Grassi, dolci, salati
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Grassi, dolci, salati

Come l'industria alimentare ci ha ingannato e continua a farlo

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  1. 464 pagine
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Grassi, dolci, salati

Come l'industria alimentare ci ha ingannato e continua a farlo

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Alla fine degli anni Novanta, in America, le grandi multinazionali del cibo pronto sono sotto attacco: il dilagare epidemico dell'obesità le chiama in causa come corresponsabili di quella che è ormai una preoccupante emergenza sanitaria. Che fare per evitare un disastroso crollo di immagine (e quindi di profitti)? Nella sua approfondita indagine, il premio Pulitzer Michael Moss, giornalista investigativo del «New York Times», ricostruisce le strategie dispiegate dai colossi dell'industria alimentare per accreditarsi come partner affidabili nelle campagne governative contro la cattiva nutrizione. Moss analizza i vari tentativi intrapresi dalle grandi aziende alimentari per ridurre nei loro prodotti la cospicua presenza di zucchero, sale e grassi, le sostanze incriminate. Ma¿ «niente zucchero, niente grassi, niente vendite»: percorrere strade virtuose portava a questi risultati. Per vendere non è possibile prescindere da una buona dose dei tre ingredienti di elezione, perché lo zucchero, oltre a addolcire, aggiunge volume e consistenza; i grassi esaltano la sensazione al palato; con poco sale, molti prodotti perdono la loro «magia». Per questo le società del settore alimentare ne studiano e controllano l'utilizzo in maniera sistematica e nei loro laboratori gli scienziati calcolano il bliss point (il punto di beatitudine), ossia «l'esatta quantità di zucchero, grassi o sale che spedirà i consumatori al settimo cielo».
È ingenuo pensare che i colossi del settore intendano comportarsi con particolare sensibilità sociale: l'obiettivo della grande produzione è unicamente quello di fare profitti e conquistare nuove quote di mercato battendo i concorrenti. Tale obiettivo è però raggiunto a un prezzo che il consumatore non è cosciente di pagare, creando cioè comportamenti compulsivi e vere e proprie dipendenze alimentari. I clienti fedeli vengono definiti dalle aziende «forti utilizzatori»: un termine, osserva l'autore, «che evoca un'immagine di tossici alla ricerca della loro dose».
Se noi consumatori siamo schiavi di zucchero, sale e grassi, che rendono irresistibili i cibi pronti, i produttori stessi non possono rinunciare alla loro presenza: in mano loro, «il sale, lo zucchero e i grassi - non sono sostanze nutritive quanto piuttosto armi, armi che certo sfoderano per sconfiggere la concorrenza, ma anche per indurci a tornare ancora per altri acquisti». Con buona pace delle conseguenze per la nostra salute.

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Informazioni

Parte prima

ZUCCHERO

I

Sfruttare la biologia del bambino

La prima cosa da sapere dello zucchero è questa: il nostro corpo ha un’innata predisposizione per i dolci.
Dimentichiamo quello che abbiamo imparato a scuola dell’antiquato schema denominato mappa della lingua, stando al quale i nostri cinque gusti principali sono rilevati da cinque distinte parti di quest’organo.1 La base ha un’ampia area sensibile all’amaro, i lati colgono aspro e salato, e la punta è l’unica a percepire il dolce. La mappa della lingua è sbagliata. Come i ricercatori avrebbero scoperto negli anni Settanta, i suoi creatori fraintesero l’opera di un laureato tedesco pubblicata nel 1901; i suoi esperimenti dimostravano solo che potremmo percepire un poco più di dolcezza sulla punta della lingua. A dire il vero, l’intera bocca va matta per lo zucchero, compreso il tratto superiore detto palato. Esistono particolari recettori per la dolcezza in ciascuna delle diecimila papille gustative della bocca e tutte, in un modo o nell’altro, sono collegate alle parti del cervello denominate zone del piacere, dove siamo ricompensati per avere rimpinzato il corpo di energia. Ma non è tutto. Gli scienziati stanno trovando recettori del gusto interessati allo zucchero lungo l’intero esofago, fino allo stomaco e al pancreas, che sembrano intrattenere complessi legami con i nostri appetiti.
La seconda cosa da sapere sullo zucchero è che i produttori di alimenti sono ben consapevoli della follia della mappa della lingua, nonché di molti altri motivi per cui abbiamo voglia di dolci. Hanno a disposizione gruppi di scienziati che si specializzano sui sensi, e le aziende sfruttano le loro conoscenze per mettere lo zucchero al proprio servizio in infiniti modi. Non solo lo zucchero rende irresistibile il gusto di cibi e bevande: l’industria ha imparato che può anche essere usato per compiere una serie di miracoli nella produzione, dalle ciambelle che si gonfiano mentre friggono al pane che non diventa stantio, ai cereali tostati eppure morbidi. Tutto questo ha decretato l’onnipresenza dello zucchero negli alimenti industriali. Noi consumiamo in media circa 32 chili di dolcificanti calorici all’anno. Sono 22 cucchiaini di zucchero a persona al giorno.2 Questa quantità è suddivisa in tre parti quasi uguali: lo zucchero derivato dalla canna da zucchero, quello ricavato dalle barbabietole e il gruppo dei dolcificanti a base di mais, comprendente lo sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio (e a questo mix si aggiunge un po’ di miele).
Il nostro amore per lo zucchero e il bisogno irresistibile di consumarne non sono certo una novità. Interi volumi sono stati dedicati alla sua facile ascesa nel corso della storia, quando per provvedere alla sua insaziabile dipendenza la gente superava difficoltà geografiche, conflitti ed enormi ostacoli tecnici. Gli eventi più significativi cominciano con Cristoforo Colombo, che portò con sé la canna da zucchero nel suo secondo viaggio verso il Nuovo Mondo. Qui fu piantata nella spagnola Santo Domingo, lavorata da africani ridotti in schiavitù per produrre uno zucchero granulare che, a partire dal 1516, fu rispedito in Europa per soddisfare il crescente appetito di questa sostanza.3 Il successivo sviluppo degno di nota si ebbe nel 1807, quando un blocco navale britannico contro la Francia interruppe il facile accesso ai raccolti della canna da zucchero e gli imprenditori, in concorrenza per soddisfare la domanda, scoprirono come estrarre lo zucchero dalle barbabietole, che si potevano coltivare senza difficoltà nel clima temperato dell’Europa. La canna e le barbabietole rimasero le due principali fonti di zucchero fino agli anni Settanta del Novecento, quando l’aumento dei prezzi stimolò l’invenzione dello sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio, che era caratterizzato da due qualità interessanti per l’industria delle bevande. Innanzitutto era economico, grazie alle efficaci sovvenzioni federali a sostegno del prezzo del mais, inoltre era liquido, perciò poteva essere pompato direttamente nei cibi e nelle bibite. Nel corso dei successivi trent’anni, il nostro consumo di bibite gassate dolcificate è più che raddoppiato, superando i 151 litri annui a testa e, sebbene da allora si sia ridotto arrivando a circa 121 litri nel 2011, è stata registrata una corrispondente impennata in altre bevande dolci, come i tè, le bibite per sportivi, le acque addizionate di vitamine e le bevande energetiche. Il loro consumo annuale è quasi raddoppiato, avvicinandosi nello scorso decennio ai 53 litri circa a persona.4
Molto meno nota della storia dello zucchero, invece, è l’intensa ricerca che gli scienziati hanno condotto sul suo potere di attrazione, i motivi biologici e psicologici per cui lo troviamo così irresistibile.
Per moltissimo tempo, chi dedicava la propria carriera a studiare la scienza dell’alimentazione non poté che formulare ipotesi sulla portata dell’attrazione esercitata dallo zucchero. La sensazione, non suffragata da prove, era che lo zucchero fosse tanto potente da poterci costringere a mangiare più del dovuto e, dunque, nuocere alla nostra salute. La situazione cambiò verso la fine degli anni Sessanta, quando nella parte settentrionale dello Stato di New York alcuni ratti da laboratorio scoprirono i Froot Loops, i cereali super dolci prodotti dalla Kellogg. I ratti furono nutriti con questi cereali da uno studente laureato di nome Anthony Sclafani che, in un primo momento, lo fece solo per premura nei confronti degli animali affidati alle sue cure.5 Quando si accorse della rapidità con cui li divoravano, però, Sclafani decise di escogitare un test per misurare il loro entusiasmo. I ratti odiano gli spazi aperti; persino nelle gabbie tendono a restare negli angoli e sui lati in ombra. Perciò Sclafani mise una piccola quantità di cereali al centro libero e bene illuminato delle loro gabbie (di norma una zona da evitare) per vedere cosa sarebbe successo. In effetti, i ratti superarono le loro paure istintive e uscirono di corsa allo scoperto per abbuffarsi.
La loro predilezione per i dolci assunse un significato scientifico qualche anno dopo, quando Sclafani (divenuto ricercatore di psicologia al Brooklyn College) cercò di ingrassare alcuni ratti per uno studio. Il normale cibo per cani Purina non funzionava, neppure quando aggiunse molti grassi alla miscela. I ratti non ne consumavano a sufficienza per un aumento di peso significativo. Così Sclafani, memore dell’esperimento con i Froot Loops, spedì uno studente in un supermercato in Flatbush Avenue a comprare biscotti, caramelle e altri prodotti ricchi di zucchero. E i ratti diedero i numeri, non riuscirono a resistere. Amavano soprattutto il latte condensato dolcificato e le tavolette di cioccolata. Nel giro di qualche settimana ne mangiarono tanto da diventare obesi.
«Chiunque possieda delle cavie sa che se dà loro un biscotto lo gradiranno, ma nessuno aveva fatto l’esperimento di dare loro tutto ciò che volevano» mi raccontò Sclafani quando lo andai a trovare nel suo laboratorio a Brooklyn, dove continua a servirsi dei roditori per studiare la psicologia e i meccanismi cerebrali alla base del desiderio di alimenti ad alto contenuto di grassi e di zuccheri. Quando fece proprio questo, quando diede ai suoi ratti tutto quello che volevano, vide sotto una nuova luce il loro forte desiderio di zucchero. Ne erano ghiotti, e questa voglia insaziabile prevaleva in assoluto sui freni biologici che avrebbero dovuto dire loro: alt.
L’esperimento di Sclafani fu descritto in dettaglio in un articolo del 1976 considerato dai ricercatori come una delle prime prove sperimentali dei desideri compulsivi di cibo. Dopo la sua pubblicazione è stato intrapreso un intero corpus di ricerche per collegare lo zucchero all’iperalimentazione compulsiva. In Florida, i ricercatori hanno condizionato i ratti inducendoli ad aspettarsi una scossa elettrica quando mangiano la torta al formaggio, eppure vi si lanciano sopra. A Princeton gli scienziati hanno scoperto che i ratti privati di una dieta zuccherina mostrano sintomi da astinenza, per esempio battono i denti. Questi studi coinvolgono tuttavia solo i roditori, che nel mondo della scienza sono famosi per la loro scarsa capacità predittiva rispetto alla fisiologia e ai comportamenti umani.
Cosa succede con le persone e i Froot Loops?
Per alcune risposte a questo interrogativo e per gran parte delle basi scientifiche su come e perché siamo tanto attratti dallo zucchero, l’industria alimentare si è rivolta al Monell Chemical Senses Center di Filadelfia. Il centro è situato qualche isolato a ovest della stazione dell’Amtrak, in uno scialbo edificio di mattoni di cinque piani che potrebbe passare inosservato nel deserto architettonico della zona chiamata University City se non fosse per Eddy, la gigantesca scultura che si erge a guardia dell’ingresso. Eddy è il frammento di un volto alto tre metri e coglie alla perfezione le ossessioni di chi si trova all’interno dell’edificio: è tutto naso e bocca.6
Quando si varca l’ingresso del centro si ha l’impressione di trovarsi in un club per dottori di ricerca.7 Qui gli scienziati indugiano nei corridoi per scambiarsi nozioni che portano a bizzarre scoperte, come il fatto che i gatti non percepiscano il gusto dolce, o che la tosse che deriva dal sorseggiare un olio d’oliva d’alta qualità sia provocata da un agente antinfiammatorio, forse un ulteriore motivo per cui i nutrizionisti amano tanto quest’olio. Al Monell i ricercatori vanno avanti e indietro tutti indaffarati tra sale conferenze e laboratori pieni di apparecchiature e osservano attraverso finti specchi i bambini e gli adulti che si sottopongono mangiando e bevendo ai molti esperimenti in corso nel centro. Negli ultimi quarant’anni più di trecento fisiologi, chimici, neuroscienziati, biologi e genetisti si sono avvicendati presso il Monell per contribuire a decifrare i meccanismi del gusto e dell’olfatto oltre alla complessa psicologia che costituisce il fondamento del nostro amore per il cibo. Questi scienziati sono tra le principali autorità mondiali in tema di gusto. Nel 2001 hanno identificato la molecola della proteina T1R3 presente nelle papille gustative e responsabile della percezione dello zucchero.8 Più di recente hanno rilevato i sensori dello zucchero diffusi in tutto il sistema digestivo, e ora sospettano che questi sensori svolgano svariati ruoli fondamentali nel nostro metabolismo. Hanno persino risolto uno dei più tenaci misteri della voglia incontrollabile di cibo: lo stato di fame chimica indotto dalla marijuana noto come munchies.9 È avvenuto nel 2009, quando Robert Margolskee, biologo molecolare e direttore associato del centro, ha scoperto insieme ad altri scienziati che i recettori del gusto dolce presenti sulla lingua sono eccitati dagli endocannabinoidi, sostanze prodotte nel cervello per aumentare il nostro appetito. Si tratta delle sorelle chimiche del THC (tetraidrocannabinolo), il principio attivo della marijuana, e questo spiega forse perché fumare marijuana può provocare i morsi della fame. «Le nostre cellule gustative si stanno rivelando più intelligenti di quanto pensassimo, e più coinvolte nella regolazione dei nostri appetiti» mi ha detto Margolskee.
Al Monell, tuttavia, il tema più imbarazzante non è lo zucchero: è il denaro. Circa la metà del bilancio annuale di 17,5 milioni di dollari del centro è finanziata da sovvenzioni federali, cioè dai soldi dei contribuenti, ma buona parte del resto proviene dall’industria alimentare, incluse le grandi aziende, nonché da diverse società del tabacco. Nell’atrio una grande targa d’oro rende omaggio, tra gli altri, a PepsiCo, Coca-Cola, Kraft, Nestlé e Philip Morris. È senza dubbio una situazione strana, che evoca i tentativi passati dell’industria del tabacco di comprare «ricerche» per mettere le sigarette in una luce favorevole. Finanziando il Monell, le aziende si assicurano un accesso privilegiato al centro e ai suoi laboratori. Ottengono l’esclusiva di una prima visione delle ricerche del centro, spesso anche tre anni prima che le informazioni siano rese pubbliche, e hanno anche la possibilità di ingaggiare qualche scienziato del Monell per condurre studi speciali secondo le loro particolari esigenze. Il centro, però, è orgoglioso dell’integrità e dell’indipendenza dei suoi scienziati. Parte del loro lavoro, in effetti, è finanziato dai soldi incamerati con le cause intentate dagli Stati contro i produttori di tabacco.
«Al Monell, gli scienziati scelgono i progetti di ricerca unicamente in base alla loro curiosità e ai loro interessi e sono dediti a perseguire conoscenze fondamentali» ha dichiarato il portavoce del centro in risposta alle mie domande sulla sua struttura finanziaria. In effetti, come avrei scoperto, sebbene il Monell riceva finanziamenti dall’industria, quando parlano del potere esercitato dai loro benefattori alcuni dei suoi scienziati sembrano attivisti del movimento dei consumatori, soprattutto quando entrano in campo i bambini.
Questa tensione tra l’entusiasmo dell’industria per le ricerche al Monell e il disagio del centro riguardo alle pratiche dell’industria risale ad alcune delle primissime ricerche da esso svolte sulle nostre papille gustative in base a età, sesso e razza.10 Negli anni Settanta i ricercatori del Monell scoprirono che i bambini e gli afroamericani avevano una particolare predilezione per cibi salati e dolci. Somministrarono soluzioni di diversi gradi di dolcezza e salinità a un gruppo di 140 adulti e poi a uno di 618 bambini e ragazzi dai nove ai quindici anni; si scoprì che ai bambini piaceva il grado più alto di dolce e salato, persino più che agli adulti. I bambini che scelsero le soluzioni più dolci e più salate erano il doppio degli adulti. (Fu la prima prova scientifica di quello che i genitori già sapevano per istinto, avendo osservato i figli lanciarsi sulla zuccheriera al tavolo della colazione.) La differenza tra adulti era meno notevole ma ancora significativa: più afroamericani sceglievano le soluzioni più dolci e più salate.
Uno degli sponsor del Monell, la Frito-Lay, nutriva particolare interesse per la sezione dello studio dedicata al sale, poiché buona parte dei suoi guadagni dipendevano dalle patatine salate. Citando il lavoro del Monell in un promemoria interno del 1980, un esperto alimentare della Frito-Lay ricapitolò le conclusioni sui bambini e aggiunse: «Effetto razziale: è stato dimostrato che i neri (gli adolescenti neri in particolare) hanno manifestato la maggiore preferenza per un’elevata concentrazione di sale». Lo scienziato del Monell che aveva effettuato questo studio innovativo sollevò, tuttavia, un’altra questione che rifletteva le sue apprensioni nei confronti dell’industria alimentare. I bambini non si limitavano a gradire lo zucchero più degli adulti, osservò questo esperto, Lawrence Greene, in un articolo pubblicato nel 1975. Dai dati risultava che ne consumavano di più e Greene insinuò che forse si trattava di un problema analogo a quello dell’uovo e della gallina: parte di questa voglia incontrollata di zucchero può non essere innata nei bambini, bensì derivata dalle massicce quantità di zucchero aggiunte ai cibi pronti. Gli scienziati lo definiscono un comportamento acquisito e Greene fu uno dei primi a ipotizzare che la dieta americana, sempre più dolce, avrebbe potuto stimolare il desiderio di altro zucchero, che, come scrisse, «forse corrisponde a pratiche nutrizionali ottimali o forse no».
In altre parole, più il cibo prodotto dall’industria era dolce, maggiore era il gradimento di cibi più dolci da parte dei bambini.
Volendo approfondire questo concetto, passai un po’ di tempo con Julie Mennella, una biopsicologa giunta per la prima volta al Monell nel 1988. Durante la specializzazione, aveva studiato il comportamento materno negli animali e si era resa conto che nessuno stava esaminando l’influenza degli alimenti e dei gusti sulle donne che erano mamme. Entrò al Monell per rispondere a una serie di incognite sul cibo. I sapori del cibo ingerito si trasmettono al latte? Si trasmettono al liquido amniotico? I bambini sviluppano preferenze e avversioni anche prima di nascere?
«Uno dei principali misteri è il motivo per cui certi cibi ci piacciono» disse Mennella. «La predilezione per il dolce fa parte della biologia di base di un bambino. A ben vedere, il sistema gustativo prende una delle decisioni più importanti: se accettare o meno un alimento. E, una volta accettato, avvisa il sistema digerente dei nutrienti in arrivo. Il sistema gustativo è il nostro custode e uno degli approcci della ricerca è stato imboccare un percorso evolutivo, osservare dal principio; ciò che si nota è che i bambini vivono in mondi sensoriali diversi rispetto a noi. Come gruppo, preferiscono livelli molto più elevati di dolce e di salato, rifiutando l’amaro più di noi. Direi che la ragione per cui ai bambini piacciono livelli elevati di dolce e di salato è in parte un riflesso della loro biologia di base.»
Venticinque anni dopo, Mennella si è avvicinata più di qualsiasi altro scienziato a uno degli aspetti più avvincenti (e, per l’industria alimentare, finanziariamente rilevanti) del rapporto dei bambini con lo zucchero. Nel suo progetto più recente, ha esaminato 356 bambini, di età compresa tra i cinque e i dieci anni, portati al Monell per stabilire il loro bliss point, o punto di beatitudine, in relazione allo zucchero.11 Si tratta dell’esatta quantità di dolcezza (né più, né meno) che rende massima la gradevolezza di alimenti e bevande. Nell’autunno del 2010 stava concludendo questo progetto e accettò di mostrarmi alcuni dei metodi da lei sviluppati. Prima che cominciassimo, svolsi qualche ricerca proprio sul termine bli...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Grassi, dolci, salati
  3. Prologo - I gioielli dell’azienda
  4. Parte prima - ZUCCHERO
  5. Parte seconda - GRASSI
  6. Parte terza - SALE
  7. Epilogo - Siamo schiavi del cibo che costa poco
  8. Note
  9. Fonti
  10. Bibliografia scelta
  11. Ringraziamenti
  12. Copyright