Impresa impossibile
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Impresa impossibile

Storie di italiani che hanno combattuto e vinto la crisi

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  1. 132 pagine
  2. Italian
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Storie di italiani che hanno combattuto e vinto la crisi

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«Sono tante le facce di italiani perbene che mi tornano in mente. Facce stravolte, voci strozzate, gesti duri. I tartassati dalla crisi, quelli presi a calci dalle istituzioni e dalle banche.
I piccoli e medi imprenditori onesti sono i nuovi eroi italiani. Mai avrei pensato di arrivare a scriverlo. E dedicare loro il mio primo libro. Raccontando otto imprese eccezionali nel cuore della recessione. Al di là della retorica del padroncino spolpato da Equitalia, nel crac italiano di questi mesi c'è anche molta improvvisazione, tanta cialtroneria. L'incapacità di reggere la competizione. La crisi sta facendo selezione, liberandoci di chi è inadeguato a stare sul mercato, dei mille furbetti che sono rimasti immeritatamente a galla nella grande palude. La crisi inghiotte le nostre imprese a ritmi impressionanti, e nel caos muoiono i sani e i malati. Ma se vogliamo raccontare cosa c'è domani, non possiamo fermarci ai defunti. Non lo scrivo per buonismo o spirito di patria: per come siamo messi oggi, il pessimismo è un sentimento onesto. E non è con l'ottimismo elettorale che ci caveremo fuori dai guai. Però limitarsi a raccontare chi è caduto e chi cadrà non basta più. Io ho due figlie e sto tentando di capire se l'Italia è ancora un Paese per loro. Perciò ho preso la macchina e percorso il nostro Paese da Nord a Sud. Imbattendomi nell'Italia che ci crede, nonostante il vento cattivo che soffia contro.
Le persone che conoscerete in queste pagine sono generose, creative, orgogliose ed egocentriche. Ho cercato prodotti speciali, visioni curiose, intenti maniacali. Ho trovato imprenditori geniali. Incazzati, disillusi e un po' folli, però mai stanchi di provarci. C'è un filo che lega tutte le storie: il talento incredibile delle donne e degli uomini che hanno portato al successo le loro imprese. Per opporsi al declino, hanno sviluppato la fantasia e il senso di comunità. Riuscendo a moltiplicare i fatturati in situazioni disperate. E dimostrando che in Italia la crisi si può ancora vincere. Che il made in Italy è la memoria di ciò che eravamo e rischiamo di non essere più. Che solo coinvolgendo i giovani nelle aziende si possono tenere accesi sogni e desideri. Perché non può esserci impresa impossibile senza umanità.»
Corrado Formigli

Domande frequenti

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Informazioni

Il dio della fusoliera

All’improvviso sento lo stomaco rovesciarsi in petto. Un conato di vomito, un capogiro. Il Blackshape Prime grigio titanio sta cabrando senza preavviso, punta il muso in su, sale a candela. Poi, in un istante, sono a testa in giù. Dal cupolino di vetro trasparente la Puglia va al rovescio. Fortuna che sono a digiuno. È un attimo, poi l’aereo conclude il suo tonneau e si rimette in linea con l’orizzonte.
Ad acrobazia finita, mi lascio andare a una risata nervosa, di circostanza. I baffoni bianchi di Elio vibrano in un ghigno malefico che mi arriva via interfono. Il tonneau, mi ha fatto: un ricciolo sull’abisso. Chissà se si può fare anche il giro della morte. Evito di chiederglielo.
Siamo decollati cinque minuti fa da un campo di carciofi e già sorvoliamo Cellino San Marco, il paese di Al Bano. Il pilota si mette a giocare fra le nuvole, batuffoli di bel tempo dai quali il Prime entra ed esce guizzando come il pesce in un acquario. Il cielo è così terso che puoi vedere l’Adriatico, lo Ionio e giù giù fino alla punta di Leuca.
Il Blackshape è un biposto, il passeggero siede dietro al pilota e già questo fa molto battaglia delle Midway: manca certamente l’esplosivo ed Elio non ha proprio l’aria del kamikaze giapponese, piuttosto quella di un sornione cinquantenne calabrese con milioni di ore di volo sui baffi e una vita da gipsy dell’aria. Ma l’effetto è quello di un piccolo caccia snello e cattivo, una maligna supposta dell’aria.
L’aereo decolla, vira, atterra nel tempo di un pensiero. Ha un quattro cilindri da 100 cavalli che gli bastano a fiondarlo a 280 all’ora in pochi secondi grazie a una sagoma sottile e una struttura superleggera in fibra di carbonio. Un minuto prima del tonneau, abbiamo sorpassato un vecchio Cessna bianco da addestramento che al nostro confronto sembrava un paracarro con le ali.
Quando torniamo giù, Angelo Petrosillo mi aspetta a braccia incrociate sul prato. È un giovane uomo di 31 anni di Monopoli con un vestito un po’ gagà, camicia a righe, bretelle e un paio di occhiali Armani. Un signorotto del Sud, ci puoi scommettere. Con la parlata veloce e un’incredibile proprietà di linguaggio.
Per raccontarvelo tutto, Angelo, devo tornare un po’ indietro, riavvolgere il volo e ritrovarmi a qualche sera prima, nello studio di «Piazzapulita». Alle 23.30 entra in scena un inquietante marmista tatuato di Carugo, provincia di Como. Di fronte a lui, l’imprenditore Petrosillo. Vestito elegante, solita raffinata cadenza da signorotto delle Murge. Li ho invitati a parlare della crisi e delle soluzioni possibili, ma mentre loro si confrontano seduti su due sgabelli appositamente scomodi, io non riesco a concentrarmi sui concetti. Quanti universi separano questi due? Per quanto vasta sia l’umanità, siamo sicuri che il pianeta sia lo stesso? Il tatuato reclama, Petrosillo ricama. Il tatuato agita avambracci muscolosi e tricipiti coperti da ideogrammi, Petrosillo arrotola concetti e discetta di qualità, valore aggiunto, tecnologia. Di fronte uno all’altro, le due Italie che combattono per restare a galla: quella primordiale, paraleghista, callosa e sbrigativa che puoi incontrare in certe valli del Nord e quella forbita, elegante e poliglotta che a volte emerge dal profondo Sud. Uno minaccia scioperi fiscali, l’altro disquisisce di Gramsci, Schumpeter e fibre sintetiche.
Ho scelto di raccontare il secondo, il signorotto delle Puglie.
L’ho inseguito, interrogato, spiato per capire come sia possibile, nell’Italia spaventata di oggi, trovare il coraggio e l’arroganza di costruire aeroplani nella terra dei trulli.
Ci siamo rivisti pochi giorni dopo, una mattina di pioggia romana. Angelo passa a prendermi sotto casa: abbiamo appuntamento alle 7.40 per andare assieme all’aeroporto e volare a Brindisi. Ma lui, ancora più nevrotico di me, alle 7.30 è già arrivato, mi messaggia di scendere. Primo indizio: è ansioso e dorme poco.
In macchina, nel tragitto per Fiumicino, è un torrente in piena: «Sono sveglio dalle 4. Questa cosa di Blackshape mi sovrasta. Ogni mio comportamento, ogni mia azione, ogni risultato: so che tutto può determinare conseguenze drammatiche per le famiglie di chi lavora con me. È roba che ti devasta sul piano della responsabilità. C’è chi la sente tutta, sulla pelle, e chi se ne fotte. Come quegli imprenditori che si svegliano al mattino cercando un sistema per licenziare gli operai».
È venuto a Roma per trattare, di brutto. «Ho incontrato il capo di stato maggiore dell’aeronautica. Io e lui in una biblioteca immensa ai due estremi di un tavolo smisurato. E sai cosa? Per darci uno spazio sulla Cavour che inizia un tour mondiale del made in Italy, ci hanno chiesto diecimila euro al giorno! Ti rendi conto? Diecimila! Moltiplica per i cinquanta giorni del programma e fa mezzo milione di euro! Mezzo milione per esporre un nostro aereo sulla portaerei. Mezzo milione per un’azienda che ne fattura tre!»
L’idea – promuovere il meglio della tecnologia italiana nei principali porti della penisola arabica e dell’Africa – è interessante. Ma quello che fa imbestialire Angelo è il metodo: «Ti pare possibile che io e Finmeccanica, che fattura miliardi, dobbiamo pagare la stessa cifra?».
Paradossi italiani, ma Petrosillo è un brutto cliente per chiunque: quando sale nella capitale, infila appuntamenti a raffica, aggirandosi con furbizia e stupore fra le nebbie dei palazzi romani. Però farsi spazio nel labirinto delle burocrazie è peggio di un wargame: «Se questo Paese cambiasse davvero. Se ci fossero regole trasparenti. Se uscissimo per sempre dalla maledizione numero uno che ci portiamo dietro: la logica dello zero a zero. Quella che piuttosto che andare a fare goal, chiedo all’arbitro di annullare il tuo».
Il Blackberry di Angelo trilla di messaggini: «È Vito, mi ha scritto che questa faccenda della Cavour non lo ha fatto dormire. Mi chiede com’è andata».
Vito. Vito, per Angelo, è tutto: «Quando io e Luciano, quattro anni fa, abbiamo ottenuto 25 mila euro di fondi europei per il nostro progetto, mi sono messo a cercare disperatamente qualcuno che credesse in noi e ci desse una mano. Non avevamo una lira».
La scena è di quelle da film, potrebbe essere la versione pugliese de La ricerca della felicità: c’è Petrosillo, al tempo un ragazzo di 26 anni, che incontra Vito Pertosa su un marciapiede di Monopoli e lo blocca mostrandogli il progetto del Blackshape. Gli chiede cosa ne pensi e lui risponde con due parole: «Mi interessa». Ancora oggi Angelo si stupisce dell’intuito e del coraggio di Vito. E allora è il momento di raccontarvi chi è, Vito Pertosa.
Cinquantatré anni, una pertica d’uomo, andatura ciondolante. Pertosa è il fondatore di Mermec, leader mondiale dei treni diagnostici. In pratica, costruisce locomotive e apparecchiature che monitorano, con sofisticati processori e apparecchi laser, lo stato di salute delle linee ferroviarie. Per evitare che un treno ad alta velocità deragli a causa di un restringimento o di una deformazione dei binari, serve vigilare continuamente: Mermec ha clienti in tutto il mondo, dalle Ferrovie italiane alla metro di Parigi ai treni coreani, dai binari di Taiwan a quelli tedeschi.
Poi, non pago di questa leadership, Pertosa si è buttato sull’aerospaziale con la Sitael, che ha prodotto, per dire, la stazione meteo montata su Curiosity, il robot che notte e giorno esplora Marte. Forse non lo sapevate, ma le previsioni del tempo sul pianeta rosso arrivano direttamente a Modugno, sede della società.
La sua holding fattura 250 milioni e Vito è un uomo ricco. Ma non lo dà a vedere. Anche se l’azienda è meta di pellegrinaggio di ministri e manager di tutto il pianeta, la sua casa è un modesto appartamento al piano di sopra della Mermec: infissi in alluminio, sedie di plastica e balconcino disadorno. Una casa piccolo borghese, non certo la villa lussuosa che ti aspetti da un milionario. La macchina, poi: per decidersi a cambiare la sua vecchia Nissan Primera da impiegato con una Mercedes C bianca (niente optional costosi in segno di sobrietà) ha atteso che andasse in porto un’operazione da milioni di euro. Questo per farvi capire il tipo. Uno convinto che il manager sciala, l’imprenditore no.
Entro in Mermec e mi squadra con sospetto, come fossi un infiltrato di qualche multinazionale nemica. Poi, appena gli chiedo se ha figli, si scioglie in un sorriso largo e scende dalla torre: «Ne ho tre: la prima 33, l’ultimo 13. Tutti con la stessa moglie». Un amore, una vita assieme, partiti dal niente: quando lei studiava a Pisa, lui andava a trovarla in autostop, chiedeva un passaggio ai camionisti. E oggi che di strada ne ha fatta a sfinirsi, mi racconta in modo semplice cose complicate. Come le sue locomotive diagnostiche e il segreto del successo: «Essere due anni avanti rispetto alla concorrenza. Sempre». Ma c’è dell’altro, anche se lui non te lo dice. C’è il lavoro giorno e notte. Vito Pertosa non dorme. Il suo viso, dolce e stanco, porta i segni dell’insonnia. Il suo corpo si muove con misurata lentezza, come un motore che, non fermandosi mai, deve tenere un regime basso, conservativo. Poi, all’improvviso, scatta sul bersaglio. E, quando decide, è fulmineo, spietato.
Sensitivo, rabdomante degli affari. Come quel giorno sul marciapiede di Monopoli in cui ha incontrato Angelo e il sogno del Blackshape. Così Pertosa è diventato finanziatore e principale azionista dei piccoli, preziosi aerei inventati da Angelo e Luciano. Ha preso la quota di maggioranza e le briglie, ha seguito e consigliato i ragazzi come fossero suoi figli. «Quando devo partire per Roma,» Petrosillo è il frontman di Blackshape, l’uomo delle vendite e delle pubbliche relazioni, delle missioni impossibili «facciamo le riunioni alle cinque di mattina nel portone di Mermec. A volte Vito scende in pigiama, mi dà i consigli e torna su, a soffrire d’insonnia.»
Ferreo e paterno, Pertosa è al tempo stesso un imprenditore moderno e un uomo dell’Ottocento. Maniaco della puntualità, soffre i rischi inutili e le ostentazioni: per questo ha convinto Angelo a vendere il vespone nero delle gite al mare. Per questo sbuffa ogni volta che Petrosillo parte alla volta della capitale con quell’orrenda pochette da taschino.
Alla segretaria dà rigorosamente del lei da venticinque anni. Ma col giovane socio – privilegio raro, cinque persone al mondo – parla in dialetto dandosi del tu. «Io e Vito mangiamo le stesse verdure» è la mirabile sintesi petrosilliana.
La domanda delle domande: perché un milionario di successo, un mostro di concretezza come il padrone di Mermec si è buttato nell’affare degli aerei in piena recessione? Cosa lo ha spinto a dar retta a due pugliesi simpatici e spiantati come Angelo e Luciano?
In effetti, restare colpiti da Petrosillo è facile: tanto è sveglio e spregiudicato che sarebbe capace di farti aprire un solarium in Groenlandia. E Luciano Belviso, con i suoi occhi chiari e gli studi a Losanna, è un ingegnere che ispira serietà e competenza impensabili in un ragazzo di trent’anni.
Le persone vengono prima dei loro progetti. Questo deve aver pensato Pertosa sul marciapiede di Monopoli.
Figlio di un geometra e di una casalinga emigrati a Milano, dove è nato, Petrosillo frequenta il liceo classico di Monopoli, dove nel frattempo la sua famiglia è tornata. Soldi ce ne sono pochi, ma lui è una spugna, assorbe conoscenza alla velocità di un computer. Si porta dietro i Quaderni dal carcere: «Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza, agitatevi perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo, organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». La via gramsciana al cielo.
A diciotto anni vince una borsa di studio per il Sant’Anna di Pisa, dove si laurea in diritto ebraico. Poi l’École Normale di Parigi dove studia Duverger e la Quinta Repubblica, un anno a Lisbona e uno a Buenos Aires. Parla quattro lingue. «Hai letto il Milione? Marco Polo ti spiega che il bravo commerciante deve saper leggere e fare di conto, avere la capacità di stare con la testa in una serie di relazioni complesse. Quando incontro ministri di altri Stati, e ne ho incontrati parecchi per i miei aerei, mi rendo conto che questa cultura di base, questa impalcatura intellettuale è molto utile per fare affari: hai sempre un argomento da affrontare, delle cose da dire, e loro restano impressionati.»
Si chiama approccio enciclopedico al commercio, e consiste nel mostrarsi informato sull’ultimo colpo di Stato avvenuto a Conakry se stai provando a vendere un aereo in Guinea e conoscere i dettagli dell’ultima crisi di governo a Sofia quando tratti con un miliardario bulgaro. Non ho fatto esempi a caso: l’Est europeo è dove si vendono più Blackshape e l’Africa lo sbocco sognato: «Già oggi» mi racconta Petrosillo «in base a un accordo fra Pechino e Johannesburg, il governo cinese manda i suoi piloti in Sudafrica a fare i corsi base sui nostri aerei. Avessi due anni solo per concentrarmi sulle strategie commerciali, punterei tutto sull’Africa».
Invece due anni non ce li ha. Frulla come un pazzo e concentra su di sé mezza dozzina di cariche societarie, mentre Luciano, il socio ingegnere, bada alle sottili e filanti scocche in carbonio allineate nel capannone alle porte di Monopoli. La loro vita è qui. Niente famiglia, niente figli: Blackshape è una religione monoteistica devota al dio della fusoliera.
Dentro l’azienda – settanta dipendenti – c’è ordine e silenzio. Operai specializzati preparano esili strati di carbonio che costituiscono la struttura dei velivoli, mentre altri ancorano i motori ai musi neri, bianchi, azzurri e rossi dei modelli pronti per essere consegnati. In Italia, per ora neanche un cliente: «Vendiamo soprattutto a cechi, russi, bulgari, tedeschi. Oppure oltreoceano, dal Sudafrica all’Australia, dove le esigenze di mobilità e la presenza capillare di aeroporti rendono il nostro piccolo aereo competitivo con l’automobile» mi spiega Luciano. Un Blackshape costa circa 200 mila euro, più o meno come una Ferrari. E alla Ferrari s’ispira: «Oppure alla Ducati,» prosegue «un’eccellenza italiana che mette insieme forma e prestazioni. Chi si accomoda dentro l’abitacolo deve avere la sensazione di entrare in qualcosa di esclusivo, un piccolo caccia a elica».
Mentre visito l’azienda – giovane, snella, organizzata – il telefono di Angelo trilla continuamente. I contatti con Roma sono frenetici: c’è in ballo la fornitura dei suoi aerei all’Aeronautica militare. I piloti italiani per decenni hanno fatto il corso base da 0 a 150 ore sull’Aermacchi SF-260, che però Finmeccanica non produce più. «Visto che sono in spending review, abbiamo proposto alla Difesa di prendere i nostri aerei in affitto, in modo da non farli pesare sui bilanci come accadrebbe con aeroplani acquistati: costerebbero, all’ora, la metà di un Aermacchi. Zero immobilizzazioni, zero investimenti e nessuno che ti rompe le palle perché stai sforando le spese militari. Stiamo aspettando una risposta.»
Ricapitoliamo: una giovane impresa italiana del Sud propone all’Aeronautica di affittare i suoi aerei nuovi per fare l’addestramento base dei piloti militari. Il noleggio costerebbe la metà di quanto costa un vecchio Aermacchi ormai fuori produzione. Niente male in tempi di tagli e polemiche rabbiose sull’acquisto dei fatidici, costosissimi caccia F35. «Il nostro è un aeroplano civile, ma può fare benissimo l’addestramento. Questo vuol dire che stai risparmiando, che stai prendendo un prodotto che è già sul mercato e lo porti all’interno di un sistema che è sempre stato lontano dalle logiche di mercato. Cioè scardini il meccanismo della trattativa diretta e apri alla concorrenza. Sarebbe una rivoluzione.»
Ma le rivoluzioni in Italia sono proibite, sicché fra Petrosillo e i papaveri dell’Aeronautica è un ping pong di chiamate, illusioni e docce fredde. E pare di vederlo l’interlocutore dall’altra parte del filo: un militare supergallonato, impettito e un po’ imbarazzato che vorrebbe ma non può, o magari potrebbe ma non vuole. Passare dal gigante di Stato Finmeccanica a questa piccola e aggressiva azienda privata: la strada è impervia. Di mezzo c’è un sistema di forniture, clientele, lobby, diffidenze, gerarchie. Di mezzo ci sono generali maggiori e colonnelli, segrete stanze del potere e semplici lungaggini burocratiche. Insomma, fra lo Stato e il mercato c’è di mezzo l’Italia.
Quanto ai privati, le chance di aprire un business nazionale sono al momento scarse: «Ci chiamano e ci chiedono: “Ma quanto costa questo Blackshape?”» mi recita divertito Angelo calcando l’accento pugliese mentre l’Audi aziendale divora la strada verso il centro di Monopoli. «Duecentomila, rispondo io. “Duecentomila???” mi fanno scandalizzati. “Così caro? Ma non si può avere uno sconto o evitare l’Iva?” No, non si può avere lo sconto e bisogna pagare l’Iva.»
L’obiezione dei potenziali clienti italiani è sempre quella: e se poi la Finanza si insospettisce? Se non hai nulla da nascondere, ben venga la Finanza, gli risponde seccato Petrosillo, uno che se il tabaccaio non gli fa lo scontrino, capace che lo denuncia.
«Certo, se poi dichiari 5000 euro l’anno e ti compri un aereo...»
Dopodiché il problema delle tasse nel nostro Paese c’è, ed è enorme. Ma la lamentatio continua degli imprenditori dovrebbe accompagnarsi alle soluzioni. «Tagliare la spesa pubblica. In Italia il 57 per cento della ricchezza è in immobili, il 13 per cento in attività produttiva. Bisogna spostare la fiscalità che oggi grava su quel 13 per cento e ridistribuirla. Le tasse sono alte, ma se devi pagare gli ospedali e rimborsare l’enorme debito pubblico, come si fa? Urlare semplicemente contro le tasse è pura demagogia.»
Un tecnico che lavora con Enrico Letta gli ha raccontato che esiste un meccanismo in base al quale se ti distrai un attimo i soldi pubblici finiscono automaticamente nel buco nero della Cassa integrazione in deroga: la Cig è come un quasar, un immenso buco nero che succhia risorse. E se pure Angelo è un uomo di sinistra dotato di una coscienza, sulla cassa integrazione ha idee nette ed eretiche: «Abbiamo messo 3-4 miliardi in una voragine anziché nella crescita. Io ogni 50 dipendenti che assumo pago lo 0,75 per cento in più di Irpef come fondo di solidarietà per la Cig. Cioè pago per quegli imprenditori che, di fronte alla crisi che stava arrivando, non hanno fatto nulla per innovare e restare competitivi, scaricando sullo Stato e sui lavoratori la loro incapacità. Ho una sensibilità sociale, non vengo certo dalla scuola di Friedrich von Hayek [premio Nobel, esponente del liberalismo e acerrimo avversario di Keynes], ma santa pace!».
Affronto il tema dell’euro: e se provassimo a uscire? In fondo tanti imprenditori se lo augurano!
«Sarebbe un disastro. Esci dall’euro, vai in banca e gli interessi sono al 20 per cento come negli anni Ottanta. Oggi con l’euro l’inflazione è più bassa che mai. Ma se schi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Impresa impossibile
  3. Introduzione - L’Italia che ci crede
  4. Un sogno da appendere in salotto
  5. La patria delle liste di nozze
  6. L’oro rosso
  7. Il dio della fusoliera
  8. Il segreto della melanzana
  9. Made in Tuscia
  10. Gli affamati
  11. L’Adriano Olivetti della Vallesina
  12. Postfazione - Chi si ferma è perduto
  13. Ringraziamenti
  14. Copyright