Ti ricordi la casa rossa?
eBook - ePub

Ti ricordi la casa rossa?

Lettera a mia madre

,
  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Ti ricordi la casa rossa?

Lettera a mia madre

,
Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Mentre una madre perde inesorabilmente la memoria, il figlio non fa che ricordare, anzi impara a ricordare. Il racconto della Casa Rossa è questo emozionante e poetico viaggio inversamente proporzionale, perché ora il tempo non fa più da fissativo ma da solvente: il dissolversi delle memorie della madre è il set dei ricordi del figlio. Nell¿itinerario percorso in direzioni contrarie c¿è la ricerca di un appuntamento, la rinnovata speranza di incontrarsi in qualche fortunato luogo dell¿anima. Come la Casa Rossa, nel Cilento, dove si trovano le radici e le memorie, assieme autentiche e mitiche, di una famiglia. Risalendo di ricordo in ricordo, Giulio Scarpati ¿riracconta¿ alla madre, affetta dal morbo di Alzheimer, la storia della sua famiglia: ripercorre tutte le tappe del consueto viaggio a Licosa, per anni loro meta estiva e luogo a lei particolarmente caro, fa il ritratto nitido della persona vitale che era prima di ammalarsi, percorre ogni possibile strada per farla reagire e restituirle i ricordi delle cose, dei nomi, di una vita intera. E attorno alla Casa Rossa, il cuore della memoria condivisa, ruotano gli aneddoti più malinconici e più divertenti, a partire dal periodo della guerra e dai vecchi rituali cilentani, l¿esplorarsi dei corpi, la scoperta del sesso. Passando per le vicende del Giulio angelo biondo, ragazzino sempre obbediente, al quale si contrappone l¿alter ego Giulio il pazzo, meno inquadrato e più artista, fino ai suoi primi lavori teatrali, il periodo di attivismo politico negli anni Settanta, l¿avventura del cinema e il grande successo popolare di Un medico in famiglia. Ti ricordi la Casa Rossa? è il memoir caldo e commovente di un attore intelligente che riesce a raccontare una storia in cui tutti ci riconosciamo, perché il ricordo è ciò che pensavamo di avere dimenticato.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Ti ricordi la casa rossa? di in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Media & Performing Arts e Music Biographies. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852047008

Agropoli, stazione di Agropoli

Gli eucalipti che abbiamo piantato lungo la discesa a mare sono diventati enormi, fanno molta ombra, anche se all’ora sbagliata. Non abbiamo fatto bene i calcoli. Restano però bellissimi, alti, sembrano sentinelle. Le persone che custodiscono la casa quando non ci siamo sono le stesse di quando qui ci venivi tu, e identica è la loro filosofia. Hanno i loro tempi, i loro modi. Se arrivi per le vacanze e provi a osservare che il terreno non è ancora sistemato, che assomiglia a una giungla, la risposta risuona filosofica: «Sa, signor Giulio, la fatica è così: si vede e non si vede». Oppure: «Signor Giulio, solo la morte è il vero problema». E davanti a questo, non si può ribattere. Nessun problema, dunque. Che poi sarà anche il motivo per cui, quando sto a Licosa, riesco a rilassarmi completamente. Laggiù la calma è elevata all’ennesima potenza. Una volta da casa nostra vedemmo un incendio che divampava, mangiando l’intera montagna, e noi corremmo armati di secchi, coperte, frasche. Arrivati lassù, tutti preoccupatissimi e trafelati, trovammo il contadino che, mentre le sue piante di “aulive” bruciavano, ci chiese: «’O volite ’o cafè?». Un po’ troppo rilassamento per come sono fatto io, ma tant’è, ho imparato a adeguarmi.
Andando ultimamente a Licosa mi sono ricordato che ogni volta che passavamo in macchina all’altezza di Cassino ci raccontavi della guerra. Pare che nonno Giulio abbia visto dalla Casa le navi degli Alleati che sbarcavano a Salerno nel ’43. E a Licosa, non so per idea di chi, si era sparsa la voce che, se in qualche modo si fosse data l’impressione di essere un corposo raggruppamento di civili, gli aerei non avrebbero bombardato. Cioè, più gli uomini erano numerosi a terra, meno erano bersagli dall’aria. Teoria bizzarra. Fatto sta che, per metterla in pratica, una notte ogni paesano prese delle candele, andò nell’ovile, tirò fuori le sue capre e gliele mise in testa. Proprio così. Accesero le candele sulla testa di centinaia di capre e le raggrupparono tutte in un punto. Lo spettacolo dagli aerei doveva essere grandioso, e davvero invitante se l’intenzione era quella di colpire. Che ci faceva tutta quella gente di notte all’aperto? Una processione? Non so cosa abbiano pensato i piloti, so solo che anche stavolta questa visione, questa assurdità concretizzata da un insieme di persone alle prese con un’assurdità ancora più folle come la guerra, sarebbe molto piaciuta a Fellini. “Il visionario è l’unico realista”, e infatti i licosani si salvarono.
Pensando di mettervi al sicuro, tu, tua madre e tua sorella Luisa coi due figli eravate andate a Fondi, dove viveva la famiglia di zio Vincenzino, il marito di zia Luisa. Zia Luisa era alta, bionda, occhi celesti. Bellissima. Il marito era finito in Russia e lei, poveretta, si era ritrovata sola coi due bambini piccoli. Quel giorno decideste di prendere le posate d’argento che avevate murato nella casa di alcuni parenti. A un certo punto, d’improvviso, scattò l’allarme e non appena corsi in strada, il palazzo fu bombardato. Sventrato. Morirono quasi tutti. Chi sulle scale, chi in cucina o sotto il balcone. Dico quasi tutti perché papà si salvò. Papà è nato a Fondi nel 1922 e lì vi siete incontrati la prima volta. Da subito fu chiaro quali fossero i vostri caratteri: lui aveva sentito l’allarme ma, pigro e fatalista com’era, non si era alzato dal letto. Crollò tutto tranne la sua stanza, anche se la ritrovò con una parete in meno. Tu rubasti la scala dalla Casa del Fascio e la poggiasti sotto la sua finestra per farlo scendere. Insomma foste entrambi salvi ma per motivi opposti: tu perché eri corsa fuori veloce, lui perché non lo aveva sfiorato nemmeno l’idea.
Mentre scappavate su un carretto con i feriti a bordo, i vestiti dilaniati e le facce contuse, arrivò un aereo in picchiata. Vi aveva puntato da lontano, non c’era via d’uscita. Allora papà si mise in piedi sul carretto e spalancò le braccia come un Cristo già crocifisso, come per dire: “Più di questo, cos’altro ci volete fare?”. Ha sempre detto che avrebbe tanto voluto ritrovare quel pilota che vi aveva risparmiato, ingranando la marcia della pietà.
Entrava sempre questa umanità nei tuoi racconti del conflitto. Sempre che di umanità si possa parlare quando c’è di mezzo comunque la distruzione, se non di persone, di cose. Meno grave certo, ma separare le une dalle altre provoca lo stesso morte. Forse non fisica, forse non totale o visibile. Senza una casa, senza le cose, senza gli oggetti di una vita, quella vita non è più la stessa. Se ne vanno parti intere di te. Ma questo lo sai bene. Perché lo hai vissuto nella guerra mondiale e nella guerra individuale, dove le cose non ti sono più care perché sono state private dei nomi di chi te le ha regalate. Senza memoria le cose diventano oggetti qualunque, e gli oggetti qualunque sanno farti sentire un estraneo.
Nel casolare dove poi vi eravate rifugiati di notte, stretti l’un l’altra per non avere freddo e paura, con i pidocchi in libera circolazione, non accadde la stessa cosa. Non ci fu traccia di pietà. La mattina seguente alcuni di voi si incamminarono presto e, appena lasciato il casolare alle spalle, gli Alleati lo fecero esplodere. Non aspettarono che fosse vuoto. Chi dormiva, è rimasto a dormire per sempre. Chi si salvava, procedeva. Senza sofisticare troppo. E forse la guerra è questo. La scoperta dell’istinto di conservazione. Essere in grado di andare avanti dopo aver visto il peggio. Non c’era tempo per addolorarsi, bisognava pensare alla pelle. Quel dolore ve lo caricavate addosso senza fermarvi.
Da sfollata lavoravi dove capitava. Aiutavi i contadini a fare il pane, raccontavi storie in cambio di bucce di patate. Sei stata un racconto continuo, tanto che a noi tre figli ci sembra di aver visto tutto di persona. Non proprio tutto, per fortuna.
Tu hai visto l’orrore. E giuro che non te lo rammenterei se non fossi sicuro che oggi è una delle poche cose che ricordi. La donna bottino di guerra. Migliaia di donne ciociare violentate nel ’44 dal contingente marocchino dell’esercito francese, stuprate in gruppi da due, tre o più uomini. Hanno preso alcune tue parenti, tra l’altro anche anziane. Scelsero una vostra compagna e zia Luisa si offrì al posto suo, pensando ingenuamente che, essendo madre e con due figli piccoli, l’avrebbero risparmiata. E in effetti sembra sia andata così. Ai marocchini non parve vero quello scambio, lei bella, bionda e con gli occhi celesti. Ma uno di loro, il marocchino buono lo chiamavi, la sottrasse alle grinfie dei suoi compari dicendo: «Mia famiglia» e di nascosto la lasciò scappare. È andata davvero così? O nei tuoi racconti volevi proteggerci dalla verità? Se è andata così, allora perché adesso ti agiti, parli a tua sorella, che vedi solo tu, e urli: «Ma io che potevo fare? Ero piccola. Che potevo fare?».
Tua madre aveva dato l’ordine a voi due sorelle: se i militari avessero bussato alla porta, dovevate buttarvi giù dalla finestra, e se li aveste avvistati nel tragitto, dovevate correre via per i campi a costo di perdervi, o saltare senza esitare nel burrone. Qualsiasi cosa, anche il suicidio, piuttosto che la resa. Eri piccola, la più piccola, eppure ti sentivi responsabile come il capofamiglia. Lo sei sempre stata. All’epoca parlavi già il tedesco e l’inglese, ti esponevi, te la cavavi nelle trattative con i militari che intralciavano la vostra fuga. Non sei stata abbastanza utile? Per questo sei mangiata dal senso di colpa? Dovevi ancora difendere chi? Da cosa?
Quante cose non so di te. Quante domande avrei potuto farti, finché eri in grado di rispondermi. Molto tempo dopo la guerra, facevi colazione in un bar e accanto a te prendeva il caffè un signore arabo. Appena te ne sei accorta, hai avuto una vera e propria crisi isterica, perché ti evocava quel brutto trascorso. Poi hai razionalizzato, hai aggiunto che quello, poverino, non c’entrava niente, che non si può generalizzare. È successo qualcosa da cui ci hai protetto? Adesso gridi per quello che è successo o per quello che sarebbe potuto succedere? È accaduto realmente o è tutto nella tua testa?
Sei diventata un mistero. Un figlio pensa di sapere tutto della propria madre e invece si ritrova con un mucchio di domande sulle labbra. A volte sei impietrita. Come davanti a un grande, brutto spettacolo. A un certo punto, in quei giorni tremendi, ti arrabbiasti chissà per quale motivo e te ne andasti via da sola, lasciando il resto della famiglia. Arrivasti in cima a un monte e lì davanti ai tuoi occhi l’abbazia di Montecassino fu rasa al suolo. Eri scioccata. È questo che stai ancora guardando?
O forse ti stanno sfilando davanti quei diciottenni che cantavano canzoni dedicate alla mamma, l’ultima infornata di ragazzini da mandare al macello, che dopo la curva morirono in coro.
In questa stanza vedi continuamente un mucchio di uomini che arrivano. «Bisogna scappare!» ci dici. Sono incubi in carne e ossa e io non posso combatterli. Non so come salvarti.
Fortuna che ogni tanto ti distrai e mi insulti. Credo tu mi scambi per papà. Siamo due gocce d’acqua. Ci tenevi a specificare: «Somigli a Franco, ma sei tutto me!». C’è sempre stata questa sorta di razzismo nei confronti del ramo Scarpati, da te considerati una specie di tribù di sciamannati, pagliacci, casinisti. Gli Scarpati insani, allegri, molto teatrali. Gli Schreiber calvinisti, composti, serissimi.
Mio nonno Luigi Scarpati senior era una specie di Totò: una discreta somiglianza con il “grande” piccolo, anche lui affetto da rachitismo non curato o mal curato. Aveva un debole per la commedia. Essendo cavaliere del Lavoro, pensò bene di considerarsi un nobile e si intrufolò nei raduni degli altolocati, portando al fianco sua moglie, nonna Maria. In un’altra occasione era riuscito, non so come, a salire sul palco di un comizio socialista dove parlava Pietro Nenni e si era tanto calato nella parte del dirigente che impose a un altro giovane dirigente che era sul palco di portare subito all’oratore un po’ d’acqua.
Nonna invece sembrava un po’ più seria, ma la tradiva un naso da Pulcinella. So che aveva fatto un albero genealogico finito chissà dove. Nonna Maria era, infatti, di una nobile famiglia decaduta, suo padre era diventato avvocato grazie all’aiuto di Franceschiello, ultimo re delle Due Sicilie. Della sua “casata” ci teneva a dire: “Professionisti dai calzoni laceri… ma professionisti”. Non le era mai andato giù di essersi imparentata con una famiglia di commercianti come gli Scarpati. Quando veniva a casa nostra si sedeva al pianoforte e ci faceva una sonatina legata a un suo amore di gioventù. Che non era stato nonno. La cantava con un trasporto quasi erotico, avvicinandosi e allontanandosi dai tasti, e con un languore commovente. Anche lei, da anziana, cominciò a dimenticare i nomi e a fare stranezze, però era serena, non scoppiava a piangere come fai tu.
Ad esempio, stavamo a tavola, tutti a mangiare composti, e lei, anche con una certa eleganza, si toglieva il tovagliolo dalle ginocchia e lo intingeva nel sugo. Oppure era convinta di essere la moglie di suo genero e quando vedeva la figlia abbracciarlo gridava: «Ma che vuole questa? Giù le mani da mio marito». Magari prendeva altre identità e chissà cosa le diceva la testa, ma aveva una sua lucidità e la sua demenza la rendeva addirittura allegra.
Comunque a te gli Scarpati non ti facevano affatto ridere. Ed eri preoccupatissima che da loro noi figli ereditassimo la “nasca”, quello sproporzionato naso da Pulcinella. Durante la gravidanza, sulle riviste guardavi esclusivamente foto con nasi minuti e tanto hai fatto che noi tre, il naso, ce l’abbiamo piccolo. Ecco fin dove arrivava la tua forza di volontà.
In questo caso più superstizione che razionalità. Sei l’esempio di germanesimo partenopeo. Hai unito la parte tedesca e quella napoletana in un miscuglio originale. Nel tuo lavoro ha prevalso la parte tedesca, sia pur arricchita dalla creatività partenopea. Hai vissuto tutte le cose con passionalità viscerale, con i pro e i contro di un simile atteggiamento. Questa forza interiore prorompente l’hai messa al servizio della tua grande passione: la salvaguardia dell’ambiente. Più che passione, quasi un’ossessione: hai combattuto, insieme a Italia Nostra, la lotta contro gli abusi edilizi per la difesa del territorio dall’aggressione del cemento. Mettevi lo stesso impegno e la stessa determinazione sia nelle grandi battaglie sia nelle piccole, come quella per la conservazione del sentiero che portava alla Casa Rossa, che volevi rimanesse sterrato. Sì, perché quegli abusi, quegli scempi commessi sul territorio li hai sempre vissuti e sentiti come ferite inferte a un corpo vivo. Era come se quelle ingiurie, quelle violenze, fossero inflitte a te.
In cima alla montagna, sopra la Casa Rossa, a un certo punto costruirono un albergo. Una bella spianata rettangolare nella verde chioma del promontorio, che se la guardi da lontano sembra sia scappato il rasoio elettrico al barbiere. Da lassù, l’illuminato proprietario voleva costruire una seggiovia che portasse i clienti direttamente al mare. Una seggiovia! L’ignoranza ha sempre una grande fantasia. Quante denunce hai fatto, e quante minacce hai ricevuto! Comunque, alla fine hai vinto tu. L’hotel c’è ancora, seppure abbandonato e fatiscente. Non è diventato il centro studi sulla Magna Grecia come avresti voluto, d’accordo con il filosofo Gerardo Marotta, ma almeno Licosa non è stata trasformata nella Cortina del Tirreno.
Quando hai lasciato il mestiere di insegnante, ti sei dedicata completamente alla natura, che era il tuo primo amore. Sei entrata nel ministero dell’Ambiente e hai lottato affinché nascesse il Parco Naturale del Cilento. Per nulla scontato. Al Sud, o in genere dove c’è molta disoccupazione, lo sviluppo e la cementificazione sono bene accolti perché implicano costruire e dare lavoro alle famiglie locali, mentre difendere l’ambiente significa conservare. Ma oggi, a guardare questa meraviglia di panorama, non posso che riconoscertene il merito.
Il primo vero cambiamento a Licosa fu l’apertura della strada fin su a casa. Niente più carovane a piedi e in salita. Poi ci fu l’arrivo della luce: persi la causa mille a uno. Infine il cellaio, elemento centrale della Casa Rossa, venne trasferito dall’ingresso al retro. Fu la fine di un’epoca. Quando si esaurì la vita contadina, le case dei dintorni furono cedute a estranei o abbandonate.
La Casa Rossa fu venduta negli anni Settanta e noi ne comprammo una Bianca lì vicino, un casolare dell’Ottocento pieno di arnesi da ciabattino, doppiette, fucili, forme per costruire qualsiasi cosa. Insomma un museo di strumenti agricoli antidiluviani che tu hai voluto mantenere intatto. Ancora oggi, accanto al televisore e al WI-FI, quei ferri arrugginiti campeggiano sul muro e stanno in mezzo ai piedi. Guai a chi li tocca. Nella Casa Rossa da allora non sono più entrato. Conosco i proprietari ma me ne tengo alla larga. La voglio ricordare così com’era, non ho la minima curiosità di sbirciare, anche se, obbligato a passarci davanti, l’occhio mi ci cade senza accorgermene.
Tu portasti nella Casa Bianca tutti i mobili della Casa Rossa. E sono ancora tutti lì. C’è la cassapanca su cui la tua migliore amica, il giorno prima di emigrare per il Brasile, incise la frase: “Domani vado ad affrontare il mio destino”. Le ha fatto piacere ritrovarla, sai. Vent’anni dopo, quando tornò e gliela mostrasti, si mise a piangere dalla commozione. Tu qui non ci vieni da tre anni. È tutto scale, roccia e rampe, e il tuo fisico faticava troppo. Ma stai tranquilla, custodiamo ogni cosa. Le stoviglie sono tutte spaiate, la cucina è in un edificio separato dalla zona notte e resistiamo alla tentazione della comodità che implicherebbe buttare giù un muro; e la natura rimonta quando noi non ci siamo. Il tramonto dalla terrazza è mozzafiato. A quell’ora il silenzio è rotto solo dal motore di un peschereccio e il sole è un’arancia rossa che prima irradia l’orizzonte di tutti i colori possibili, dal verde al viola, poi si spegne nell’acqua e passa il turno alla luna. Da bambino ero convinto che il tramonto lo potessimo vedere solo noi, perché era dritto dritto davanti la soglia di casa.
La “casetta dei ragazzi” alle spalle della Casa Rossa ora non è più diroccata. Fu per noi ragazzi una sorta di dépendance dove ritirarci con gli amici, a diverse età. Lì portai a dormire la mia prima squadriglia di “scoiattoli”. A te piacevano gli Scout. Conclusione: tutti e tre abbiamo fatto gli Scout, due lupetti e una coccinella. Ero orgoglioso di far vedere Licosa ai miei “boiscut”, come li chiamava papà. Partimmo in treno, armati di calzoni corti e sacchi a pelo, e arrivammo ad “Agropoli, stazione di Agropoli”. Da lì prendemmo il pullman fino alla torretta che lambiva il paese di San Marco, quasi non si volesse arrischiare a entrarci dentro. Raggiunto il porto, prendemmo il lungo e stretto sentiero fino a casa. Era una delle prime volte che mi spostavo da solo e non andò affatto male. Fui molto soddisfatto di me. Addirittura riuscimmo a fare la gita a Paestum, sul pullman Maiuri e Trotta, e ci fermammo a mangiare in trattoria. Però, non essendo abituati, spendemmo più di quanto avevamo preventivato: leggevamo sul menu i prezzi e facevamo il totale senza contare il servizio e i coperti.
La casetta diroccata era un unico ambiente senza servizi. I bagni erano all’esterno e nelle notti in cui ci suggestionavamo con i racconti dell’orrore preferivamo farcela addosso piuttosto che affrontare da soli la strada, oppure vedevi gli “scoiattoli” andare in bagno in processione.
Poi, negli anni Settanta, quella casetta diroccata che aveva visto le gesta eroiche dei miei lupetti vide le “esercitazioni rivoluzionarie” degli amici anarchici di mio fratello Luigi. Simulavano attacchi fascisti, che all’epoca erano all’ordine del giorno. Qualcuno gridava, guardando verso il mare: «Arrivano i Fasci!!»; allora tutti si sparpagliavano alla ricerca di un’arma: sassi, rami, mattoni… A un ordine urlato dal capo brigata, cominciavano a lanciare i loro proiettili verso la uala deserta. Teatro puro. Gli anni di piombo hanno visto molte tragedie. Io, nel mio piccolo, anche molte farse.
Nell’89 partecipai a un film sul terrorismo, Roma, Paris, Barcelona. Era la prima volta che facevo il protagonista al cinema, e tu ne eri molto orgogliosa, quasi più di me. I registi, Spinelli e Grassini, dovevano girare una scena in cui la polizia caricava un corteo di manifestanti. A questo scopo, e soprattutto perché non c’erano molti soldi, direi pochi, quasi niente, chiamarono tutti i loro amici a fare le comparse. Il primo problema fu che, per antiche ragioni ideologiche, non c’era nessuno che volesse fare la parte del poliziotto. Dopo un’estenuante trattativa alcuni, a malincuore, accettarono. Mentre si stava preparando la scena, un commissario in pensione che passava da quelle parti, come si dice a cecio, si offrì gentilmente di dare una mano coordinando le “forze dell’ordine”. Ovviamente fu cooptato per il ruolo del commissario. Tale fu la partecipazione emotiva alla scena degli scontri che alla fine si contarono anche alcuni feriti da parte sia dei manifestanti sia dei poliziotti. Per una volta la versione della questura coincise con quella dei contestatori.
Quando eravamo piccoli tu eri socialista, anzi, una catto-socialista, una variante improbabile, un ossimoro vivente, la coabitazione forzosa di due opposti. Poi, negli anni Settanta, sei diventata catto-comunista, esemplare molto più diffuso, e finalmente non ti sei sentita sola. La posizione politica di papà non si è mai capita bene: quando tu eri cattolica diceva di esserlo pure lui, però quando andavamo a messa rimaneva fuori dichiarandosi “claustrofobico”. Sospettiamo fosse già comunista prima di te, senza averlo mai dichiarato apertamente.
Io all’epoca ero segretario della FGCI di Roma Nord, con ottocento iscritti. Un bel radicamento sul territorio. Luigi invece era extraparlamentare, fuori linea, e questo fu fonte di interminabili discussioni in famiglia. Per capirci: nel ’77 io stavo con il segretario della CGIL Lama dentro l’università e Luigi era lì fuori che mi tirava i sassi. A pranzo ci mitragliammo con l’intero servizio di piatti buoni.
A scuola, al Dante Alighieri, di scontri con i fascisti ce ne furono molti. Il mio liceo era teatro di guerra e si trovava dalla stessa parte della barricata del più celebrato Mamiani, ma anche in competizione. Per mandarci in brodo di giuggiole bastava che a una manifestazione studentesca noi del Dante fossimo numerica...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ti ricordi la casa rossa?
  3. “Dobbiamo andare via”
  4. Agropoli, stazione di Agropoli
  5. “Tavolo, questo è un tavolo”
  6. Un francobollo su una lettera d’addio
  7. Ringraziamenti
  8. Copyright