Nuovi Argomenti (16)
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Nuovi Argomenti (16)

  1. 260 pagine
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Nuovi Argomenti (16)

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Informazioni sul libro

Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Biagio De Giovanni, Giorgio van Straten, Alfredo Reichlin, Salvatore Veca, Andrea Salerno, Roberto Andreotti, Luca Balestrieri, Roberto Gualtieri, Carola Susani, Flavio De Bernardinis, Emiliano Sbaraglia, Nyoongha Mudrooroo, Vittorio Giacopini, Katarina Frostenson, Andrea Gibellini, Valerio Aiolli, Pietro Bottai, Marco Santagata, Flavio Santi, Renato Ghiotto, Cornelia Hörter, Alfonso Berardinelli, Massimo Onofri, Massimo Rizzante, Andrea Cortellessa.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852045424
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L’ATTO «ASSOLUTO»
E LA STORIA


Biagio De Giovanni

1. È difficile storicizzare una data come quella dell’11 settembre. Che cosa significa storicizzare? Mettere in connessione, legare un fatto ad altri, individuare rapporti di causa e di effetto, e costruire il significato in queste relazioni. Il primo impatto che ha avuto su di me l’11 settembre è stato di altra natura: mi è sembrato un evento “assoluto”, l’inizio radicale di qualcosa di nuovo, un fatto che in un certo senso non poteva esser riportato ad altri. Ma siccome esso è pur sempre un fatto storico e condizionato, che si svolge nel mondo della storia come tutto quello che vediamo e conosciamo, mi son trovato di fronte a una curiosa contraddizione fra quella impressione e la difficoltà – forse l’impossibilità – di argomentarla. Eppure, essa permaneva e tuttora, a distanza di tempo, permane, nonostante l’evidenza potrebbe portare in altra direzione e ragionevolmente motivarsi entro di essa: relazione della tragedia americana con la storia di questi decenni, con il conflitto fra palestinesi e israeliani, con la guerra del Golfo e i suoi effetti, con l’irrompente globalismo e l’aumento delle contraddizioni etc., tutti fattori che appartengono alla storia e alla politica, forniti di date, di scansioni, di periodizzazioni, tutti fattori che potrebbero “umanizzare” l’11 settembre nel momento stesso in cui sono in grado di metterlo in un contesto.
2. Se allora quella impressione permane, ciò vuol forse dire che l’esplosione di Manhattan ha una dimensione che va oltre la storia e la politica, si colloca in un altro alveo, che potrà esser riportato dentro il mondo umano della storia ma non completamente, con una sorta di residuo che impedisce di risolverlo compiutamente in esso. Un evento “assoluto”, dicevo. In che senso? Forse le modalità dell’attentato influiscono, e non sono delle semplici modalità. Chi ha portato morte, si è egli stesso ucciso. Anche questo lo avevamo già visto, ma in ciò che è avvenuto finora il suicidio era operato da chi partecipava direttamente a una battaglia, preso dunque immediatamente nel groviglio dei sentimenti e delle passioni che lo stare dentro una situazione può produrre. Questa volta la cosa è diversa: interviene in forma nuova una sorta di professionalità fredda, che decide a freddo, dall’esterno di una passione diretta, prodotta da un pensiero e da una “fede” che dichiarano di possedere la verità. Questo dato tanto più si fa leggere con una sua assolutezza, in quanto introducendo necessariamente la morte di chi offende, muta in modo radicale e definitivo il concetto di guerra, introduce appunto un “assoluto”, mette il rapporto fra morte e vita in un gioco di relazioni diverse da quelle finora conosciute nella guerra, dove la possibilità di difesa e offesa reciproca, la volontà di conservare se stesso, “umanizza” la guerra e la riporta nel novero delle cose che possono essere umanamente comprese. La fisionomia della guerra storica è dominata da una offesa-difesa in cui ognuno vuol conservare se stesso. All’opposto, solo chi interpreta in modo assoluto lo scontro cui partecipa, può agire come a Manhattan, producendo quella sensazione da cui sono partito. Ma chi opera questa interpretazione? Chi appunto vede, nello scontro, uno scontro assoluto, non storicamente determinato, non guardato entro coordinate dominate da una politica, per quanto drammatica essa possa essere. Solo l’idea di portare lo scontro a livello di scontro fra civiltà, affermando in esso il principio di una verità assoluta, può produrre questo. Solo chi pensa che è in gioco “tutto”, può mettere la propria vita non a rischio ma a necessario sacrificio. Quello che sottrae l’11 settembre alla storicità delle date politiche, sempre determinate e determinabili, sempre interpretate e interpretabili, è proprio la dimensione in cui essa si incastona nelle medesime modalità che mette in atto.
3. La civiltà dal cui lato si colloca il terrore, si considera nemica assoluta di quella che colpisce, e in questo senso sottrae il proprio comportamento ad ogni connessione con eventi determinati. Chi colpisce, non può avere nessuna riserva da conservare, non ha in realtà nessun problema da risolvere: perciò il suo atto è assoluto. Forse, allora, l’impressione iniziale si può argomentare. E naturalmente, si può anche comprendere perché l’Occidente rigetta questa lettura non solo per ragioni – come dire? – di convenienza, ma per una ragione interna al suo modo di essere, alla sua ragione profonda, alla sua identità definitivamente consolidata: che è nel riconoscimento della diversità, per quanto conflittuale essa possa essere, nella riconosciuta impossibilità di una guerra fra civiltà. “Il terremoto che ha scosso il suolo fermo ha egualmente distrutto ciò che separa, ciò che ci rende estranei gli uni agli altri”, come scriveva di Europa ( e di Occidente) un grande pensatore. C’è dunque – ed è giusto che sia così – una dissimmetria nella interpretazione e nei comportamenti; ma proprio questa dissimmetria apre un capitolo pauroso della storia umana, giacché essa mette a confronto due interpretazioni della storia e della civiltà che si muovono su piani diversi e inconciliabili. Lo scontro fra assoluto e relativo nella storia contiene in sé elementi catastrofici, sposta il piano della storia verso quello della teologia, immette una dimensione letteralmente mortale nello scontro, anche perché potrebbe costringere la civiltà del “relativo”, per difendere se stessa, a tradire proprio il senso di questa relatività, a riguardarsi in una assolutezza che essa rifiuta e che ne annienterebbe il principio costitutivo. Nel terrore islamico (non nell’Islam come tale, ma questo è stato detto mille volte) interpretato come ho accennato, si nasconde perciò una lettura del rapporto fra dio e storia, fra verità e storia, che è parte di quella visione teocratica del mondo componente forse di ogni religione ma oggi presente nell’identità prevalente che l’Islam manifesta. Da questa visione, l’Occidente ha l’obbligo di difendersi senza tradire se stesso, senza lasciarsi trascinare oltre di sé, ma rivendicando – questo sì – la forza della propria capacità di riconoscere la tensione unitaria di quella molteplicità che lo ha costituito.
4. Come accolgono le nostre società questo stato di cose? Non mi riferisco né al dibattito sulla guerra (che a me pare povera cosa: mai come oggi ho avvertito la doppiezza del pacifismo) né agli atteggiamenti politici di governi e gruppi dirigenti. Vorrei riflettere un istante proprio sulle sensazioni che possono oggi attraversare il senso comune, la sensibilità che certamente percorre le nostre società. Società secolari, che improvvisamente vivono la tragicità della storia, direttamente, senza mediazioni, come una forza incombente che segue sue leggi misteriose, quasi cadute d’improvviso dall’alto come letteralmente è avvenuto a Manhattan. Forse ancora questa sensazione non penetra tutti, forse ancora molti si illudono che la tragedia americana sia appunto “americana”, che stia lì, in un certo senso appartata, senza toccare il mondo e la storia come erano fino all’11 settembre. Ma certo questo urto fra condizione secolare e tragicità si fa già sentire, e se volessi ricavare da esso solo qualche conseguenza direi che l’improvviso irrompere del tragico fa giustizia di tutte quelle immagini della realtà che si erano schiacciate sul secolarismo, su di esso avevano costruito i tragitti di un pensiero “debole” (ossimoro: qualcuno aveva provato a dirlo) ormai acquietato rispetto a un mondo pensato senza storia e senza politica, come semplicemente immerso nella chiacchiera quotidiana. Tutto caduto, in un baleno. Il tragico della storia richiama in campo la politica – anche nella forma estrema della guerra –, obbliga a rimettere in campo categorie desuete, snervate dal ritmo e dalle cadenze di un secolarismo che ha immaginato il campo della libertà disegnarsi senza presupposti, puro fatto dell’individuo, privato della responsabilità che lo forma, della determinatezza storica che lo definisce. L’11 settembre potrebbe dunque riproporre uno spazio per il pensiero, un obbligo a ricostruire categorie di comprensione, e forse è destinato a restituire non solo ai gruppi dirigenti ma alla comune umanità occidentale un nuovo senso di responsabilità verso sé e verso il mondo, una sveglia a chi si era addormentato, una spinta in grado di ricostruire una coscienza di sé, una qualche cosa che dal secolarismo faccia rinascere il senso forte della laicità, che è il valore della forza dell’Occidente: possiamo usare, quando necessario, la forza, quando si nega la legittimità della nostra esistenza, esattamente perché siamo disposti a riconoscere gli altri. Possiamo rispondere con la forza alla violenza dell’assoluto, esattamente perché non riconosciamo a nessuno la proprietà dell’assoluto. In questo quadro, c’è come il bisogno di una riorganizzazione della ragion politica, di una ridefinizione degli spazi in cui essa agisce, il bisogno di rinunciare a far governare questi spazi dal binomio individuo-economia, di riaffermare non dico la statualità come tale ma certo il tessuto razionale che in Occidente ha dato vita alla secolare saggezza dello Stato nel nuovo contesto dove essa evidentemente non basta più. Storia e politica dovranno riprendere il governo del nostro mondo, e della sua interpretazione “del” mondo, pena, mi sembra, una torsione catastrofica del futuro.
5. In quale spazio è cresciuto quell’atto che ho chiamato assoluto? È stato scritto mille volte in questo mese: in uno spazio globale, in cui diventa difficile fissare confini. Ma si sono ricavate tutte le conseguenze da questa premessa? Forse si può orientare la discussione nella direzione seguente: il globalismo non pensato politicamente riaccende le rivendicazioni assolute di identità, fino a definire queste identità come civiltà tese ad affermare, con massima e assoluta asprezza, se stesse; la vecchia organizzazione degli spazi politici riduceva questa possibilità, giacché dentro spazi organizzati e storicamente determinati la ratio della storia prende il sopravvento. Al globalismo privo di dimensione politica, può corrispondere il fondamentalismo come atto assoluto. Nel generale indebolimento delle identità, nella rottura degli spazi organizzati della politica (crisi degli Stati e in generale dei soggetti e delle classi dirigenti politiche, difficoltà nelle costruzioni postnazionali e poststatali), c’è il terreno ideale perché una identità ripiegata su se stessa – fondamentale, integrale – metta in campo una potenza distruttiva che si costruisce come una forza senza limiti la quale combatte per una identità portatrice di morte. E qui naturalmente torna a soccorrere la storia concreta, nel suo effettivo divenire: ridurre il terreno di coltura dell’atto assoluto – non eliminare la sua ragione che si sottrae a ogni determinatezza – è possibile ridisegnando spazi, riorganizzando spazi politici (dallo Stato palestinese a quello degli ebrei, per toccare il tasto più dolente), ridefinendo le ragioni di questi spazi, la coesistenza del mondo in quella globalità che – dicevamo fino all’11 settembre e certo continueremo a dire, ma in che modo? – è la forma dell’umanità del presente e del futuro.
6. Perché anche su questo l’11 settembre è data che fa epoca? Per giungere a una conclusione, vorrei osservare che l’esplosione di Manhattan rappresenta il più duro attacco che sia stato portato al globalismo dell’ultimo decennio, ovvero, piaccia o no, al possibile progresso dell’umanità. Le prime chiusure sono già evidenti, e riguardano gli spazi della circolazione, quelli del commercio, dell’occupazione; le chiusure delle società insicure che chiedono sicurezza e rinunciano ad aprirsi con fiducia in una visione multietnica che si andava affermando; libertà che può cedere a sicurezza; democrazie costrette a ridisegnare i propri confini; povertà che si allarga, quando nell’ultimo decennio (ma chi se ne ricorda ora?) essa è andata clamorosamente indietro in molte aree del mondo – dall’Asia all’America latina – dove sistemi politici organizzati sono stati in grado di interpretare il processo globale. Il 1914 è la data del passato alla quale riferirsi. Anche quella data – vigilia della guerra – giungeva all’indomani del primo grande processo di globalizzazione, e non vi è più nessun dubbio sull’ampiezza di quel processo, sugli scontri di egemonia che allora esso determinò, tragica risposta che nazionalismi e totalitarismi diedero alla internazionalizzazione dell’economia: Gramsci ha scritto, su questo, pagine fondamentali. Il mondialismo arretrò, e la storia fu dominata dalla guerra. Oggi siamo davanti allo stesso rischio, di un attacco regressivo alle tendenze globali della storia. Che fare? Come arricchire il governo politico della globalizzazione senza rinunciare alla sua immanente forza di progresso? Questo problema è davanti all’Occidente, e in modo drammatico davanti all’Europa, che deve rispondere al problema della propria capacità di contribuire all’organizzazione degli spazi del mondo. La storia si riapre, dal momento che il nemico è ricomparso sulla scena del mondo. Ma una risposta non sarà possibile, e misurata sulla realtà, se Occidente e Europa non riprendono coscienza di sé, della forza delle proprie istituzioni, della consistenza profonda della loro civiltà, laica, moderna, dinamica, con ordinamenti fondati sull’uguaglianza dei diritti e sulla libertà religiosa e intellettuale. Si dovrà sviluppare la più forte autocritica su dimenticanze e arroganze, ma muovendo dalla coscienza di sé, dalla convinzione di voler attivamente proteggere una civiltà che merita di esser protetta, senza debolezze, in questo caso segno di mortale decadenza e dunque di scettica e imbelle rinuncia.

DESCRIZIONE
DI UN UOMO OCCIDENTALE
DI FRONTE ALLA TRAGEDIA


Giorgio van Straten

Quando vide le immagini, pochi minuti dopo che tutto era accaduto, ciò che provò, prima ancora dell’incredulità, fu la sorpresa per il modo in cui gli aerei penetravano all’interno dei grattaceli: sembrava che ne venissero assorbiti, come in un magma, producendo in uscita le fiamme di un’esplosione e poi un fumo nero, quasi che quelle enormi torri di vetro e acciaio fossero in grado di digerirli.
Lui sapeva che era apparenza, che quegli aerei distrutti avrebbero divorato le torri come un cancro, le avrebbero mangiate dall’interno senza farsene accorgere, ma intanto continuava a guardare quelle immagini ripetute al rallentatore, quelle bocche che si aprivano e fagocitavano gli aerei, quasi li avessero calamitati, li avessero attirati nel gorgo delle loro superfici liquide.
Rimase così, a lungo, in silenzio, a guardare; tolse anche il volume al televisore, perché gli sembrava che non ci fosse niente che si potesse spiegare con le parole, anzi che le parole lo rendessero solo più confuso, dato che tutto avveniva davanti ai suoi occhi senza ambiguità, e anche perché in basso sul teleschermo continuava a scorrere il testo in inglese che riepilogava momento dopo momento quanto stava accadendo: le immagini infatti provenivano da un unico canale di informazione americano e ogni televisione del mondo le riproduceva identiche.
Lui sapeva quanto la sua vita, la vita nel mondo che lui conosceva, somigliava a quelle torri, per come continuava ad assorbire qualsiasi oggetto contundente nella convinzione di poterlo assimilare, nella convinzione che quella fosse l’unica maniera possibile di affrontare la vita.
Ora capiva che c’è sempre qualcosa che può distruggere anche l’acciaio più temprato, che può esplodere dentro di te, lasciando solo la speranza che arrivi qualcuno a spegnere le fiamme.
Disse alla segretaria di non passargli più telefonate, di non fare entrare nessuno, di staccare qualsiasi comunicazione con l’esterno, e si mise ad aspettare.
Lui infatti sapeva che era solo una questione di tempo, che le torri, divorate all’interno da quella metastasi di calore che l’aereo, distrutto, aveva lasciato nella spina dorsale dei grattacieli, erano destinate a crollare.
Quando vide le immagini – pochi minuti dopo che gli aerei erano andati a infilarsi dentro il vetro e l’acciaio delle due torri gemelle, sull’isola di Manhattan, nel centro dell’emisfero occidentale, in uno dei paesaggi più conosciuti della terra – rimase fermo, in mano il telecomando con il quale aveva tolto il volume del televisore, in attesa che tutto arrivasse alla sua conclusione. Pensò che c’era, in quel suo atteggiamento il riflesso di un’impotenza che aveva avversato per tutta la vita. Comprendeva, per la prima volta, la passività con cui molti, in un passato lontano che ancora si riverberava sulla sua esistenza, avevano subito il proprio annullamento. Quando non c’è alcuna possibilità di intervenire, quando tu comprendi la grandezza della tragedia e insieme la sua ineluttabilità, quando il proiettile è partito, la lama della ghigliottina ha iniziato la corsa verso il basso, la bomba, sganciata la sicura, sta per esplodere, in quel momento non c’è che quiete e angoscia: entrambi totali, entrambi in grado di paralizzare l’azione di qualsiasi individuo.
Ecco ti stanno, ci stanno per colpire, e l’unica cosa che ancora ti separa dall’abisso, dalla fine, dall’ordine ineludibile, è il pensiero.
Dunque si trattava di pensare, di reagire non attraverso l’azione, ma usando la propria immobilità. E così fece, anche quando sullo schermo vide uno dei due grattacieli collassare, la parte superiore che schiacciava la parte inferiore, coprendo il vuoto lasciato dall’aereo, mantenendosi intera per tutto il tempo della caduta, fino a che sotto di essa c’era ancora qualcosa da appiattire. Un’implosione della torre sulla sua proiezione, come quei palazzi demoliti per mezzo di cariche collocate secondo precisi calcoli al fine di provocare un crollo verticale, evitando danni a quanto circonda l’edificio.
Così finiva: in un’enorme nuvola di fumo chiaro, perché anche se le torri sembravano solo vetro e acciaio, contenevano cemento e pavimenti, pareti, legno, mobili, carta, e tutto questo crollando si sgretolava e scompariva in quella nuvola di fumo: polvere alla polvere, cenere alla cenere.
Quando vide le immagini, quando vide le torri crollare, una dopo l’altra – la seconda quasi come fosse un ammainabandiera, con il pennone, l’antenna della torre nord, che scendeva verso il basso, e ancora lo si poteva distinguere, e ancora, e ancora – lui si rese conto che l’irrealtà di quella scena, ciò che la rendeva imparagonabile a qualsiasi altra immagine di attentato avesse visto prima, era la sua apparente asetticità, perché non c’erano suoni (anche se avesse dato di nuovo il volume al televisore, non avrebbe ascoltato altro che i commenti dei conduttori, nessun suono della tragedia), né uomini e donne (appena uno straccio agitato fuori di una delle finestre in uno dei pochi primi piani di quelle immagini), né odori: solo i campi lunghi e freddi dell’insieme. Un aereo, oggetto inanimato, penetra dentro una torre, altro oggetto inanimato. E migliaia e migliaia di esseri animati muoiono senza che nemmeno si possa vederli, ascoltarne le grida, ritrovarne i corpi.
L’uomo chiuso nel suo ufficio, la porta sbarrata e nessuno che può entrare, l’uomo, che ha solo telefonato a sua moglie per dirle quello che stava vedendo, adesso prova un dolore che è come un nocciolo duro di metallo e una rabbia fredda. Ecco il pensiero, arriva il momento che qualcosa si articola e chiede cosa stia succedendo, cosa sia successo. Due aerei vengono inghiottiti da due torri, due torri vengono inghiottite dal terreno, e non sappiamo ancora esattamente di cosa si tratti, eppure sappiamo che ciò che sta accadendo è incommensurabile e chi lo vede non sarà più uguale a prima.
Una guerra, pensò.
Contro di me, pensò.
Nemmeno per un momento la distanza che lo separava dalle immagini delle torri, anzi dal vuoto che ora occupava lo spazio dove prima erano le torri, gli sembrò che segnasse una differenza: lui avrebbe potuto essere in quei grattacieli, lo sapeva con la stessa certezza che gli impediva di pensarsi moribondo per fame in uno stato dell’Africa. Lo commuoveva e lo feriva, certo, ogni bambino ucciso dagli stenti, pensava che non era giusto, che si sarebbe dovuto fare qualcosa, ma non avrebbe mai potuto pensare di essere uno di quegli uomini e donne distrutti dalla povertà; invece quella tragedia era la sua, lui apparteneva al mondo di New York, alle sue torri, al fumo chiaro e scuro, alla persone coperte di polvere che ora le telecamere riuscivano a inquadrare, a quelle strade, a quell’isola, nonostante le migliaia di chilometri che separavano tutto questo dal suo ufficio. Era sempre Occidente: la sua musica, i suoi pensieri, le sue mode e abitudini. I suoi morti.
Contro di me, pensò.
Perché? Si chiese.
Lui apparteneva al mondo del denaro e degli oggetti. Aveva scelto di farne parte, e poi se n’era dimenticato. Gli era successo da ragazzo, un giorno, entrando in un grande salotto, quando aveva visto un raggio di sole attraversare una bottiglia di cristallo, piena di un liquido rossastro. Aveva pensato allora che quella bottiglia era la cosa più bella che avesse mai visto, che quella stanza era l’emblema di una possibile felicità, che molti oggetti potevano r...

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