Perché a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha.
Mt 25,29
In un caldo giorno primaverile del maggio 2007 i Medicine Hat Tigers e i Vancouver Giants giocarono la finale di campionato della Memorial Cup a Vancouver, nella Columbia Britannica. I Tigers e i Giants erano le due squadre migliori della Canadian Hockey League, che è, a sua volta, la migliore lega di hockey giovanile del mondo. I giocatori erano le future stelle di quello sport: diciassettenni, diciottenni e diciannovenni che pattinavano e lanciavano dischi più o meno da quando muovevano i primi passi.
La partita fu trasmessa dalla televisione nazionale canadese. Le bandiere della Memorial Cup erano appese ai pali dei lampioni lungo le strade del centro di Vancouver. Lo stadio era gremito. Sul ghiaccio fu srotolato un lungo tappeto rosso e l’annunciatore presentò le autorità presenti all’incontro. Innanzitutto il primo ministro della Columbia Britannica, Gordon Campbell. Poi, in un fragore di applausi, fu la volta di una delle leggende dell’hockey, Gordie Howe. «Signore e signori,» tuonò l’annunciatore «Mr Hockey!»
Per i successivi sessanta minuti le due squadre giocarono una partita vivace, aggressiva. I Giants segnarono per primi all’inizio del secondo tempo, su rimbalzo di Mario Bliznak. In un momento successivo del secondo tempo toccò ai Tigers, quando il marcatore della squadra, Darren Helm, pareggiò con un tiro che il portiere dei Giants, Tyson Sexsmith, non riuscì a parare. I Giants tornarono in vantaggio nel terzo tempo, e quando i Tigers sostituirono il portiere per disperazione, i Giants segnarono una terza volta.
Subito dopo la partita i giocatori, i loro familiari e i cronisti sportivi di tutto il paese si assieparono nello spogliatoio della squadra vincitrice. L’aria era densa del fumo dei sigari e intrisa dell’odore dello champagne e del sudore delle divise da hockey. Sulla parete era stato appeso uno striscione con una scritta dipinta a mano: «Scegli di combattere». Don Hay, l’allenatore dei Giants, era al centro della stanza con le lacrime agli occhi. «Sono così orgoglioso di questi ragazzi» disse. «Guardatevi intorno. Non ce n’è uno che non abbia dato il meglio di sé.»
L’hockey canadese è una meritocrazia. Migliaia di bambini cominciano a giocare come «principianti» ancor prima di andare all’asilo. Da quel momento in poi ci sono società di hockey per ogni classe di età, i giocatori sono vagliati, selezionati e valutati a ogni livello, e quelli dotati di maggior talento vengono scelti e preparati per il livello successivo. A quindici anni la crème de la crème è convogliata in una lega d’élite chiamata Major Junior A, al vertice della piramide. E se la tua squadra gioca la finale della Memorial Cup, vuol dire che sei al top del top.
È così che la maggior parte degli sport seleziona i propri futuri campioni. È il modo in cui è organizzato il calcio in Europa e in Sud America e con cui si scelgono gli atleti olimpionici. Non si discosta molto dal metodo con cui, tanto per dire, il mondo della musica classica sceglie i suoi futuri virtuosi, quello del balletto seleziona i futuri danzatori o le migliori accademie scelgono gli scienziati e gli intellettuali del futuro.
L’accesso alla Major Junior A non si può comprare. Poco importa chi sono tuo padre o tua madre, o chi era tuo nonno, o qual è il ramo di attività della tua famiglia. Poco importa se vivi nell’angolo più remoto della provincia più settentrionale del Canada. Se hai la stoffa, la vasta rete di tecnici dell’hockey e di scopritori di talenti ti troverà, e se sei disposto a darti da fare per sviluppare quel talento, il sistema ti premierà. Nell’hockey il successo si basa sui meriti individuali, due parole che hanno la stessa importanza. I giocatori sono valutati in base alle loro prestazioni, non a quelle di qualcun altro, in base alle loro capacità, non a qualche altro elemento arbitrario.
Ma è proprio così?
In questo libro parliamo dei «fuoriclasse», cioè degli uomini e delle donne che compiono imprese straordinarie. Nei capitoli seguenti vi presenterò un fuoriclasse dopo l’altro: geni, magnati dell’industria, rockstar e programmatori di software. Scopriremo i segreti di un famosissimo avvocato, verificheremo che cosa distingue i piloti migliori da quelli che hanno provocato una sciagura aerea, e cercheremo di capire perché gli asiatici sono tanto bravi in matematica. E quando esaminerò le vite di queste persone eccezionali – chi eccelle, chi ha talento, chi è motivato – sosterrò che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel nostro modo di interpretare il successo.
Qual è la domanda che ci poniamo sempre quando pensiamo alle persone che hanno avuto successo? Vogliamo sapere come sono, conoscerne la personalità, sapere quanto sono intelligenti, che vita conducono, quali talenti innati possiedono. Diamo per scontato che le caratteristiche individuali spieghino perché una certa persona abbia raggiunto l’apice.
Nelle autobiografie scritte dal miliardario/imprenditore/rockstar/celebrità di turno che si pubblicano ogni anno la trama è sempre la stessa: il nostro eroe nasce da una famiglia modesta e grazie alla determinazione e al talento conquista faticosamente la grandezza. Nella Bibbia, Giuseppe viene cacciato dai fratelli e venduto come schiavo, per poi rialzarsi dalla propria condizione e diventare il braccio destro del faraone in virtù della sua prontezza di spirito e delle sue capacità introspettive. Nei famosi romanzi scritti da Horatio Alger nel XIX secolo, bambini nati poveri arrivano alla ricchezza grazie a un mix di audacia e spirito di iniziativa. «Nel complesso, penso che sia uno svantaggio» disse tempo fa Jeb Bush, parlando della propria carriera di imprenditore, in relazione al fatto che era figlio e fratello di due presidenti americani e nipote di un facoltoso banchiere di Wall Street, nonché senatore degli Stati Uniti.1 Quando si candidò alla carica di governatore della Florida, parlò spesso di sé come di un self made man e il fatto che nessuno batté ciglio di fronte a quella definizione dimostra fino a che punto associamo il successo all’impegno individuale.
«Alzate la testa» disse parecchi anni fa alla folla Robert Winthrop scoprendo la statua del grande eroe dell’indipendenza americana Benjamin Franklin «e guardate l’immagine di un uomo venuto dal niente, che non deve nulla ai genitori e non ha avuto favori da nessuno, che non ha goduto dei privilegi dell’istruzione precoce a cui oggi avete accesso – cento volte più di allora –, che svolse le mansioni più umili nelle occupazioni che lo videro impegnato in giovane età, ma visse tenendo testa ai re e morì lasciando dietro di sé un nome che nessuno al mondo dimenticherà mai.»
In Fuoriclasse cercherò di convincervi che le spiegazioni del successo in termini prettamente individuali non reggono. Le persone non vengono dal nulla. Dobbiamo sempre qualcosa ai nostri genitori e a chi ci ha favorito. Chi tiene testa ai re può dare l’impressione di aver fatto tutto da solo. Ma è invariabilmente il beneficiario di qualche recondito privilegio, di qualche occasione fuori dell’ordinario, di un retaggio culturale che gli ha permesso di imparare, di lavorare con impegno e di dare un senso al mondo, e il suo è un percorso che non tutti possono seguire. La cultura a cui apparteniamo e l’eredità che ci hanno trasmesso i nostri antenati plasmano i risultati che sapremo conseguire come neppure immaginiamo. In poche parole, non basta chiedersi come sono fatte le persone di successo. Per chiarire quale sia la logica per cui alcuni ottengono il successo che sfugge ad altri, dobbiamo chiederci da dove vengono.
Spesso i biologi parlano di «ecologia» dell’organismo: la quercia più alta non è tale soltanto perché è cresciuta dalla ghianda più resistente; è diventata la più alta perché nessun altro albero le ha nascosto la luce del sole, il terreno circostante era fertile e profondo, nessun coniglio le ha rosicchiato la corteccia quand’era un arboscello e nessun taglialegna l’ha abbattuta prima che si sviluppasse. Sappiamo bene che le persone di successo sono cresciute da semi resistenti. Ma sappiamo abbastanza della luce del sole a cui si sono scaldate, del terreno in cui hanno affondato le radici, dei conigli e dei taglialegna che hanno avuto la fortuna di evitare? Questo libro non parla degli alberi alti, parla delle foreste. E l’hockey è un buon punto di partenza, perché spiegare chi raggiunge i massimi livelli in quel mondo è assai più interessante e complicato di quanto sembri. Anzi, se vogliamo dire la verità, la spiegazione è assolutamente inaspettata.
Esaminate attentamente l’organico dei Medicine Hat Tigers nel 2007 riportato alla pagina seguente. Osservatelo bene e ditemi se ci trovate qualcosa di strano.
Non rimaneteci male se non ci siete riusciti, perché per molti anni nessuno nel mondo dell’hockey se ne è accorto. Fu soltanto a metà degli anni Ottanta che uno psicologo canadese di nome Roger Barnsley attirò per primo l’attenzione sul fenomeno dell’età relativa.2
Barnsley stava assistendo nell’Alberta meridionale a una partita dei Lethbridge Broncos, una squadra che giocava nella Major Junior A, la stessa lega di hockey dei Vancouver Giants e dei Medicine Hat Tigers.3 Era insieme alla moglie Paula e ai due figli. La moglie stava leggendo il programma quando le capitò sotto gli occhi un elenco dei giocatori simile a quello che vi ho appena sottoposto.
«Roger,» disse «sai quando sono nati questi ragazzi?»
Barnsley rispose affermativamente. «Hanno tutti tra i sedici e i vent’anni, perciò sono nati alla fine degli anni Sessanta.»
«No, no» incalzò Paula. «Parlo del mese.»
«Pensavo che fosse impazzita,» rammenta Barnsley «poi però diedi una scorsa all’elenco e mi accorsi che aveva ragione. Chissà perché, c’era un numero incredibile di giocatori nati in gennaio, febbraio e marzo.»
Quella sera Barnsley tornò a casa e cercò le date di nascita di quanti più professionisti del gioco dell’hockey gli riuscì di trovare. Poi, insieme alla moglie e al collega A.H. Thompson, raccolse i dati statistici di tutti i giocatori dell’Ontario Junior Hockey League. Stesso risultato. Il n...