Nuovi Argomenti (9)
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Nuovi Argomenti (9)

  1. 368 pagine
  2. Italian
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Nuovi Argomenti (9)

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Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Mauro Martini, Tarcisio Tarquini, Davide Martinelli, Dacia Maraini, Giorgio Montefoschi, Sandro Veronesi, Raffaele Manica, Carola Susani, Rocco Carbone, Romana Petri, Andrea Gibellini, Valeria Viganò, Tommaso Giartosio, Flavio De Bernardinis, Michele Mari, Paolo Del Colle, Victor Cavallo, Piero Pompili, Brian Castro, Andrea Barzini, Angelo Ferracuti, Stefano Azzarelli, Maria Benedetta Cerro, Stefano Raimondi, Anne Michaels, Andrzej Wat, Riccardo Chiaradonna, Massimiliano Capati, Pablo Echaurren, Marcello Cavagna, Lorenzo Pavolini, Arnaldo Colasanti.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852045493
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GRAN MAESTRO


Brian Castro

Non c’è tempo per raccontarvi di Ghoughassian. Potrei riempire pagine e pagine su di lui; pagine che forse un giorno qualcuno potrebbe leggere con scetticismo, rifiutandosi – scetticamente – di condannarlo. Tanto più che la gente detesta condannare i geni. Oh, uso questa parola in modo incondizionato perché sono uno di quei sentimentali che ancora credono nella genialità. È il risultato della mia educazione, rimanere abbagliato dal talento e incrementarne la reputazione rendendo testimonianza delle sue manifestazioni, dei suoi misteri, dei suoi capricci, veri o apocrifi.
Ghoughassian portava al mignolo un grosso anello di diamanti. Ma non c’è tempo di soffermarsi su questo.
Mio padre era un ebreo mancato. Aveva amici ebrei e romanzava il loro talento. Gli piaceva considerarsi in cammino sulla corda tesa fra talento e persecuzione, forse perché non era né dotato né perseguitato; o forse perché era perseguitato dalla sua mancanza di talento. Quel talento, cioè, di far soldi costruito su una solida base di conquista intellettuale; il talento per essere un grande edificatore di Classe e Cultura (Ghoughassian direbbe che mio padre voleva la botte piena e il giudeo ubriaco. Il mio amico andava matto per simili brutalità).
Mio padre invidiava lo humour ebraico, reso ogni volta vano dalla sua incapacità di dargli vita, incapacità di cogliere il baluginare e la ricchezza delle sue distorsioni, dei suoi rivolgimenti; tuttavia era visibilmente compiaciuto quando riusciva a ripetere una storiella, assaporandone sulla lingua l’aspra superficie.
“La salvezza? Non cercarla mai in tutta serietà.”
Apprezzava anche la stringatezza, quando rideva sbuffava, e liberava le cavità nasali per una più precisa emissione.
“Se ci fosse una razza in grado di tener testa agli ebrei in quanto a soldi, non potrebbe essere altro che la razza armena.”
Mio padre era rozzo quando si trattava di razze o nazionalità. Come quelli della sua generazione, che cavalcavano gloriosamente i trionfi del colonialismo, egli andava per le spicce per non dover fare uso di tatto e sensibilità.
Mio padre fu l’unica persona che nella Shanghai degli anni ’20 cambiò nome tre volte con atti unilaterali. Fu Borowski nella sua fase russa, Byrne nel suo periodo irlandese e Bernstein quando capitò fra gli ebrei. Quando morì scolpirono “Burnside” sul marmo tombale, semplice errore oppure inesorabile scherzo finale che sanciva per lui un inferno cattolico e una realtà ebraica.
Erano passati appena cinque anni dai processi di Norimberga. Fu stroncato da un attacco di cuore sul nuovo posto di lavoro, in una ditta di esportazioni a Hong Kong. Evidentemente avrebbe preferito il martirio, non fosse stato per il suo gagliardo senso dell’ironia, che lo dispensava sempre dallo sporcarsi le mani. Proprio quando stava per iniziare la sua èra armena, la morte lo colse all’improvviso, il suo cuore non resse quando scoppiò a ridere per una storiella ebraica che il padre di Ghoughassian gli aveva appena raccontato.
Tutto ciò non dice molto di Ghoughassian. Ghoughassian ed io emigrammo in Australia durante gli anni del “popolare o perire”. Eravamo convinti di essere angeli misericordiosi. Mettemmo su un emporio di importazioni nella zona nord di Sydney. Vendevamo ricami cinesi, pizzi di pregio e biancheria. Poi andammo a rotoli. Tutta colpa di Ghoughassian. Ma forse questa è un’altra storia, da raccontare in una notte piovosa, su un treno in corsa verso qualche posto lontano... Ma no, eccola qui. Rimaniamo un po’ in sospeso.
Ghoughassian era solito venire da me quasi ogni sera a giocare a scacchi. Allora vivevo in una bella casa, con una vista superba sulla baia e sul ponte. A quel tempo potevi ancora sentire il profumo dei frangipani fluttuare sull’acqua, prima che l’inquinamento ti confondesse i sensi. Nelle sere calde giocavamo a scacchi sulla veranda, disturbati soltanto dal sordo impulso dei traghetti dagli scafi di legno che cigolavano e urtavano il molo sotto di noi. Di tanto in tanto sentivamo grida nel vento, che giungevano a noi dal Luna Park, dove i turbini delle giostre procuravano una schizofrenia senza fine; le luci, l’aria incrostata di sale, davano a quelle ore di ozio l’eccitazione e l’atmosfera del viaggio e del carnevale.
Stavamo lì volentieri, tutti e due, uomini di mezza età dalla calvizie incipiente, convinti della nostra bruttezza; emigranti, repellenti per le donne locali come lo era il Ddt per le zanzare.
Ghoughassian portava un anello di diamanti al mignolo della mano sinistra. Quando muoveva i pezzi degli scacchi, il diamante accecava. Dava alle sue mosse indubbia autorità, quando sbatteva il finto avorio sul suo riquadro.
“Ah!” diceva massaggiandosi lo stomaco con soddisfazione.
“Geniale!” pensavo.
Non c’era alcun dubbio. Le mosse di Ghoughassian erano calcolate alla perfezione. Sembrava che avesse memorizzato tutte le aperture dei migliori maestri. Era Cancelliere della Scacchiera, dominava lo spazio con le sue lunghe artistiche dita, mentre io armeggiavo come un salame, elefantesco nella mia sedia di vimini, con l’ecclesiastica stravaganza dei miei alfieri. I suoi cavalli saltavano sulle mie ridotte, mentre lui si grattava il neo sulla guancia. (Come odiavo quel neo, e come facevo voti che prima o poi diventasse canceroso). Ancora, i miei lenti pedoni si spingevano avanti in agonizzanti paradossi (coprendo solo metà della distanza che avrebbero dovuto percorrere; non arrivando mai) ed erano presto messi in scacco, alcuni mangiati en passant, unico accadimento di quelle sere quando solo le zanzare erano indaffarate sui banchetti mobili dei nostri corpi e la vita restava talmente in sospeso che quasi sentivi la goccia soffocata del tempo come acqua in un fosso profondo. “Those were the days”, potrei cantare; giorni colorati dalla sfumatura blu del passato.
Naturalmente oggi Ghoughassian ha ancora il suo anello di diamanti, e tanto di più, mentre io faccio la figura dello sciocco ad ammassare frasi, come se importassero qualcosa.
Tutto cominciò quel giorno caldo e orribile, in negozio, quando l’aria sembrava soffocata dai pizzi ed io sputavo inchiostro cercando di far quadrare i libri contabili che Ghoughassian aveva trascurato – “Una semplice bagattella” diceva, ed eravamo sotto di 500 sterline – bisognava concedere questa licenza al suo talento espansivo/dispendioso – e quando mia sorella, prodigiosamente dotata anch’essa, fece il suo ingresso vestita di seta nera. Ghoughassian aveva un debole per la seta nera. Mia sorella non aveva un debole per gli uomini magri, calvi e con nei. Arrivata da poco, era rimasta da me per qualche giorno prima dell’inevitabile litigio. Andò a stare per conto suo, e poi, fosse per solitudine o per dispetto (sapeva che ero molto occupato), cominciò a fare visite al negozio. Mia sorella aveva un atteggiamento molto riservato nei confronti della gente, che definiva “gli stranieri”, e non aveva stretto amicizie. Questo non voleva dire che uomini (e qualche donna) non la concupissero, con occhi incollati come mosche alla sua figura. Ghoughassian, che lei prendeva in giro, era solo uno dei tanti in un porto accogliente. Lei aveva un debole, tuttavia, per gli uomini che scrivevano libri. Non importava che tipo di libri. Ebbene sì. Ghoughassian era anche uno scrittore, nel suo genere. Durante l’orario di negozio aveva scritto una biografia di Philidor, il compositore d’opera e maestro di scacchi. Ne aveva persino vendute venti copie. Ecco perché i miei libri contabili non tornavano.
Il profumo di lei era come un incenso. Ghoughassian cadde in ginocchio, completamente sbalordito come al solito, nell’omaggio alla sua bellezza. Lei gli sorrise, i suoi grandi occhi non si staccavano più da quelli di lui. Era una vera forza, tenere un genio in soggezione. Dentro di me l’imbarazzo saliva come la gonna sulle gambe di lei.
Senza una parola, ipnotizzati, Ghoughassian e mia sorella ballarono un tango sullo stretto pavimento del nostro piccolo negozio, scambiandosi fra le labbra ricami di rose e asciugando la traspirazione della loro turgida sensualità sui miei costosi fazzoletti fatti a mano a Hong Kong.
Quello, si potrebbe dire, fu solo l’inizio. Il diamante di Ghoughassian diventò più grosso. E lui non si presentò più per la partita a scacchi. La sera stavo a guardare la baia bevendo la mia ultima bottiglia di porto, mentre i pezzi gettavano lunghe ombre sulla scacchiera che si stava deformando e l’ICI [Industrial Chemical Industry] aveva iniziato a ricamare l’aria con acri fumi notturni di sostanze chimiche che si spingevano fino al cielo. In negozio Ghoughassian divenne taciturno. Era irrequieto, usciva per lunghe pause caffè e faceva maratone telefoniche, bisbigliando nel ricevitore in quella sua caratteristica posizione ingobbita come se si stesse annusando le ascelle. Giunsi al punto di dovergli chiedere notizie di mia sorella. Pensa un po’.
“Lavora per la società dei telefoni? Certo, giustamente. Be’. Dille di sistemare un po’ la mia bolletta. Quella che tu stai facendo lievitare.”
Ghoughassian non ebbe più tempo per gli scacchi. Iniziò a fare body-building, invece. Se gli menzionavo Lasker, lui pensava a un tipo di sospensorio.
“Stasera scacchi?” gli chiedevo.
“... Torace?” rispondeva. “Quaranta pollici, in espansione.”
Aveva messo su un bel fisico. Io maturai una certa invidia. La mia testa era piena di cifre, i miei capelli di forfora. Non avevo tempo di discutere di pesi e misure. Fu allora, all’incirca, che sia Ghoughassian che l’Australia diventarono metrici decimali. Lui era bravissimo in quei calcoli.
“Surclasserà il sistema britannico” diceva.
“Surclasserà che?” chiedevo, mentre il negozio mi scivolava da sotto i piedi, con tutti quei pesi del mondo.
Avoirdupois” diceva Ghoughassian, ancora abbastanza francofilo, mentre, quel giorno alla settimana che si presentava in negozio, faceva piegamenti sulle gambe.
“No grazie” ribattevo. Odiavo le pere. Mi ricordavano la forma del mio corpo.
Davvero. Il torace mi si stava incavando. Le spalle mi si arrotondavano. Le mie natiche parevano in espansione da tanto sedersi. Cominciai a odiare quelle espressioni gracidanti di Ghoughassian.
Non molto tempo dopo tutto andò a rotoli. Mi revocarono la licenza di importazione e Ghoughassian scomparve con mia sorella. Vendetti la casa e affittai un appartamento nei quartieri occidentali con una vista superba su autoparcheggi, cassonetti dell’immondizia e ferrovia. Di notte i treni coincidevano con i miei sogni. Feci viaggi vertiginosi sull’Orient Express. Al mattino mi svegliava la luce del sole attraverso i vetri rotti e anneriti delle finestre, respiravo l’aria settica di arance verdi di muffa e digrignavo i denti al rombo di terremoto dei treni, agli scarichi della fogna e alle scoregge fumose degli scappamenti.
Seppi allora cos’erano i quartieri occidentali: terra desolata dell’economia del benessere, battuta dalla calura e negata alla speranza. Ma credo che, in fin dei conti, ero fortunato. Possedevo il bene più prezioso: il tempo. Ascoltavo la vecchia signora italiana della porta accanto rimproverare il figlio scapestrato che voleva mollare il lavoro. Anche nella collera i suoi toni erano melliflui. Il figlio, quando mi vede al balcone, mi traduce tutto con una smorfia sdegnosa sul viso.
A volte mi capitava di osservare il vecchio dell’appartamento opposto al mio, dall’altra parte dell’autostrada. In piena estate, avvolto nella vestaglia, prendeva un po’ d’aria sul suo balcone 6 x 4. Poi scomparve. Per un certo tempo segnalavo incidenti e panne ai conducenti di carri-attrezzi e ricevevo una quota pari all’1% per ogni rimorchio effettuato. Quindi anche questa fonte si prosciugò. La vita mi sfuggiva, affondava, portando con sé il seme di qualcosa di prezioso, che era impossibile recuperare.
Il mio vicino, un informatico in carriera che aveva la mania delle spider (era proprietario di una Bugatti rossa), mi presentò al direttore della sua scuola serale. Presi a interessarmi di scrittura creativa. Ogni giovedì sedevo in una classe di una dozzina di aspiranti scrittori ad ascoltare un eccentrico profugo ungherese che ci parlava di scrittura e liberazione. Ci minacciava con testi oscuri e finì persino per colpirci in testa con un massiccio volume di teatro ungherese, quando all’improvviso si ammalò e dovette ritirarsi.
La vita persisteva monotona, uniformemente apatica. Ogni tanto questo vicino di casa, un uomo piccolo dalla barba tanto marcata da far sembrare la sua mascella inferiore una gigantesca mandibola, mi bloccava fuori della porta cercando di impressionarmi con le caratteristiche tecniche di Austin Healey, Sprites e M.G. Lo invitai per un drink. La sua barba si agitava mentre lui sorbiva il mio scadente porto come un pellicano. La sua competenza negli scacchi era quanto mai improntata ad un’ordinaria varietà da computer, senza stile e immaginazione, di una banalità brutale. Tutt’altra cosa. Niente genio, niente gambetti, niente finezze. Il mio snobismo, naturalmente, derivava dal fatto che sentivo la mancanza di Ghoughassian.
Poi un giorno Ghoughassian comparve su una Chevrolet rossa decappottata; sai, il modello con le alette taglienti come quelle di un jet, che ti affettano se gli stai troppo vicino. Portava un fazzoletto al collo e una camicia a pois.
“Ciao” disse balzando fuori dalla macchina. Aveva occhiali scuri e scarpe di tela.
Era in forma, abbronzato. Il diamante al dito era cresciuto del doppio. Notai che nello sformato sedile posteriore della Chev c’erano dei bilancieri. Si era fatto un trapianto di capelli. I capelli gli spuntavano a ciuffi sul cranio, come piccole antenne...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nuovi Argomenti (9)
  3. ARGOMENTI
  4. ROMA
  5. SCRITTURE
  6. CANTIERE
  7. GIORNALI DI BORDO
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