio, che non si chiama così per caso. Quando io non ci sono lo lasciano salire sul tavolo a crogiolarsi sotto la lampada accesa. Se mi alzo dopo le otto e loro sono già usciti lo trovo acciambellato sopra la tovaglia, tra briciole e tazze sporche di latte che non hanno lavato per non disturbarmi. Quando sente aprirsi la porta della cucina alza il muso, abbassa le orecchie e finge di non guardarmi: sa che non voglio che stia lì, dove mangiamo. Lui lo sa chi comanda in famiglia.
La nostra camera da letto è separata dalla cucina solo da un bagno, se la sera prima ho suonato non devono disturbarmi e cercano di fare piano. Li sento comunque, se litigano sottovoce o ridacchiano o si lagnano con Sara: non glielo direi mai, ma in realtà il suono delle loro voci al mattino mi concilia il sonno. Soprattutto perché so che quando usciranno tutti mi riaddormenterò e dormirò altre due ore. Mi piace dormire.
Sara invece si alza sempre prima che suoni la sveglia, anche quando non è agitata come sarà oggi, vedrai, mai che le passi durante la notte. Ieri mattina, quando sono entrato in cucina, per prima cosa ho notato la macchiolina di sangue che spiccava sul bianco della camicia da notte, proprio sotto il sedere, ma non le ho detto niente. Ogni volta che le segnalo una macchia, un orlo che spunta, un’etichetta in vista, si rivolta come se si sentisse aggredita. Io ringrazio se mi avvertono quando ho la patta dei pantaloni aperta o qualcosa tra i denti, lei invece la prende come una critica. Ormai lo so e mi censuro. Come su tante altre cose.
La cucina è la stanza più buia della nostra casa, si affaccia sull’angolo interno del cortile e il sole la illumina solo da mezzogiorno, quando riesce a sbucare dai cinque piani del palazzo. Mattina e sera, anche d’estate, bisogna accendere una luce per non mangiare in penombra e ora che è quasi inverno la luce rimane sempre accesa, per la gioia di Graffio che dormirebbe tutto il giorno sotto una delle lampade: ne ho fatte mettere due perché mi piace vedere bene cosa c’è nel piatto. Non amo la penombra e non sopporto le candele.
Ieri mattina Sara, in piedi davanti al tavolo, stava accarezzando il gatto, con la tazza nella mano sinistra e la macchiolina rossa sulla camicia da notte accesa come una spia di pericolo. L’ho abbracciata da dietro. Ha raddrizzato le spalle e stirato il collo. Ha sporto la guancia verso la mia bocca e mi si è appoggiata contro con la schiena: ho sentito la pelle tiepida oltre il cotone leggero e le ho passato la mano sotto la gola, ancorandole il gomito in mezzo al petto. Mi piace tenerla così. Se la stringo da dietro, tra il mio inguine e i suoi lombi c’è un incastro perfetto.
Le ho sussurrato «buongiorno» nell’orecchio e lei me l’ha strofinato contro la barba come fa Graffio quando ti si struscia sulle gambe. Però non ha posato la tazza. Si è staccata dicendo: «Attento che ti scotto. Porti tu a scuola i bambini, che devo passare dal calzolaio prima di andare in studio? Maria è già riuscita a rompere la cerniera degli stivali nuovi».
Mi mortifica questo suo tono indaffarato. Era così diversa una volta: nulla veniva prima di un bacio o di un gioco, per lei. Credevo di poterla rendere felice, ma mi sono sbagliato. Nessuno può farlo quando si avvita nei suoi pensieri.
Fammi guardare l’orologio, ormai sono sveglio. Le sette e mezzo, devo alzarmi subito, oggi ho prova alle dieci. E prima ho palestra. Stamattina voglio fare cinque minuti di corsa più di quel bischero di mio fratello. Con Guido andiamo in palestra due volte la settimana: lui fa il consulente finanziario e quando arrivo è già in piedi da tre ore. È fissato con la palestra e coi soldi, con orrore dei nostri genitori.
Sarà un’altra giornata grigia. In questo periodo non piove e non ci sono mai sole o nebbia, solo grigio compatto. Mia madre è tedesca e questo tipo di grigio lo chiama «bel tempo coperto». Anche a me non è mai dispiaciuto il grigio di Milano, ho visto fin troppi cieli azzurri da bambino, in campagna. È l’umore di Sara che mi dispiace. Iniziare la giornata così, col ricordo di ieri sera che mi torna in bocca insieme al sapore dolciastro di quell’accidenti di amaro fatto in casa.
Poteva essere una serata perfetta. Ci stavamo divertendo a prendere in giro la padrona della trattoria pugliese, quella che parla continuamente di sé. Dal momento che il sabato e la domenica sono quasi sempre impegnato coi concerti, con Sara e i ragazzi spesso ceniamo fuori il lunedì. Andiamo presto, prima delle otto: le nostre cene del lunedì, quando escono solo musicisti e parrucchieri.
«Il sugo lo faccio io coi pomodorini dell’orto di giù, la pasta l’ho fatta a mano stamattina, anche il tiramisù lo faccio io…» Tutto da sola aveva fatto la signora del ristorante, anche l’amaro che ci ha offerto dopo cena, maledetto: «Faccio bollire il vino, ci metto gli aromi, l’alcol puro…».
A Carlo il gioco piaceva e rincarava la dose: «Anche il tavolo ha fatto da sola la signora, anche le sedie. Ha tagliato la legna, segato le assi…». Carlo è spiritoso, allegro. Elia è più insicuro ed era sulle spine perché ridevamo alle battute di suo fratello piccolo e a lui non veniva in mente niente da dire. Si agitava tanto che a un certo punto è caduto dalla sedia.
Gli ho solo raccomandato: «Elia, stai attento, eh?». E subito Sara ha sibilato: «Guarda che non l’ha fatto apposta». Di fronte a lui. Non ho più aperto bocca e una bella serata in famiglia è diventata una serata pesante. Siamo tornati a casa camminando lontani, parlando solo coi bambini: io con Maria e lei con Elia e Carlo. Ci ha messo un sacco di tempo a mandarli a letto e quando è venuta a dormire l’ho sentita rigirarsi a lungo e sospirare. Sono stato tentato di allungare la mano e darle una carezza, abbracciarla, come ho fatto centinaia di volte, ma ero troppo stanco.
È sfinente amare una donna che non si fida di te, che ti riprende davanti ai figli. Quand’è che sei diventata così, Sara?
Quando l’ho conosciuta era diversa. Somigliava a un gatto, a suo agio in ogni momento e fedele solo a se stessa. Faceva e diceva sempre quel che voleva, era serena e soddisfatta. Dava pace starle accanto, come guardare il fuoco.
Adesso è come un cormorano: la scorgi galleggiare inquieta tra le onde, il lungo coll...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’acustica perfetta
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Capitolo 11
  15. Capitolo 12
  16. Capitolo 13
  17. Capitolo 14
  18. Capitolo 15
  19. Capitolo 16
  20. Capitolo 17
  21. Capitolo 18
  22. Capitolo 19
  23. Capitolo 20
  24. Capitolo 21
  25. Capitolo 22
  26. Capitolo 23
  27. Capitolo 24
  28. Capitolo 25
  29. Capitolo 26
  30. Capitolo 27
  31. Ringraziamenti
  32. Copyright