Il cardinale e il filosofo
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Il cardinale e il filosofo

Dialogo su fede e ragione

,
  1. 248 pagine
  2. Italian
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Il cardinale e il filosofo

Dialogo su fede e ragione

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In che cosa il messaggio di Gesù è ancora attuale per i credenti e i non credenti nella nostra società moderna e laica? È questa la domanda alla quale il cardinale Gianfranco Ravasi e il filosofo Luc Ferry cercano di dare una risposta, affrontando uno dopo l'altro i principali snodi del pensiero cristiano. I punti di partenza sono naturalmente molto distanti, ma i percorsi spesso si incrociano o si sviluppano appaiati pur senza sovrapporsi. Laico e agnostico, ma convinto che i Vangeli racchiudano una ricchezza di pensiero e di saggezza che va ben oltre la cerchia dei fedeli, Luc Ferry cerca di approfondire quanto del loro contenuto un non credente come lui può oggi accettare, e identifica tale terreno nel nucleo intorno al quale il messaggio cristico si incentra, ossia l'amore nelle sue varie accezioni, eros, philia e agàpe. In questo spirito propone un abbecedario in cui passa in rassegna il doppio significato, religioso e secolare, teologico e filosofico, delle principali categorie del pensiero cristiano: l'amore, appunto; ma anche il Male e la sua personificazione, il diavolo; la morte e la sua sconfitta, la risurrezione; la natura e la contrapposizione fra la lettera della Legge e il suo spirito. Il nodo irrisolto per il non credente rimane però il rapporto tra fede e ragione. E proprio a partire da questo tema si sviluppa l'analisi del cardinale Gianfranco Ravasi, per il quale il discorso teologico autentico deve saper procedere in equilibrio su un difficilissimo crinale, in bilico fra due abissi: l'approccio riduttivo, unicamente razionale e storico da un lato, e un misticismo irrazionalista che sfiora il fondamentalismo dall'altro. Ciò che egli propone per districarsi fra questi due estremi è un nuovo canale di conoscenza, riassumibile nella formula «credere e comprendere», ossia credere prima, per poter capire poi. Il libro si chiude con un confronto serrato fra il cardinale e il filosofo, che tocca temi di etica nevralgici per la società e il mondo attuali. Le riflessioni che i due interlocutori si scambiano «convergono o divergono a più riprese » e tuttavia, sostiene il cardinale, «abbandonando gli estremi del fondamentalismo puntuto e del molle concordismo, fiorisce il dialogo riflessivo».

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852048029

GIANFRANCO RAVASI

Credere e comprendere

In piedi su uno scoglio, gli occhi che si perdono nell’immensità dell’oceano, con le sue onde, le tempeste lontane, le bonacce, gli orizzonti remoti. Si trova un po’ in questa situazione chi vuole abbracciare con uno sguardo d’insieme quella distesa di secoli, persone, pensieri, eventi, opere che compongono il vasto mare della fede cristiana. Accanto a me c’è un filosofo «gentile» – sinonimo nobile e antico del moderno «laico» o «umanista» – che fissa lo stesso panorama con i suoi occhi e il suo sguardo. Le sensazioni che ci scambiamo convergono o divergono a più riprese, come accade a non pochi testimoni oculari di uno stesso evento i cui resoconti coincidono o si divaricano.
Un suo collega e connazionale del passato, Henri Poincaré, ci aiuta a rompere il silenzio, proponendo nel suo saggio La scienza e l’ipotesi (1902) un metodo elementare di base: «Dubitare di tutto o credere a tutto sono due soluzioni egualmente comode che ci dispensano, l’una come l’altra, dal riflettere». Ecco, solo abbandonando gli estremi del fondamentalismo puntuto e del molle concordismo, fiorisce il dialogo riflessivo. Come suppone il termine stesso, che ha generato i capolavori di Platone, il dialogo è l’incrociarsi (diá) di due lógoi, di diversi sguardi e riflessioni che non si sovrappongono, ma neppure si respingono, perché il loro ragionamento (lógos) è uno scavo, uno scendere in profondità (diá).

Parte prima

NEL CUORE DELLA FEDE

Il «Credo» cristiano
Lasciamo ora scomparire, quasi in una dissolvenza filmica, l’oceano. Riprenderemo certamente la nostra contemplazione di quella distesa. Essa contiene peraltro tutti i percorsi che noi svolgeremo alla ricerca dei diversi volti della fede, del divino e dell’umano. Percorsi che si diramano in tanti itinerari minori e che riprendono da altre angolature alcuni colori dell’arcobaleno di temi proposti da Luc Ferry: da Dio all’uomo, dalla morte alla risurrezione, dall’amore alla fede, dalla scienza alla politica, dalla parola al miracolo, dalla libertà a Satana e così via. Sempre in forma essenziale, divulgativa, fin quasi didascalica e spoglia di «tecnicismi» teologici. Ma ora iniziamo il nostro viaggio di ricerca nell’orizzonte del credere cristiano.
Il dito di Tommaso
Dalla spiaggia del mare ci trasferiamo ora nello spazio limitato della sala della Bildergalerie nel grande parco reale Sanssouci della città tedesca di Potsdam, la Versailles prussiana. Davanti ai nostri occhi si presenta una tela impressionante che Caravaggio dipinse fra il 1597 e il 1599. La scena raffigurata appartiene alla penultima pagina del Vangelo di Giovanni (20,24-29) ed è impressa nella memoria di tutti sotto il segno dell’incredulità dell’apostolo Tommaso, un’incredulità smentita e fin sbeffeggiata. Nel racconto evangelico le cose, però, non stanno proprio così: Cristo concede all’amico dubbioso la possibilità di una prova, di una verifica, di una dimostrazione.
E il pittore ce la mostra quasi con brutalità, attraverso una fisicità esasperata: l’apostolo è invitato a infilare il dito oltre la pelle, nella ferita sanguinante del costato di Gesù, penetrando nella carne viva. Il gesto si trasforma in una parabola: la fede non è abdicazione della ragione, non è cecità della mente rassegnata e inchinata. Il suo è un itinerario che può comprendere l’oscurità, che si alimenta di domande, che sale sui sentieri d’altura della ricerca, perché, come suggerisce in modo folgorante Albert Einstein, «sottile è il Signore, ma non malizioso».
Il dito di Tommaso è il simbolo dell’interrogativo del filosofo, dello storico e del teologo: senza il fiore delle domande dai tanti petali, non si ha il frutto delle risposte. Il libro biblico più originale sul tema della fede, quello di Giobbe, è sostanzialmente un incessante e rovente interrogatorio lanciato verso un Dio apparentemente muto. È un testo talora segnato da toni paradossali: «Interrogami pure» dice Giobbe al Signore «e io risponderò, oppure domanderò io e tu ribatterai» (13,22). Un fuoco di fila di domande che, alla fine, sollecitano persino l’ironia divina: «Se sei un uomo valoroso, cingiti i fianchi, io ti interrogherò e tu mi istruirai» (38,3). L’approdo sarà sorprendente, non sfocerà in una serie di teoremi veritativi, ma in una sequenza di domande ulteriori che Dio rivolgerà a Giobbe, domande che custodiscono in sé, in nuce, una risposta, come accade a tutte le vere interrogazioni (cc. 38-39).
La «carnalità» cristiana
La scoperta finale di Giobbe non sarà la mera razionalità di un sistema speculativo come quello elaborato dagli amici teologi che lo circondano. Non sarà, però, neppure l’abbandonarsi a una disarmata irrazionalità, bensì l’ingresso in una metarazionalità che non ignora i precedenti percorsi razionali ma li trascende e li eccede. È un nuovo canale di conoscenza che non elide gli altri e che è dotato di una sua coerenza e di una sua logica, un po’ come succede al conoscere poetico e a quello amoroso. Questo accade attraverso un incontro: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» conclude Giobbe (42,5). È un po’ il paradosso proposto da Jean Cocteau nel suo Diario di uno sconosciuto (1952): «Prima trovare. Poi cercare».
E qui ritorna in scena Caravaggio. Il Cristo che il dubbioso Tommaso incontra è fortemente carnale, anche se ormai assegnato all’orizzonte della gloria. Sembra quel Risorto descritto dall’evangelista Luca che, di fronte alle esitazioni che colgono anche gli altri discepoli, ripete: «Perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate! Un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho!» (24,38-39). Lo statuto del dubbio non è, perciò, necessariamente da scrivere nell’albo dell’incredulità. Ma c’è di più, perché Cristo va oltre: «“Avete qui qualcosa da mangiare?” Gli offrirono una porzione di pesce arrostito. Egli lo prese e lo mangiò davanti a loro» (24,41-43).
Con la carnalità lucana e caravaggesca ci si inoltra nel cristianesimo. Esso, infatti, ha nel suo cuore la storicità, la «carne» appunto, l’evento, l’incontro, l’esperienza e non solo la teoria, l’intuizione, l’elaborazione spirituale e intellettuale. Capitale è quell’asserto giovanneo: ho Lógos sarx eghéneto, il Verbo divino e trascendente «carne divenne» (1,14). Un asserto che Jorge Luis Borges così aveva ripreso in un’ampia meditazione lirica su quel versetto, presente nella sua raccolta poetica Elogio dell’ombra (1969): «Io che sono l’È, il Fu e il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo... Vissi prigioniero di un corpo / e di un’umile anima...».
La «kénosis» cristiana
Il conoscere cristiano è, quindi, molto complesso. Non ignora le vie della filosofia, e figure come Agostino, Tommaso d’Aquino o Anselmo d’Aosta e Duns Scoto lo attestano con un’altra folla di pensatori. Ma si inoltra anche su altre strade più ardue, trans-razionali, e la letteratura mistica, con personaggi come Meister Eckhart o Giovanni della Croce e Teresa d’Avila, ne sono la conferma. Ma quel conoscere reca con sé sempre tutto il peso della storicità, di un legame con una persona, con atti e parole, secondo quel canone che i teologi hanno chiamato appunto dell’«incarnazione».
Sorprende, ma è un filosofo come Ludwig Wittgenstein nei suoi Pensieri diversi (1977) a cogliere questo nodo estremo del conoscere cristiano: «Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e sarà dell’anima umana, ma la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo. Infatti, il riconoscimento del peccato è un evento reale, e la disperazione pure, e così anche la redenzione mediante la fede». Una redenzione che, come vedremo, si affida a un mediatore fra divinità e umanità, fra grazia e fede, fra vita e morte. Un mediatore che abbia in sé le due realtà del divino e dell’umano per poter essere ponte fra cielo e terra riconducendo a unità la dispersione dell’essere e dell’esistere.
Domanda e risposta sono, quindi, necessarie. Il dito di Tommaso e la carne aperta di Cristo si uniscono e generano la specificità del Credo cristiano. Esso va molto oltre quella generica spiritualità a cui ben pochi rinunciano, anche coloro che non professano nessuna fede esplicita. Tolstoj non esitava a scrivere che «un uomo può ignorare di avere un cuore; ma senza cuore, come senza religione, un uomo non può vivere», mentre Gandhi era convinto che «una vita senza religione è come una barca senza timone». Il Credo cristiano deborda dai confini pur nobili della poesia, della pacata meditazione, dell’eterea serenità. È molto diverso da un fitness dell’anima, come lo è anche da un’eterea religiosità che fa decollare verso l’Olimpo del mito.
Certo, l’equivoco spesso si è consumato e non sono mancate cadute nei grovigli dei sofismi astratti o nelle distese morbide delle devozioni consolatorie. Paolo, l’Apostolo per eccellenza, non ha esitazioni e con brutalità eleva alto un emblema scandaloso che crea rigetto o sarcasmo. È proprio quella carne ferita e mortale che custodisce in sé tutta l’umanità, ma anche una divinità che si è fatta «kenotica», cioè «svuotata» del suo statuto glorioso per essere veramente con l’umanità e nell’umanità, come scriverà ai Filippesi (2,5-11). Ecco, dunque, il suo manifesto programmatico che circoscrive la genuina identità cristiana: «I Giudei chiedono segni, i Greci cercano sapienza. Noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei sia Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,22-24).
Il primo «Credo» cristiano
Abbiamo, così, identificato il nucleo ideale da cui partire. È quello spazio marino – per stare all’immagine proposta in apertura – da navigare per primo, attorno al quale convergono altri quadranti che pure sono rilevanti e che il compagno di viaggio e di ricerca Luc Ferry ha individuato e accuratamente e acutamente analizzato nel suo originale abbecedario cristiano. Ci imbarchiamo idealmente da Efeso, splendida città ellenistico-romana che si presenta ancora oggi ai turisti con l’affascinante distesa dei monumenti della sua area archeologica. Siamo attorno alla Pasqua del 57. San Paolo sta dettando al suo scriba una lettera di taglio molto «pastorale», diretto e concreto; la affiderà agli agenti commerciali di una manager di Corinto, una certa Cloe, perché venga comunicata ai cristiani piuttosto turbolenti e divisi fra loro di quella metropoli di 600.000 abitanti, dotata di ben due porti.
Quasi alla fine di quelle sedici pagine firmate dall’Apostolo stesso, Paolo cita il Credo che attorno agli anni Quaranta, appena convertito alla nuova religione, aveva imparato e che ora ripropone come cardine della fede cristiana («vi trasmetto ciò che anch’io ho ricevuto»). Si tratta di due articoli di fede nei quali idealmente convergono le 138.013 parole greche dell’intero Nuovo Testamento e si annodano i 27 scritti «canonici» che lo compongono. Ecco i due asserti:
Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e fu sepolto.
È risorto il terzo giorno secondo le Scritture e apparve
(1Cor 15,3-5)
È evidente l’accostarsi delle due realtà che abbiamo già evocato come strutturali per la fede cristiana. Da un lato, la «carne», la sarx del prologo del Vangelo di Giovanni, cioè la storia, rappresentata dall’umanità di Gesù di Nazaret che nasce, vive, muore ed è sepolto. Cuore del cristianesimo non è, quindi, una figura mitica o un’ideologia: il morire è la carta d’identità comune a tutti gli uomini e le donne. Questa morte, però, non è considerata un semplice dato anagrafico e fenomenico, bensì è un evento che partecipa già della fede: è un segno di redenzione («morì per i nostri peccati») e fa parte di un progetto trascendente («secondo le Scritture»).
D’altro lato, però, ecco il Lógos del prologo giovanneo, cioè la dimensione divina, che va oltre la storicità, che esige un diverso canale di conoscenza e di analisi: la risurrezione. Essa è ovviamente situata all’interno di quel progetto trascendente («secondo le Scritture») e ha una sua possibilità di verifica, ha un suo «sapere» e una sua esperienza e coerenza, attestata dagli incontri del Vivente, del Risorto, ossia di colui che aveva in sé anche la natura divina eterna accanto a quella umana caduca («apparve», letteralmente «fu visto»). Questo secondo profilo è curiosamente collocato nel «terzo giorno», una notazione non tanto di indole cronologica quanto piuttosto simbolica, essendo i tre giorni nel linguaggio biblico l’indizio di un evento che è il vertice di un’attesa e quindi è capitale e trascendente.
Prima, allora, di ramificare la ricerca in un arcobaleno di temi teologici, morali, spirituali tipici del messaggio cristiano, è indispensabile puntare su questo hardcore che si sfrangia nella trama ideale del Nuovo Testamento. Questo nucleo fondamentale è stato definito dai teologi il kérygma, l’«annunzio» per eccellenza, la proclamazione che quei primi missionari del Vangelo hanno lanciato in sinagoghe e piazze, fra ebrei e gentili, in città palestinesi e in metropoli greche come Atene, Corinto e Tessalonica e nella stessa capitale dell’impero, Roma. Questo Credo radicale è nel Dna stesso del cristianesimo, al di là dell’irradiazione multiculturale della nuova religione e del suo successivo disperdersi nel caleidoscopio delle varie denominazioni cristiane.
Lungo un crinale
In sintesi potremmo dire che in Gesù Cristo si intrecciano due linee. La prima è orizzontale e si distende in una storia più o meno documentabile ma reale: essa comprende una data approssimativa di nascita, in un territorio identificabile, propone poi un’esistenza che si esprime in atti e in parole, si conclude con una morte tragica, avvenuta a Gerusalemme con un’esecuzione su una collinetta di pochi metri, nota come Golgota, cioè in aramaico «cranio», donde il latino Calvario. Noi ora, non potendo materialmente inseguire in modo completo questo arco storico che è originariamente e originalmente rappresentato nei quattro Vangeli, ci fisseremo soltanto sulla meta finale, la morte. Fra parentesi, ricordiamo che per il semita evocare solo il capo estremo del filo della vita di una persona (sia la nascita, sia la morte) è un modo simbolico per riassumere l’intera esistenza. Per questo l’Apostolo nel suo Credo ha proposto soltanto l’elemento «morte» riassumendo in essa l’umanità intera vissuta da Cristo.
C’è, però, una seconda linea che si leva verso l’alto, l’oltre, l’eterno e l’infinito ed è ciò che viene dichiarato soprattutto nella risurrezione: è quella divinità che era celata e quasi «compressa» nelle spoglie mortali del predicatore ambulante e guaritore galileo noto come Gesù di Nazaret. Tenere insieme queste due linee non è facile, eppure per il messaggio cristiano è necessario. Se vogliamo adottare un’altra metafora, antitetica a quella marina prima suggerita, potremmo dire che il cristianesimo invita a procedere lungo il crinale di un monte dal quale si dipartono due versanti, quello in penombra della storia e quello sfolgorante della fede. Ecco perché nella vicenda bimillenaria del cristianesimo si sono registrati vari scivolamenti lungo l’uno o l’altro dei versanti.
C’è stato chi ha preferito leggere solo storicamente la figura di Gesù e c’è stato chi lo ha assunto solo come un’icona divina, dissolvendone la carnalità. Alla prima opzione appartengono, per esempio, le diverse esaltazioni del Cristo rivoluzionario o maestro di etica simile a un Socrate cristiano; alla seconda impostazione si iscrivono le trasfigurazioni gnostiche dei primi secoli, che negavano come scandalosa la morte in croce (di questo è rimasta traccia persino nel Corano che sulla croce vede sostituirsi a Gesù un sosia ebreo). Sta di fatto, comunque, che – come scriveva Jaroslav Pelikan nel suo saggio Gesù attraverso i secoli e il suo posto nella storia della cultura (1985) – «al di là di ciò che ognuno possa pensare o credere di lui, Gesù di Nazaret è stato per quasi venti secoli la figura dominante nella storia della cultura occidentale». In ultima istanza egli continua a far serpeggiare nel mondo quella domanda che un giorno lasciò cadere fra i suoi discepoli a Cesarea di Filippo: hymeîs de tína me léghete éinai, «Ma voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15).
Memoria e contemporaneità
Eccoci, allora, alla nostra analisi molto semplificata e di taglio divulgativo attorno al kérygma, così come è stato sviluppato narrativamente dalle sezioni finali dei quattro Vangeli. È convinzione comune fra gli esegeti che una sorta di «protovangelo» fu impostato proprio sui racconti della passione, morte e risurrezione di Cristo. In quegli eventi che suggellavano la vita terrena di Gesù e la aprivano a quel lato della sua esistenza che è oltre la soglia rivolta verso di noi, ossia la morte, per usare un’immagine del poeta Rilke, si configurava la prima presentazione della figura del fondatore del cristianesimo, della dottrina e della fede a lui legata. In pratica i primi cristiani sentivano che il legame col loro Maestro era di duplice natura: di memoria (storia) e di contemporaneità permanente (la pasqua).
Esprime bene questo atteggiamento il filosofo Kierkegaard nel suo Diario: «L’unico rapporto che si può avere con Cristo (e con la grandezza) è la contemporaneità. Rapportarsi a un defunto è un nesso estetico: la sua vita ha perduto il pungolo, non giudica la mia vita, mi permette solo di ammirarlo... e mi lascia continuare a vivere anche in altre categorie: mi costringe a giudicare in senso definitivo». E continua altrove: «Che il cristianesimo ti è stato annunciato significa che tu devi prendere posizione di fronte a Cristo. La decisione di tutta l’esistenza è: o il fatto che Egli esiste, o il fatto che sia esistito». In realtà, come dicevamo, entrambe le opzioni sono necessarie, stando al Credo paolino: la memoria è la radice dell’eternità che da essa fiorisce. La storia impedisce alla gloria divina di essere solo trascendentale, così come la vita eterna feconda la limitatezza e la caducità dell’esistenza terrena.
Dopo avere di nuovo ribadito l’unità personale dell’umanità e della divinità, dell’immanenza e della trascendenza ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il cardinale e il filosofo
  3. di Gianfranco Ravasi
  4. Luc Ferry
  5. Introduzione
  6. Piccolo abbecedario
  7. Conclusione - Della differenza fra credenti e Gentili di fronte alla contraddizione fra l’amore e la morte
  8. Gianfranco Ravasi
  9. Dialogo tra Luc Ferry e Gianfranco Ravasi
  10. Copyright