Primi di maggio del 1885. L’ampio salone di una grande casa di Valladolid, nella Spagna nord-occidentale. Tre uomini, due in piedi, Gaspar e Pedro, l’altro, José, seduto in poltrona. Una discussione animata.
«Stavolta dovete accettare! Dio mio, sono passati più di trent’anni!» esclamò Gaspar con veemenza.
Il suo interlocutore se ne stava immobile nella poltrona, gli occhi fissi nel vuoto, immerso nei ricordi del passato, eppure alla fine rispose con una voce che sembrava venire da molto lontano: «Trentasette anni. Sono passati trentasette anni».
«Un argomento in più a mio favore» insisté Gaspar ma, notando il volto impassibile di José, comprese che non lo stava persuadendo e si rivolse all’altro collega scrittore accorso per tentare di far ragionare il loro comune amico. «Pedro, dite qualcosa anche voi. È più testardo di un mulo.»
Pedro Antonio de Alarcón, autore di grandi opere come Il cappello a tre punte, si era recato lì insieme all’amico Gaspar Núñez de Arce, anche lui scrittore, per convincere José – don José, per loro, per tutti – ad accettare un riconoscimento che volevano assegnargli, ma sembrava che avessero toccato un nervo scoperto; o, più che altro, lo avevano toccato nel profondo, andando a risvegliare un rancore sopito, il ricordo di essersi sentito, un tempo, disprezzato.
«Gaspar ha ragione, don José: quello che ancora oggi ricordate è successo molto tempo fa. Trentasette anni sono una vita intera.»
«Esatto» insisté don José. «Ci hanno messo una vita intera per rettificare.»
«E ci avrebbero messo ancora di più, se si fossero immaginati questa vostra reazione; credo che si aspettassero un certo risentimento, comunque, e temo sia questo il motivo per cui hanno atteso così a lungo prima di tentare di rimediare all’errore» intervenne Gaspar Núñez de Arce.
Sia lui che Pedro Alarcón avevano accettato di patrocinare l’evento: un ricevimento ufficiale nel corso del quale il loro amico don José sarebbe entrato finalmente nella Real Academia Española1.
«Trentasette anni fa mi hanno preferito José Joaquín de Mora» insisté il loro interlocutore, che non cedeva di un millimetro. «Be’, forse adesso quello che non vuole entrare nell’Academia sono io.»
Gaspar Núñez e Pedro Alarcón si guardarono e sospirarono all’unisono. Risaliva tutto all’anno 1847, quando alla morte di Jaime Balmes erano state presentate due candidature per sostituire il posto lasciato vacante alla Real Academia dal defunto. I candidati erano Joaquín de Mora e don José, ma alla fine la scelta era caduta sul primo, molto più anziano. L’anno seguente, alla morte di Alberto Lista, si propose che fosse don José a rimpiazzarlo, e la decisione diventò ufficiale il 17 dicembre 1848. Ma il diretto interessato, che aveva vissuto come un oltraggio nei suoi confronti la mancata elezione dell’anno precedente, non si fece vedere alla Real Academia per accettare il suo ingresso ufficiale nella veneranda istituzione, né preparò alcun discorso. Il suo silenzio era muto proprio come la lettera dello scranno che gli sarebbe toccato occupare, la H. E a quel punto fu orgoglio contro orgoglio. A loro volta gli accademici si sentirono offesi dallo sgarbo fatto da don José nel non presentarsi per l’accettazione. Fu così che, durante la riunione del 15 novembre 1849, la Real Academia introdusse nel suo statuto una norma con cui si stabiliva che, se un accademico prescelto non avesse accettato formalmente di entrare nell’istituzione stessa, il suo posto sarebbe rimasto vacante. E siccome don José non aveva mosso nemmeno un dito, restò escluso dalla Real Academia. Per decenni.
«Joaquín de Mora era assai più anziano» argomentò Gaspar nel tentativo di blandire il rancore dell’ammirato collega. «Insomma, voi al tempo avevate solo… quanti anni? Trenta?»
«Sì, trenta» confermò lui. «Ma le mie opere erano già rappresentate in tutti i teatri di Spagna.»
Gaspar non sapeva più cosa dire. Del resto era vero: il successo delle opere del suo amico era stato precoce e incontestabile, piacesse o meno alla critica e agli accademici più vetusti. Forse le invidie avevano giocato un ruolo nella scelta di Joaquín de Mora, ma in fin dei conti la sua elezione era stata posticipata solo di un anno. Certo sarebbe stato difficile aspettare ancora con le locandine delle opere di don José esposte in tutte le città spagnole.
«Ci fu solo un anno di ritardo» intervenne Pedro Alarcón, ma sembrava che il loro interlocutore non li ascoltasse nemmeno.
Gaspar si avvicinò alla finestra. Vide passare varie carrozze scosse da un forte vento primaverile. Fin da giovane il loro amico era stato un tipo testardo. Aveva esordito scontrandosi con il padre, che avrebbe voluto vederlo diventare un uomo d’affari, perbene, che nulla avrebbe avuto a che fare con poeti e commedianti, ma don José prediligeva l’arte, la letteratura, il teatro e i versi. Si raccontava che avesse rubato un mulo e con il denaro ricavato dalla sua vendita fosse scappato di casa per iniziare la sua carriera artistica. Non era chiaro se l’aneddoto fosse reale, ma il protagonista non si era mai preso la briga di smentirlo. Poi erano arrivate le sue prime opere, e un rapido successo: la poesia, i versi declamati dagli attori nelle sue meravigliose opere teatrali toccavano il cuore di tutti, dalle loro maestà reali alla gente semplice, e non lasciavano indifferente nessuno. Erano seguiti i viaggi in tutto il mondo, un matrimonio infelice con un’irlandese e molte amanti, e poi l’amicizia con l’imperatore Massimiliano del Messico o con grandi scrittori francesi, come Alexandre Dumas o Victor Hugo, che sembravano riconoscere in lui ciò che gli accademici spagnoli non avevano voluto vedere nel 1847. Don José non pareva incline a dimenticare né tanto meno a perdonare. E, tuttavia, per Gaspar quell’ostinazione nel non accettare l’ingresso nell’Academia, propria di un impeto di ribellione giovanile, era incomprensibile in un uomo di ormai sessantotto anni; un’età in cui a tutti fa piacere ricevere premi e riconoscimenti, quale che sia la loro provenienza.
«C’è forse qualcos’altro?» chiese Gaspar Núñez, staccandosi dalla finestra e riavvicinandosi all’amico con gli occhi fissi su di lui, certo di aver colto nel segno. «Voglio dire, ci dev’essere qualcosa oltre alla rabbia per quanto successe allora. C’è qualcos’altro che vi disturba. Pedro e io vi conosciamo bene: fateci almeno la cortesia di non mentire con noi.»
Don José si strinse nelle spalle. Inclinò la testa.
«C’è anche la faccenda del discorso» rispose infine.
Pedro e Gaspar si scambiarono un’occhiata perplessa.
«Che discorso?» domandò Pedro.
«Il discorso di accettazione!» rispose don José alzando il tono della voce, indispettito perché i suoi amici non capivano.
«Ma se avete girato tutti gli angoli della Spagna declamando i versi delle vostre opere in teatri gremiti di pubblico!» disse Gaspar. «Com’è che ora vi turba parlare davanti a qualche accademico?»
«Non ci saranno forse anche il re con tutta la famiglia reale e il presidente del Consiglio dei ministri, Antonio Cánovas? Non è come parlare davanti a un pubblico qualsiasi» controbatté don José.
«Voi siete uno scrittore, per uno capace di dar vita a opere teatrali come le vostre le parole sono… sono creta… Non è possibile che…» argomentò allora Gaspar.
«Ma sono un poeta!» lo interruppe don José. «Le mie opere sono in versi!»
«E allora parlate in versi!» intervenne Pedro. «Ma accettate una buona volta e non tiriamola per le lunghe!» E per evitare altre obiezioni o nuovi rifiuti aggiunse: «Ora ce ne andiamo. La cerimonia si terrà il 31 di questo mese. Gaspar e io verremo a prendervi qualche giorno prima e viaggeremo con voi».
Gaspar stette al gioco del collega e i due uscirono in tutta fretta da lì. Prima che don José potesse dire bah, i suoi amici l’avevano già lasciato solo. Ma non potevano sapere che avrebbe seguito i loro consigli. Alla lettera.
Erano le due di pomeriggio dell’ultimo giorno di maggio del 1885. La sede della Real Academia de la Lengua, al civico 26 di calle Valverde, era troppo piccola per lo scompiglio che si era creato. La conferma della presenza di sua maestà, re Alfonso XII, e di tutta la famiglia reale fece sì che tutti volessero presenziare. Con trentasette anni di ritardo l’Academia avrebbe finalmente rimediato a un errore madornale. L’intero evento fu trasferito negli edifici di cui l’università centrale di Madrid disponeva in calle San Bernardo, assai più ampi per ospitare tutte le personalità che desideravano partecipare al grande evento dell’ammissione di don José. Quel testardo don José che, infine, a sessantotto anni suonati, sembrava aver accettato di far parte della veneranda istituzione.
Alle due in punto re Alfonso XII, agghindato con l’uniforme di capo di stato maggiore, fece il suo ingresso nella grande sala che ospitava l’avvenimento. Poiché lo scranno presidenziale spettava al re, sua maestà la regina doña María Cristina si sedette alla sua destra e la regina madre Isabel alla sua sinistra. Tutti si erano alzati in piedi, a partire dal presidente don Antonio Cánovas del Castillo. Nei pressi delle loro maestà si accomodarono anche l’infanta doña Eulalia, molti ministri del governo, disparate autorità e il rettore dell’università centrale, don Galdo. Fu il re a inaugurare la seduta e, in quell’istante, don José, accompagnato dai suoi patrocinatori, i letterati Gaspar Núñez de Arce e Pedro de Alarcón, entrò nella grande sala. Don José sfoggiava un frac acquistato per l’occasione. Se doveva accettare, l’avrebbe fatto in grande stile. Ma anche alla sua maniera. E avanzò, esibendo un sorriso enigmatico, in mezzo a tutti coloro che prima l’avevano disdegnato e ora gli mostravano la propria ammirazione o, almeno, così fingevano.
Sua maestà Alfonso XII gli concesse la parola. Don José annuì. Salì sul podio da cui si pronunciava il discorso di accettazione. Tossì. Si schiarì la gola con un sorso d’acqua. Salutò le loro maestà, gli altri membri della famiglia reale, il presidente del governo, i ministri, il signor rettore e il resto delle autorità. Fino a quel momento tutto bene. Di nuovo tossì e si schiarì la gola. Estrasse alcuni fogli dalla tasca e li posò sul ripiano. Sapeva il testo a memoria, ma era sempre tranquillizzante averlo davanti a sé nel caso di un vuoto di memoria. E cominciò.
La mia accettazione, signori, come tutto
quel che mi rappresenta o mi rivela,
come tutte le mie opere e le azioni,
per esser naturale sarà eccentrica;
Tacque un istante. Una breve pausa per guardare il pubblico. Pedro e Gaspar scuotevano la testa, ma don José li ignorò. Del resto loro avevano ignorato tutti i suoi rifiuti. Adesso toccava a lui. Non gli avevano detto di esprimersi in versi? Ebbene, dei versi avrebbero avuto. Il re...