Passo dopo passo
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La mia storia

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  1. 216 pagine
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Passo dopo passo

La mia storia

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Informazioni sul libro

Giselle, Giulietta, Cenerentola, Medea, Swanilda, Francesca da Rimini... sono più di duecento i personaggi interpretati da Carla Fracci, più di duecento i ruoli, le interpretazioni, le storie portate in scena con varietà estrema e sentimento esasperato, perché "il balletto ha un linguaggio più penetrante di quello teatrale, forse è proprio l'assenza della parola a renderlo tale". In un'autobiografia intima, Carla Fracci racconta l'infanzia trascorsa nella campagna lombarda e l'ingresso alla Scuola di ballo del Teatro alla Scala, il Passo d'Addio delle allieve licenziande e i trionfi con l'American Ballet Theatre e sui palcoscenici più importanti del mondo: Los Angeles, Mosca, L'Avana, Tokyo, Londra... Figlia di Luigi, tranviere, e Santina, operaia, lontana parente di Giuseppe Verdi grazie alla prima moglie del nonno, Carla confessa l'amore per la famiglia e l'onestà, per la danza, che ha voluto portare fino ai centri più piccoli, per la musica e l'armonia, "ciò che mi porta l'ispirazione, ancor più dell'ambiente".
Acclamata dai più autorevoli critici di balletto e applaudita con calore da pubblici di ogni levatura, Carla Fracci è stata partner artistica dei più gloriosi danzatori del mondo: Erik Bruhn, Rudolf Nureyev, Mikhail Baryshnikov, Mario Pistoni e Paolo Bortoluzzi. E poi Margot Fonteyn, Gelsey Kirkland, Alicia Markova. Ha lavorato con coreografi come John Cranko, Maurice Béjart e Antony Tudor e la sua vita è sempre stata circondata da poeti, su tutti Eugenio Montale che le dedicò la lirica: La danzatrice stanca. "È grazie a maestri tali se oggi, a più di settant'anni, non mi sento affatto stanca" dice Carla, e aggiunge che le rimane un solo grande desiderio: "che in Italia nasca una Compagnia nazionale di balletto, una Compagnia che possa girare il mondo con le nostre eccellenze senza alcun timore di dare possibilità importanti soprattutto ai giovani, che non devono sentirsi costretti a espatriare".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852045592
Argomento
Art

Musicalità e respiro

Volevo una carriera e volevo una famiglia. Il sogno era portare avanti entrambe con armonia, senza sacrificare nessuna delle due.
Dio ha voluto che incontrassi Beppe, un uomo di grande cultura e talento che ha saputo circondarmi di attenzioni. È difficile vivere con una ballerina che non può badare alla casa, col suo professionismo rigoroso, le sue ostinazioni e le sue contraddizioni. Lui è il mio punto di riferimento, è l’uomo che mi ama e che ha sempre tenuto a me nell’intimità domestica come sul palcoscenico. Chissà se sono mai riuscita a trasmettergli lo stesso amore che lui mi ha dato. Siamo opposti e complementari: sarà la differenza tra Toscana e Lombardia. Io sulle mie, lui aperto; io rigorosa, lui sempre con intuizioni incredibili.
Per il mio primo lavoro indipendente dal Teatro alla Scala, il 3 luglio 1961 al Teatro Romano di Fiesole, Beppe realizzò il Passo a quattro su musica di Cesare Pugni con Carmen Puthod, Alicia Diaz e Antonio Gades, un nostro grande amico che interpretò il ruolo appartenuto a Maria Taglioni in versione totalmente maschile dimostrando di essere il vero grande danzatore di quell’epoca; Tre canzoni di Kurt Weill, storia molto forte di tre ragazze ebree in un campo di concentramento; Il teatrino di Don Cristóbal, farsa di un solo atto scritta da Federico García Lorca in cui io ebbi il ruolo di Rosita. Fu uno spettacolo così ben riuscito che fummo invitati da Gian Carlo Menotti al Festival di Spoleto l’anno successivo.
Impaziente come chi ha visto appassire le promesse del dopoguerra, verso la fine degli anni Sessanta Beppe prefigurò le lotte generazionali portando in scena Lutero di John Osborne, con la battuta antiautocompassione e antisentimentalismo: «Io sono venuto per mettere i figli contro i padri!»; una presa di posizione del teatro contro la società. Lutero capellone e pidocchioso, tra l’alternarsi di idiomi alti e bassi e il nudo in scena diede fastidio alle platee e ai giornalisti, che insultarono il regista e l’interprete, il grande genio del teatro italiano Virginio Gazzolo, Ginni.
Dopo il debutto al Teatro Comunale di Ferrara, una delle prime città italiane con fedeli luterani grazie al credo della duchessa Renata di Francia, Paolo Grassi aveva promesso di scritturare l’opera al Piccolo Teatro, ma non fu in grado di mantenere la parola. Credevo così tanto in quel progetto che decisi di prestare io stessa dei soldi alla produzione in modo da poter andare in scena al Teatro dell’Arte.
Lavorando a un testo, Beppe ha sempre puntato molto sul racconto originale, e non ha precorso le epoche solo nei contenuti: nel 1968, con Il gabbiano di Čechov in scena al Teatro dei Rinnovati di Siena, musicato dall’insostituibile Roman Vlad con la coreografia di Loris Gai, anticipò anche l’ambientazione tutta bianca, tutta silhouette, tutta eterea del Giardino dei ciliegi diretto da Giorgio Strehler nel 1974, ormai icona della storia del teatro.
Lo fece anche nella scelta dei ruoli: all’inizio degli anni Sessanta ingaggiò Luca Ronconi ventenne come attore in I due gentiluomini di Verona; per Puck del Sogno di una notte di mezza estate scovò, tra i giovanissimi dell’Accademia di Roma, nientemeno che Giancarlo Giannini, straordinario, agile e bravissimo; e, insieme a lui, Gian Maria Volontè (Nick Bottom), Tino Scotti (Snug), Marisa Solinas (Ermia), la pupilla di Giorgio Strehler Relda Ridoni (Elena), il bellissimo, bravissimo e amatissimo ballerino Milorad Mišković (Oberon) e me stessa (Titania).
Reputandomi non solo ballerina ma anche attrice, Beppe mi fece interpretare anche Ariel nella Tempesta accanto al grandissimo Glauco Mauri nel ruolo di Prospero; mi ha fatto crescere come artista, perché il balletto è anche interpretazione. Quando danzo mi stacco da me stessa, non sono più Carla Fracci ma Giulietta, Giselle, Cenerentola...
Ogni ruolo ha mondi diversi. Anche se classificati come espressioni dello stile romantico, La Sylphide e Les Sylphides, per esempio, hanno uno stile e una tecnica completamente differenti.
Per qualcuno vedermi danzare è una sorta di ritorno ai valori di gentilezza e purezza che l’immaginario ci porta a collocare nel passato. Per molti balletti sono rimasta nella cifra stilistica della tradizione, ma li ho arricchiti con qualità mie e moderne. In alcuni casi alle partiture che suscitavano momenti prevedibili ho risposto affermando me stessa. Nella danza moderna il balletto sembra non raccontare, ma solo comporre immagini in movimento. Penso alle danze d’Africa e d’Oriente, alle provocazioni del Living Theatre, alle eccitazioni di Jerzy Grotowski e alle dolenti immobilità di Peter Brook con una logica sempre molto forte.
Avere un repertorio è fondamentale, ma altrettanto importante è rinnovarsi, trovare nuovi personaggi e interpretarli attraverso le esperienze vissute. Il balletto è trasposizione e presa di coscienza, io ho sempre cercato di sublimare il personaggio, di scoprire nuovi lati del suo animo e di esprimerli con il maggior grado di intensità a me possibile. Non riesco a dividere in me l’artista e la donna. Nessuno è in grado di farlo. Tutti danziamo ciò che siamo e siamo ciò che danziamo. Proiettiamo nella nostra arte ciò che nel nostro intimo abbiamo o sogniamo. In camerino possiamo sembrare molto diversi da come appariamo sul palco, ma ognuno di noi sa che tutto è parte della medesima cosa.
In una calda notte d’estate a Roma, danzavo Giselle con Rudolf Nureyev forse per la trecentesima volta. Erik Bruhn, che era tra il pubblico, arrivò in camerino e mi disse: «Carla, ma c’è stata una metamorfosi. Ti sei trasformata in Giselle». Fui rincuorata e felice: ventisei anni di duro lavoro, ansia e panico avevano sortito un buon risultato. Il ruolo è lo stesso, però l’emozione è diversa ogni sera, arriva a me, come al pubblico, in modo differente, perché siamo esseri umani e non abbiamo mai lo stesso umore. La mia partecipazione cambia rispetto a come mi sento, rispetto a quello che mi ispirano il partner, la musica e il pubblico, che sente se un artista è impegnato fino in fondo.
Cosa sarei in scena se nella vita non amassi, non vivessi, non fossi toccata da emozioni, paure, speranze e delusioni? Mi ripetono sempre che il mio modo di ballare dà emozione: questo è il complimento che preferisco. Ma se riesco a emozionare il pubblico, vuol dire che anch’io mi emoziono: la tecnica perfetta soltanto non fa grande una ballerina.
Ognuno vive lo stesso spettacolo in modo personale: artista è chi, con la propria sensibilità, riesce a portare questa emozione agli altri. L’artista non ha ansia, vive come se l’eternità gli stesse innanzi, sereno, spensierato.
È vero che il nostro lavoro ha più spine che rose, ma lo sforzo necessario per essere una ballerina non è solo sacrificio. Vedi un film come Black Swan di Darren Aronofsky e pensi che il mondo della danza sia distorsione, competizione, sangue... Per me le competizioni sono sempre state un fatto positivo, una sfida prima di tutto con me stessa.
Da giovane osservi grandi danzatrici che ti fanno capire cos’è la poesia. Vuoi essere come loro, le imiti, fantastichi sul loro successo e ambisci ad averne uno tuo. Ma il successo e l’orgoglio per ciò che si è in grado di ottenere nascono solo dal lavoro onesto: sono frutto di sudore e tensione. Certo, ci sono anche le delusioni, ma dopo c’è sempre il sole di un nuovo mattino.
E il mattino seguente a ogni spettacolo io ero alla sbarra per la lezione quotidiana con tutta la Compagnia. Quando ho capito che in palcoscenico si acquisiscono anche difetti di postura, alla lezione con la Compagnia ho aggiunto quelle private. Il ruolo, la stanchezza, la tensione che irrigidisce la colonna vertebrale ti portano a compiere inesattezze che è importante correggere. I maestri sanno come aiutarti. I loro gesti e le loro parole sono sovrani: ti prendono le mani e tirano le redini del cervello. Impiegavo anche tre ore per rimettermi in forma.
Ho cominciato ad abituare la mia muscolatura da bambina, e quando ho cominciato a sentirmi sicura ho lasciato spazio alla spontaneità e alla creatività. Non avrei mai potuto imparare alcune cose se non avessi avuto il talento di immedesimarmi in un personaggio e trasmettere agli altri ciò che esso vive.
Ripetere la parte alla perfezione non mi basta, devo calarmi sul momento, che sia d’amore, di tragedia, di trasporto. Mi lascio andare all’espressività e all’armonia.
Ogni storia trasposta in danza è un groviglio di sensazioni: in scena i sentimenti dei protagonisti sono esasperati. Il balletto ha un linguaggio più penetrante di quello teatrale, forse è proprio l’assenza della parola a renderlo tale. La danza assomiglia alla poesia per il modo in cui è in grado di superare ogni limite.
Il linguaggio della danza classica è complesso, basato su schemi disegnati con esplorazione sapiente per rendere il metodo puro e per donare ai movimenti un’armonia compatta. Chi conosce la danza è consapevole della sintassi del balletto, conscio che la mimica liberata in arabeschi o narratrice dei turbamenti di Giselle, Giulietta e Swanilda è frutto di uno studio profondo, attento e rigoroso, come l’aria elevata di un tenore e l’estro sublime di un flautista nascono dai segni della partitura, dalle corde vocali e dalle dita che trovano posizione in modo naturale.
Ho studiato musica alla scuola della Scala, e ciò che mi porta l’ispirazione, ancor più dell’ambiente, è l’armonia, il modo in cui gli accordi si concatenano tra loro; trovo il significato di ogni accordo in relazione a quello che viene prima e a quello che viene dopo. È sempre stato così. Da ragazzina, a casa dei miei genitori, mi misi di fronte a uno di quei grandi mobili con specchiera tipico degli anni Quaranta per provare alcuni passi con il disco della Patetica sul grammofono. La musica mi entrò sotto la pelle e piansi a dirotto, commossa. Mi baso sulle vibrazioni che arrivano al mio orecchio e la musica aiuta il mio fisico a seguire il movimento dei passi e a respirare, perché la danza è anche respiro. Il respiro è parte del movimento e la musica indica il ritmo del respiro. La progressione dell’armonia è la progressione dei passi.
Come il passo dominante segue la tonalità dominante, io, oltre alle indicazioni del coreografo, seguo l’emozione che la musica mi ispira. In sala prove seguo il pianoforte, ma durante lo spettacolo seguo l’orchestra, e il coinvolgimento emotivo di un’orchestra è totale.
La forza del palcoscenico è un mistero. L’intuito mi porta a condividere la mia passione con il partner. Cerco il dialogo, il legame, mi impegno a dare e a prendere il meglio da chi lo condivide con me. Lì nasce la magia.
Mi è difficile spiegare quello che succede sul palco perché lì la vita è diversa: posso descrivere il prima e il dopo. Il mentre è tutta un’altra storia, è la dimostrazione di ciò che le parole possono aiutarti a conoscere ma non a esprimere. La danza è contraddittoria e complessa, non può essere raccontata. La danza si deve vedere, perché è un’arte di cui non resta traccia e che si consuma mentre la si esprime. Come puoi parlare del ricordo di un’emozione legata a un’immagine svanita, qualcosa che prima non c’era e che un istante dopo è sparito? Se è vero, come ha detto Vinicius de Moraes, che la vita è l’arte dell’incontro, sul palco questo vale ancora di più.
Il primo momento delicato è la run through, la prova completa che si fa con il corpo di ballo, dopo quelle con il proprio partner. In quel momento sei esposto alla prima critica collettiva.
La senti e, se non hai la forza di coinvolgere tutti i danzatori, è una sconfitta. La prima ballerina deve avere la forza di portare tutti i componenti del corpo di ballo verso di sé. Nei momenti di grande espressione l’attenzione deve essere concentrata lì. Nel canto c’è un direttore d’orchestra che ti guida. Noi danzatori non abbiamo nulla. Una volta in scena ci sei tu, il partner e il corpo di ballo.
Spessissimo, alla fine del primo atto di Giselle, dopo la pazzia, ho visto le lacrime sui volti di chi era in scena. Una cosa incredibile. Se riesci a ottenere questo, hai la performance, perché senti che chi ti sta attorno non è distratto. Vuol dire che hai forza, vuol dire che non può accadere altro rispetto a ciò che tu stai vivendo.

Finché morte non ci separi

Quando dopo nove anni di fidanzamento Beppe mi chiese in moglie, molti si opposero al nostro matrimonio. Paola Borboni, amica di vecchia data a cui Beppe aveva chiesto di lavorare al Piccolo Teatro di Firenze, espresse la propria avversione dicendo che io profumavo l’Italia e Beppe avrebbe rovinato questa essenza legandomi a un ambiente domestico. La invitammo comunque al matrimonio. Non venne, però mandò una tovaglia con un ricamo bellissimo e ventiquattro tovaglioli. Nonostante il regalo, siamo rimasti divise per molto tempo.
Anche alla Scala ci fu chi si oppose, ma uno dei miei testimoni fu Antonio Ghiringhelli e, per Beppe, Ferruccio Soleri.
Era il 7 ottobre 1964. La decisione fu di celebrare quel giorno a Volongo nella massima semplicità, come semplice era il mio abito bianco con velo leggero e lunghi guanti immacolati. Promettemmo con gioia di amarci e onorarci tutti i giorni della nostra vita, e andammo a festeggiare a Palazzo Folcieri di fronte a una torta nuziale di cinque piani.
Forse il nostro sentirci affini è nato da un innamoramento professionale e da un sodalizio artistico. È difficile capire dove scatta la molla del sentimento e dove quella della condivisione di interessi.
Piuttosto in anticipo sui tempi, io e Beppe siamo andati a vivere insieme un po’ prima di sposarci in un appartamento di via Santo Spirito 5, vicino alle case di via Senato dove si trovavano le levatrici che crescevano le bambine abbandonate perché senza padre, bambine che spesso frequentavano la scuola di ballo della Scala.
A trovare quella sistemazione ci furono d’aiuto le lettere di referenze di Eleonora de Sabata, moglie di Victor, e di Wally Toscanini, figlia di Arturo, che rassicuravano il proprietario grande appassionato di lirica Manolo Cattaneo che, nonostante fossimo persone di teatro, saremmo stati in grado di pagare l’affitto. Una casa piccola, calda, stipata di cose e di persone, a misura di gente che lavora ed è sempre di fretta, con i minuti contati, centrale, modesta e facile da tenere in ordine.
È uno dei luoghi che mi sono più cari di Milano, insieme alla chiesa di San Fedele, dove c’è la Madonna delle Ballerine. Milano è una città che amo, anche se ho sempre paura che diventi avara d’amore.
Cinque anni più tardi, il 5 ottobre 1969, nacque Francesco: due chili e quattro etti di bambino destinati a diventare un omone di un metro e novanta.
Nacque di otto mesi, ma non ebbe bisogno dell’incubatrice. Fosse stato nel mio grembo un mese in più, sarebbe nato di tre chili e mezzo. In tutto io ero aumentata di sette chili, il ginecologo mi aveva raccomandato di stare attenta all’alimentazione e di non aumentare più di un chilo al mese. Nacque che ero sottopeso.
Mi controllavo sulla bilancia, mi guardavo allo specchio, ma ho avuto la fortuna di non soffrire di ritenzione idrica. Mi allenai alla sbarra fino al giorno prima del parto. Le cosce si erano un po’ ingrossate, ma in pancia avevo una rotondità piccola.
In quel periodo non erano molte le ballerine che rimanevano incinte. Era una moda nata ai tempi di Sergej Djagilev, che voleva le ballerine vestali incorrotte, forse per evitare di non rischiare minimamente il proprio fisico.
Fatto sta che né la Pavlova, né la Ulanova, la Chauviré, la Fonteyn o la Markova hanno avuto figli. Le ballerine dell’Ottocento, invece, erano madri. La Taglioni ha avuto due figli; quando era incinta andava in giro con gli scialli e tutti dicevano: «Elle a mal aux genoux» (“Ha male alle ginocchia”).
La maternità mi avrebbe reso meno sbilanciata verso la professione; si trattava di dare equilibrio a una vita troppo tesa, non di sacrificare qualcosa al mio lavoro, semmai di aggiungere lati alla mia personalità.
Ebbi il coraggio di parlarne con Lucia Chase, la direttrice dell’American Ballet Theatre, solo al terzo mese. Avrei dovuto rinunciare alla stagione invernale. Lucia Chase la prese piuttosto male, ma tutto si risolse in fretta. Per non penalizzare il botteghino, ballai fino al quinto mese.
Appena rientrati a casa dalla clinica Columbus, Beppe incontrò Paola Borboni in via Montenapoleone. Il dialogo fu inevitabile, lei di un sussiego incredibile. Beppe la invitò a salire, ma Paola lo guardò negli occhi e rifiutò l’invito. Poi abbassò lo sguardo e disse: «Mi commuoverebbe troppo, Beppe».
Si allontanò se...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Passo dopo passo
  3. La campagna di Volongo
  4. La scuola di Gazoldo degli Ippoliti
  5. Ritorno a Milano
  6. Teatro alla Scala
  7. Divi e divine
  8. Passo d’addio
  9. Cenerentola e la Fata Confetto
  10. Festival di Nervi
  11. Giulietta
  12. La Maria
  13. Giselle
  14. London Festival Ballet
  15. Pubblico italiano e pubblico americano
  16. La Sylphide
  17. Erik
  18. American Ballet Theatre
  19. La metamorfosi
  20. “Time”
  21. Swanilda
  22. Rudy
  23. Francesca e Gelsomina
  24. Musicalità e respiro
  25. Finché morte non ci separi
  26. Il bianco
  27. Il rimorso più grande
  28. Il ritorno in scena
  29. Antony Tudor
  30. Ingiustizia e coraggio
  31. Stati Uniti
  32. Intimità del camerino
  33. Odette e Odile
  34. Arena di Verona
  35. Eroi di un mondo che non c’è più
  36. Filumena
  37. Paolo Bortoluzzi
  38. Misha Baryšhnikov
  39. La prima volta di me e Rudy a New York
  40. Complicità
  41. La tournée della Scala alla Metropolitan Opera House
  42. Donna Strepponi
  43. Narciso in forma di ritratto
  44. Tamara Karsavina e Madame Doche
  45. Non solo classici
  46. Carnevale a palazzo Pisani-Moretta
  47. Il decentramento
  48. Buenos Aires e Gheorghe Iancu
  49. Alla corte dei Gonzaga con Dame Margot, Rudy e Vasil’ev
  50. Le nozze d’oro dell’American Ballet Theatre
  51. L’Avana, Mosca e Tokyo
  52. Lizzie
  53. Hagar
  54. Léa
  55. Nei versi dei poeti
  56. Winnie
  57. Le stagioni della mia famiglia
  58. Alla guida
  59. Maturità e longevità nella danza
  60. Cultura e insegnamento
  61. Il futuro
  62. Copyright