La linea rossa
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La linea rossa

Da Gramsci a Bersani. L'anomalia della sinistra italiana

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  1. 432 pagine
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Da Gramsci a Bersani. L'anomalia della sinistra italiana

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La storia italiana è caratterizzata da una serie di anomalie che ne hanno influenzato il corso. Tra queste, la politicizzazione di una parte della magistratura, che ha causato una crisi dello Stato di diritto e alimentato una conflittualità permanente tra gli organi costituzionali; la forte presenza della criminalità organizzata; il delicato ruolo geopolitico dell'Italia nel Mediterraneo; la collusione fra il capitalismo privato e lo Stato che ha prodotto il sistema di Tangentopoli; la catena di attentati dal 1969 al 1974 e l'esplosione del terrorismo di destra e di sinistra, con il conseguente "attacco al cuore dello Stato" avvenuto con l'assassinio di Moro.
Ma la maggiore anomalia del nostro sistema politico rimane l'esistenza - fino alla caduta del muro di Berlino - del più grande partito comunista d'Occidente, che ha condizionato in modo determinante anche le formazioni politiche nate da quell'esperienza e che a quella tradizione si sono costantemente richiamate (PDS, DS e parte del PD). Questa è "la linea rossa" che ha attraversato la vicenda politica, sociale e culturale dell'Italia. In un grande affresco, Fabrizio Cicchitto ripercorre la storia del PCI e della sinistra postcomunista, dalle origini a oggi, analizzando le ragioni di un fenomeno tutto italiano: le figure di Gramsci, Togliatti e Berlinguer sono oggetto di una ricostruzione minuziosa, volta smontare i miti che la sinistra ha edificato grazie a un predominio incontrastato in vasti settori della cultura. Gramsci è il raffinato intellettuale dei Quaderni del carcere la cui nozione di egemonia è stata utilizzata da Togliatti per costruire la linea del "partito nuovo".
Dal canto suo la via italiana al socialismo portata avanti da Togliatti era organicamente legata alle strategie di Stalin, del quale furono condivise anche le più sanguinose decisioni. Di Enrico Berlinguer l'autore dà un giudizio positivo sul piano personale, ma ne registra il fallimento politico, e inoltre individua nella battaglia per la questione morale l'origine del giustizialismo, della politicizzazione della magistratura. Furono proprio i "ragazzi di Berlinguer" - Occhetto, D'Alema, Veltroni, Violante, Folena, Salvi - a raccogliere sul piano di una spregiudicata azione politica l'originaria istanza del leader comunista, puntando a utilizzare Mani pulite e quindi l'annientamento di Craxi come strumento di conquista del potere. Questa sorta di golpe bianco fallì per la discesa in campo di Berlusconi.
Fabrizio Cicchitto sottolinea come l'uso politico della giustizia, il giustizialismo teorico e pratico sono stati in un certo senso lo sbocco finale, presentato in una versione aggiornata e mistificata, dell'ideologia comunista.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852027512

IV

Enrico Berlinguer dal compromesso storico
all’alternativa

Nel corso della sua attività precedente agli anni ’80-84, Berlinguer si è sempre dislocato su una posizione di «centro» nella dialettica interna del partito. Anzi, dando vita, nel corso degli anni dal 1976 al 1978-79, alla politica di unità nazionale con i due governi Andreotti caratterizzati dall’astensione prima e dal voto favorevole poi del PCI, per di più collocati nella strategia del compromesso storico, per tutta una fase Berlinguer espresse una posizione di «centro» molto spostata a «destra» da un punto di vista sostanziale e come tale contestata sia delle posizioni «radical», sia dalla «sinistra» del partito, sia dagli estremisti di derivazione sessantottina. Poi dal 1979 al 1980, nello spazio di pochi mesi, tutto cambiò. Enrico Berlinguer passò dalla strategia del compromesso storico a quella dell’alternativa e all’interno del partito emarginò Amendola e la destra comunista, e realizzò un’intesa con i giovani della FGCI e con gli ingraiani.
Nel corso della sua attività politica precedente agli anni ’80-84, Berlinguer si era sempre dislocato in una posizione di «centro» nella dialettica interna del partito. Nella fase finale della sua segreteria radicalizzò la sua linea politico-culturale caratterizzandola sulle posizioni della «diversità», della «questione morale» e dell’alternativa. Questa estremizzazione della strategia del partito ad opera del segretario, e di un segretario dotato di un singolare carisma, ha segnato nel profondo, dagli anni Ottanta in poi, anche dopo la morte di Berlinguer, fino ai cruciali anni ’92-94, e successivamente, la formazione e le caratteristiche dei gruppi dirigenti del PCI, del PDS, dello stesso Partito democratico, e la linea politica dei comunisti e dei post-comunisti.
Non a caso dalla metà degli anni Ottanta fino ai nostri giorni nel PCI e poi nel PDS sono andati al potere «i ragazzi di Berlinguer»: Occhetto, D’Alema, Veltroni, Violante, Petruccioli, Angius, Mussi, Folena, Salvi. Per tutta una fase, quella «centrista» all’interno del partito, dalla fine degli anni Sessanta fino al ’79, Berlinguer aveva caratterizzato la sua linea su alcune grandi idee-forza: da un lato il compromesso storico e la politica di unità nazionale, i rapporti con la DC e il mondo cattolico, dall’altro lato l’eurocomunismo e una linea di relativa autonomia all’interno del movimento comunista internazionale. A queste scelte politiche va aggiunto il ruolo decisivo svolto dal tipo di carisma del tutto peculiare di Enrico Berlinguer che affascinava il popolo comunista. Si trattava della combinazione di una serie di elementi «singolari» per un leader: la sobrietà, la durezza e la nettezza delle posizioni, la riservatezza e una del tutto originale capacità di comunicazione fondata paradossalmente proprio sull’apparente rifiuto di porsi sulla lunghezza d’onda della esibizione mediatica.
Fondamentalmente per tutta una fase politica, Berlinguer si è caratterizzato per l’elaborazione della posizione strategica andata sotto il nome di compromesso storico. Di fatto, anche per la scelta più immediata della politica di unità nazionale, egli espresse una linea di intesa con la DC e con il mondo cattolico che era fondamentalmente «moderata» (e come tale essa fu contestata dagli estremisti di sinistra). Questa linea durò sostanzialmente per tre anni, dal ’76 al ’79, determinò i cosiddetti governi di unità nazionale guidati da Andreotti, con Moro presidente del partito e garante nei confronti di Berlinguer di tutta l’operazione, con Zaccagnini, la cui statura politica era molto modesta, come segretario del partito. I governi Andreotti di unità nazionale, segnati dall’appoggio esterno del PCI, svolsero un ruolo fondamentale per fare i conti con la crisi economica ed evitare collassi dell’economia italiana, ma furono fallimentari sul terreno delle riforme e si risolsero in un logoramento per il PCI.
Moro offrì al PCI e alla DC una doppia garanzia. Egli garantì al PCI che l’operazione di convergenza nell’appoggio al governo Andreotti si sarebbe svolta senza forzature, doppiezze e senza l’introduzione di merce avariata (Berlinguer e i suoi uomini più vicini si fidavano della serietà e dell’onestà di Moro ma non di Andreotti e del suo sistema di potere, come testimoniano le memorie di Luciano Barca).1
Dall’altro lato Moro svolse il ruolo di garante dell’unità della DC e quindi, in occasione della formazione del secondo governo Andreotti, quello caratterizzato dall’esplicito appoggio esterno del PCI, egli respinse tutte le richieste di Berlinguer sull’esclusione di uomini della destra democristiana dalla compagine ministeriale. Il PCI doveva discutere se votare a favore del governo Andreotti o astenersi proprio la mattina del giorno in cui Moro fu rapito. Allora il PCI decise di votare a favore, ma con l’eliminazione di Moro dalla scena tutta la politica di unità nazionale di fatto entrò in una crisi che si srotolò per tutta una fase. A quel punto, a partire dalla Festa dell’Unità di Genova, Berlinguer cambiò gradualmente linea politica per salvare il salvabile della forza sociale e politica del PCI.
Di conseguenza, nei primi anni Ottanta, la posizione originariamente moderata e «centrista» della segreteria del PCI fu dallo stesso Berlinguer del tutto rovesciata, con la scelta della linea dell’alternativa, del «partito diverso», della questione morale, con le conseguenti battaglie frontali sui missili e sul punto di contingenza. In sostanza Berlinguer passò da una politica di «intesa» ad una linea di scontro frontale con la DC. Per ciò che riguarda il PSI, invece, la linea della conflittualità è stata permanente: anche nella fase della ricerca di una intesa con la DC essa era stata sempre funzionale allo «strangolamento» dei socialisti, che dovevano essere chiusi in una sorta di «morsa» dall’accordo fra i due maggiori partiti. Invece nei primi anni Ottanta Berlinguer passò ad una linea di scontro politico sia con il PSI sia con la DC e di scontro sociale con i grandi gruppi economici, in primo luogo con la FIAT.
Nella scelta della strategia del compromesso storico e poi nella gestione politica dell’unità nazionale con l’appoggio ai governi Andreotti ci fu una convergenza fra il «centro» del PCI (Enrico Berlinguer, Ugo Pecchioli, Luciano Barca, Adalberto Minucci, Fernando Di Giulio, Alessandro Natta) e la «destra comunista» (Giorgio Amendola, Paolo Bufalini, Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Giovanni Cervetti, Carlo Galluzzi, Napoleone Colajanni, Eugenio Peggio), anche se, al fondo, vi erano delle differenze profonde di impostazione politica generale che emersero specialmente quando questa linea entrò in crisi: per i berlingueriani il rapporto preferenziale era con la DC e, in esso, con Aldo Moro, e la contrapposizione più ricercata e praticata era quella con Craxi; per la «destra comunista», ferma l’intesa con la DC che gestiva il potere (Andreotti), l’obiettivo di fondo era quello, all’interno di quella strategia, di stabilire un rapporto positivo con il PSI e con Craxi.
Portando avanti la tematica dell’incontro con la DC Berlinguer esprimeva una posizione che aveva punti di continuità con la strategia togliattiana, ma introdusse crescenti elementi innovativi sul terreno della politica estera e dei rapporti con l’URSS.
Ancora negli articoli sul compromesso storico, sia pure in modo lievemente criptico, Berlinguer diceva chiaramente che «l’anima politica» del PCI era largamente condizionata dalla divisione del mondo in due blocchi e dai rapporti organici del partito con l’URSS.
La scelta della strategia del compromesso storico fu fatta subito dopo il colpo di Stato di Pinochet in Cile, realizzato d’intesa fra la destra cilena e l’«imperialismo americano». Berlinguer voleva esorcizzare quel pericolo in Italia stabilendo un forte rapporto non solo con la sinistra democristiana, ma anche con il centro di quel partito, cioè con Moro e con Andreotti.
Sia pure con qualche cautela da parte di Berlinguer – in modo assai più esplicito da parte di Franco Rodano –, c’era però una paradossale finalizzazione «ideologica» del compromesso storico: solo attraverso di esso sarebbe stato possibile arrivare ad una fuoriuscita dal sistema capitalistico. Anzi, il rifiuto dell’alternanza del 51% era motivato proprio sulla base della considerazione che, per realizzare trasformazioni «qualitative» della società italiana, era necessario ben altro che una risicata e striminzita maggioranza di «sinistra»: il contributo dei «cattolici» a trasformazioni «qualitative» della società italiana era considerato fondamentale da Berlinguer e da Rodano, ed era il tratto fondamentale di un PCI «che la sapeva lunga» e che pensava e progettava in grande, andando al di là sia dell’operaismo del PCF sia delle angustie strategiche di molti partiti socialdemocratici che gestivano la loro forza sulla base di piattaforme «economiciste» fondate sulla buona e corretta gestione dell’esistente. L’obiettivo di Berlinguer, ispirato su questo punto da Franco Rodano, era costituito appunto dalla ricerca di un’intesa strategica fra il PCI e una DC orientata a sinistra (Moro, Zaccagnini, la «sinistra di base», le ACLI, la CISL) per una trasformazione qualitativa della società, superando il consumismo privato (di qui la linea dell’«austerità» e della «socializzazione del consumo») e innestando «elementi di socialismo» nel sistema economico capitalista.
Rifiutando l’ipotesi di un’alternanza fondata sulla ricerca del 51%, in effetti Berlinguer e Rodano per un verso esorcizzavano la possibilità di una trasformazione socialdemocratica del PCI (che appunto sarebbe stata indispensabile per costruire l’alternativa di sinistra) e per altro verso ritenevano che l’incontro con il movimento cattolico e la stessa DC avrebbe fatto emergere le componenti anticapitaliste fortemente presenti in essi. A quel punto, da un crogiolo politico-culturale molto più vasto del 51%, potevano scaturire trasformazioni qualitative e non meramente quantitative della società italiana quale era il «mediocre» orizzonte della socialdemocrazia europea fondata sulla gestione del welfare.
In tutto ciò l’impostazione di Berlinguer e ancor più quella di Rodano si differenziavano profondamente dall’interpretazione dell’incontro fra la DC e il PCI che ispirava la destra comunista e anche qualcuno dei dirigenti più vicini allo stesso segretario del PCI come Luciano Barca.2
Infatti, l’impostazione data dalla destra comunista al compromesso storico e alla stessa politica di unità nazionale era del tutto pragmatica ed empirica. Essa partiva dalla convinzione che i rapporti di forza, derivati dalla maggioranza relativa conquistata dalla DC, dal successo elettorale del PCI, dalla debolezza del PSI e dalla divisione internazionale del mondo, e la situazione gravissima dell’economia italiana imponevano un’intesa fra la DC e il PCI come unica via per dare un governo stabile e democratico al paese e per affrontare questioni economico-sociali assai serie. Si trattava in sostanza di una sorta di «grande coalizione» dimezzata, attraverso la quale il PCI si sarebbe affermato come forza di governo e si sarebbe gradualmente trasformato in un grande partito socialdemocratico e riformista.
Per perseguire questo obiettivo la destra comunista riteneva che comunque andava ricercato un rapporto preferenziale con il PSI, a maggior ragione quando esso, con Craxi, aumentò il suo peso politico e la sua iniziativa: l’obiettivo era quello di riassorbire il nuovo protagonismo socialista all’interno di una sapiente e duttile strategia del PCI, priva degli ideologismi di Rodano e delle durezze settarie di Berlinguer. In questo quadro Amendola, e anche alcuni berlingueriani come Barca, dava un grande peso all’intesa con i gruppi economici privati, al «patto fra i produttori», volto ad aggredire e a ridurre le posizioni di rendita. Non si sa se consapevolmente o meno, nel «patto dei produttori» si profilava una sorta di alternativa programmatica alla DC, visto che essa difendeva proprio molte posizioni di rendita e livelli elevati di spesa pubblica, ma certamente esso marcava una distinzione rispetto al pericolo di una gestione a basso livello della politica di unità nazionale realizzata fra alcuni dirigenti berlingueriani (Pecchioli, Di Giulio) e il factotum andreottiano Franco Evangelisti.
Invece per Rodano il compromesso storico era una sorta di «punto terminale» di tutta la vicenda storica del nostro paese, iniziata con il risorgimento laico e con il non expedit vaticano: esso doveva addirittura concludere l’incontro fra le masse popolari cattoliche e comuniste – intermediato nell’immediato dall’intesa fra la DC di Moro e il PCI di Berlinguer – con la formazione di un grande partito unico. Berlinguer, Rodano e Tatò avevano un punto politico comune, quello di considerare una parte della DC (Moro, Zaccagnini, la «sinistra di base», lo stesso Andreotti) come l’alleato preferenziale, e il PSI di Craxi come il vero nemico politico, ideologico ed anche etico.
L’analisi di fondo di Berlinguer sulla DC, contenuta in primo luogo nei tre articoli su «Rinascita» nei quali fu lanciata la prospettiva del compromesso storico, era quella che la DC era un partito cangiante, una sorta di sensibile sismografo della società italiana, che finisce con l’orientare la sua politica sulla base dei rapporti di forza.
In questo quadro Franco Rodano portava anche alcune suggestioni culturali assai spericolate che però, paradossalmente, oggi possono costituire uno dei presupposti culturali dotati di un certo spessore nella formazione del Partito democratico.
La strategia proposta da Rodano era che il compromesso storico fosse portato fino alle estreme conseguenze, fino cioè alla edificazione di una sort...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La linea rossa
  3. I. L’anomalia italiana
  4. II. La questione Gramsci
  5. III. Palmiro Togliatti e il suo ruolo nella rifondazione del PCI
  6. IV. Enrico Berlinguer dal compromesso storico all’alternativa
  7. V. Il cambio del nome, dal PCI al PDS. Achille Occhetto, Massimo D’Alema, Piero Fassino
  8. VI. Dai DS al Partito democratico
  9. VII. Le vicende del Partito democratico, il voto del 13-14 aprile 2008, le dimissioni di Walter Veltroni
  10. VIII. Il Congresso del Partito democratico e le elezioni regionali
  11. IX. Il dibattito nel Partito democratico
  12. X. Crisi e resurrezione di Rifondazione comunista
  13. XI. La crisi finanziaria del capitalismo mondiale e l’anomalia italiana
  14. Note
  15. Copyright