Centro rieducativo di Prey Sar
dintorni di Phnom Penh, Cambogia
sabato 4 aprile 2009
«Italian, you come here right now!»
Il prigioniero obbedisce. Ma lo fa lentamente. È un po’ troppo lento.
Si chiama Kasper. È un prigioniero italiano. Kasper è stato per molto tempo il suo nome in codice. Nome di battaglia in una vita fatta di battaglie.
Adesso la sua battaglia è una sola: restare vivo.
Il kapò urla di nuovo. Ha la voce rauca. Tra i suoi poteri, abbaiare è quello meno pericoloso. Stringe gli occhi e ringhia ordini che spezzano il silenzio del mattino già torrido.
Kapò è il nome che Kasper gli ha dato perché agisce esattamente come i kapò dei lager nazisti. In cambogiano il suo nome sarebbe un altro. Impronunciabile.
È un detenuto anche lui, il kapò, ma di categoria superiore. Aiuta le guardie nella gestione del campo. Si prende le sue soddisfazioni. Può picchiare i prigionieri e lo fa regolarmente. Con piacere. Può riscuotere denaro in cambio di protezione e favori.
Ha provato a farlo anche con Kasper.
Una notte è andato da lui con altri kapò e con una guardia armata. Volevano dargli una lezione, come già avevano fatto nei primi giorni per il benvenuto a Prey Sar, quando ancora Kasper faticava a reggersi in piedi. Si usano tubi di ferro ricoperti di gomma: fanno male ma non aprono la carne. Per il benvenuto gli avevano spaccato il naso e distrutto l’orecchio sinistro. Sembravano soddisfatti. «Bravo italiano.» Ancora due calci. Ridevano.
Kasper ha capito come funzionano le cose, là dentro. Si è preparato. Quando sono tornati, si è fatto trovare pronto. I picchiatori della notte non se l’aspettavano. Il match è stato breve. Hanno raccattato i loro feriti e si sono ritirati.
Ma non era certo chiusa lì.
Il giorno dopo lo hanno gettato in isolamento punitivo.
In una “gabbia di tigre”.
Le gabbie di tigre sono buche profonde tre metri, chiuse da grate di metallo attraverso le quali ti passano cibo di merda e acqua di merda. Buche che quando piove si allagano e allora devi nuotare con topi e scarafaggi. Fino ad attaccare la faccia alla grata e sperare che l’acqua non salga ancora.
Lo hanno buttato là dentro per giorni, ma da allora si sono tenuti alla larga. Lo hanno soprannominato “la bestia”. Gliel’ha confidato la guardia che da qualche tempo lo protegge. Si chiama Chou Chet. Gli ha spiegato che, con i soldi che la famiglia di Kasper gli manda dall’Italia, lui presto potrà cambiare vita. «Noi siamo amici» gli ha detto in inglese.
«Amici, certo» ha ripetuto Kasper.
Non vuole morire. Da Prey Sar Kasper vuole andarsene con le sue gambe e dimenticarsi di tutto. Anche di quell’animale che ringhia: «Italian, you come here right now!».
Il kapò conosce qualche parola d’inglese, quanto basta per i detenuti non cambogiani. Una piccola minoranza. Qualche thailandese, due cinesi, un gruppetto di vietnamiti. Kasper è l’unico occidentale fra cinquecento disperati.
«All’ingresso.» Il kapò gli sta indicando la zona del campo dove dirigersi. «Ci sono notizie per te.»
Kasper lo guarda dritto negli occhi. Solo per un momento. Non cerca lo scontro. Oggi proprio no. Deve andare tutto liscio, oggi.
Sono entrambi a torso nudo. Entrambi sudati, con la temperatura che corre per i quaranta e l’umidità che ti viene a cercare sotto la pelle. Il kapò lo fissa, il krama quadrettato attorno alla testa, la bocca che si muove appena e ripete: «Vai, italiano».
Kasper si avvia verso le “notizie”. Crede di sapere quali sono, le notizie.
Dunque ci siamo. Forse è successo davvero. Sta succedendo, in quel sabato mattina di aprile, e lui quasi non riesce a crederci. Trascina i suoi sandali Ho Chi Minh, stringe tra le mani un prezioso sacchetto di nylon, che nasconde come può. Lo mimetizza. Lo ha coperto con la maglietta.
Cerca d’indossare la maschera migliore. Il momento è arrivato. Deve farcela.
Deve.
Non vuole finire come gli altri. Come quelli che ha visto morire in questi mesi.
I torturati. I pestati-frantumati-maciullati. I disperati annegati a faccia in giù nelle risaie.
La sua vita Kasper non vuole chiuderla così, vuole tornare a casa, in Italia. Si gioca il tutto per tutto, oggi.
Ma se invece il destino ha deciso che deve rimanere a Prey Sar, allora lo farà da soldato.
Stringe tra le mani il suo fagotto mimetizzato. Sissignore, farà un bel casino prima di finire sottoterra. Perché morire, in quel sabato 4 aprile 2009, gli sembra preferibile all’inferno in cui è stato gettato.
Comunque vada a finire, Kasper da quel portone esce. Oggi e per sempre.
Koh Kong
confine Cambogia-Thailandia
mercoledì 26 marzo 2008
Clancy guarda negli specchietti retrovisori e domanda quanto manca.
«È la terza volta che me lo chiedi» ribatte Kasper. «La terza in un’ora.» Sorpassa un camion e rientra.
«Allora mancherà sempre meno.»
«Venti chilometri, all’incirca.»
Clancy si toglie gli occhiali da vista, ci soffia sopra per pulirli. «Comunque non ci segue nessuno.»
Bene. Magari è tutta una grande stronzata, pensa Kasper. Solo un falso allarme. Oppure ci hanno fatto uno scherzo del cazzo. Un pesce d’aprile anticipato di qualche giorno. Però al telefono la voce di Bun Sareun era seria. Il senatore cambogiano non scherzava.
«Leave town now.»
Non una parola di più. Solo quella frase. Ripetuta più volte, con il tono di chi ti sta dando il Consiglio della Vita.
Leave town now.
Quando Kasper ha messo giù il telefono e lo ha detto a Clancy, l’amico americano ha richiamato il senatore. Poche parole e zero dubbi. «Dobbiamo filarcela. Poi cercheremo di capire che cazzo sta succedendo.»
Hanno riempito due borse, hanno preso due pistole e svuotato la cassaforte del contante che custodiscono in casa. Settantamila dollari più qualche spicciolo nelle tasche. Il gruzzolo adesso è sotto le mutande di ricambio, sul fondo della borsa nera di Kasper. Clancy ha la sua sacca militare che non abbandona fin da quando era un dinamico analista della CIA. Ora che è un po’ meno dinamico e un po’ meno nella CIA, quella sacca probabilmente gli ricorda anni che non torneranno.
Sono partiti da Phnom Penh con la speranza che sia tutta una stronzata. Ma intanto hanno evitato aeroporti, porti, stazioni e qualsiasi altro luogo controllato. Conoscono i militari cambogiani. Sanno come lavorano. Conoscono soprattutto i paramilitari, quelli che hanno in mano la “sicurezza” del Paese.
Perciò hanno mollato la loro Mercedes all’autista dicendogli di farsi un lungo giro per la città. Se lo fermano, lui deve dire che li ha lasciati poco prima nei dintorni del Manhattan Club, il casinò-discoteca di Victor Chao. Hanno evitato di passare dallo Sharky’s, il bar-ristorante di loro proprietà, ma hanno chiamato uno dei dipendenti. Gli hanno chiesto di affittare a suo nome un fuoristrada. Gli è toccata una Honda CR-V. Hanno buttato le borse nel bagagliaio e sono partiti.
Le sei del pomeriggio. L’oscurità comincia a calare.
Direzione: il confine con la Thailandia, appena dopo la cittadina di Koh Kong. Crocevia di contrabbandieri e di puttane. Per arrivarci ci vogliono sei ore.
Kasper ha telefonato a Patty, la sua fidanzata, in Italia. Lei è rientrata a Roma da poco. Fino a qualche giorno prima era con lui a Phnom Penh. Una fortuna che adesso non sia lì. Le comunica l’indispensabile. Poche parole, senza esitazioni da interpretare. Senza pause a cui appendere domande.
«Dobbiamo lasciare la città e probabilmente il Paese.» Il tono è innaturalmente calmo. «Ci sono dei problemi, non sappiamo quali. Vedrai che si tratta di un equivoco. Però vogliamo essere prudenti. Non stare in ansia. Ti richiamo appena possibile.»
Lei non fa domande. E se anche ci provasse, le risponderebbe il suono di una linea muta.
Non è la prima volta che Kasper si trova a dover tagliare la corda da qualche luogo del mondo. Ma è la prima volta che ha difficoltà a capirne le ragioni. E Clancy, nella comprensione, non sembra molto più avanti di lui.
Perciò adesso ripensano a quel che potrebbe aver compromesso la loro sicurezza. In Cambogia non è così difficile diventare un bersaglio, d’accordo, ma che cosa può essere accaduto?
Il viaggio verso il confine s’infila in un paesaggio duro, improvvisamente ostile, che lentamente si avvolge nel mante...