Questa storia avrebbe dovuto cominciare in maniera completamente diversa. Doveva essere una storia differente, quella di un figlio desiderato e cercato, invece è diventata la storia di un tumore al seno e della mia lotta per sconfiggerlo.
Però tutto è iniziato proprio con quello, con il desiderio – fortissimo, sincero, viscerale – di diventare genitori. Da anni io e Alessandro ci pensavamo, ma alcuni piccoli problemi di salute avevano complicato le cose.
«Procreazione assistita» ci avevano detto i medici. «E vedrete che andrà tutto bene» avevano aggiunto, per tranquillizzarci.
Quella notizia mi aveva colta leggermente alla sprovvista, ma mi ero fidata delle loro rassicurazioni. In fondo capita a moltissime coppie, significa solo dare una mano alla natura: si feconda un ovulo in laboratorio e poi si ripone l’embrione nell’utero, per avviare la gravidanza.
Abbiamo trovato una clinica specializzata e prenotato un primo appuntamento, pronti a intraprendere un percorso che non sarebbe stato necessariamente semplice, ma che ci avrebbe portato a realizzare il nostro sogno, quello di diventare genitori. Eravamo consapevoli di quel che ci aspettava – cure ormonali, tentativi, speranze – ma restavamo ottimisti. E tutto sembrava confermare quella nostra impressione: il ginecologo con parole semplici ha cominciato a spiegarci le analisi preliminari a cui avremmo dovuto sottoporci. «È routine» ha aggiunto sorridendo.
Bene, facciamolo, ho pensato.
In pochi giorni siamo tornati nel suo studio per vedere insieme i risultati, e lì ci aspettavano buone notizie.
Tutto sembrava perfetto: nonostante la mia età, i miei ovuli erano okay. Anzi, per aver superato i quarant’anni ero straordinariamente fertile.
«A posto» ha detto il medico, richiudendo la cartellina di cartone su erano scritti il mio nome e quello del mio compagno.
Mancava solo la mammografia, ultimissimo esame, poi potevamo cominciare.
Già, la mammografia. Avevo dimenticato il controllo annuale per le solite ragioni, quelle che possono capitare a chiunque: impegni di lavoro, un viaggio, le mille cose della vita. Poi c’era stato il Covid, il lockdown. E chi aveva voglia di andare in ospedale nel periodo appena successivo? Sono sicura che sia stato il pensiero di molte donne. Così, era passato parecchio tempo dal mio ultimo referto.
Alla fine ho prenotato la mammografia. Ero proiettata verso la maternità, tanto che avevo già comprato tutto il necessario per le iniezioni di ormoni da fare in pancia. Intendevamo stimolare la produzione dei miei ovuli per poi prelevarli e provare a fecondarli, e non vedevamo l’ora di cominciare. La cura era già pronta nel mio frigorifero di casa, diversi pacchetti ordinatamente sistemati. Avevo speso più di trecento euro per quelle medicine.
Mancava solo l’ultimo esame.
24 febbraio: io e Alessandro siamo tornati in clinica. Quella mattina, prima di uscire, ho indossato un cappottino rosa, già pensando al futuro: Magari, un giorno avrò una bambina, e sarà bello ripensare all’ultima visita fatta e al mio soprabito rosa. Il mio cuore era già lì.
Avevo fatto sia l’eco sia la mammografia. Mancava solo la visita del dottor Dimitrios, che mi ha fatta sdraiare sul lettino con un’espressione perplessa: c’era qualcosa che non lo convinceva.
Ha ricontrollato con l’eco. «La protesi sinistra potrebbe essere lesionata» ha mormorato.
Però capivo che era perplesso, qualcosa lo impensieriva. Pensavo fosse la protesi, ma mi aggrappavo al suo: «Non è urgente. Affronta la cura di ormoni, che la protesi potrai sostituirla dopo».
Mi sono rivestita e, mentre il dottore prendeva appunti sulla mia cartella clinica, ha aperto la porta dell’ambulatorio un altro medico, più giovane, per salutarlo. «Arrivederci, professore» ha detto. Il suo turno era finito per quel giorno.
«Aspetta» ha detto il dottor Dimitrios sollevando gli occhi dal foglio. «Controlla ancora una volta Carolina con l’eco.»
Il medico specializzando è entrato e ha riacceso il macchinario dell’eco.
«La protesi ha un problema» ha confermato. Poi, però, ha aggiunto anche: «E qui vedo un nodulino».
Un nodulino.
Una parola che suona perfettamente innocente, vero?
Piccolissimo. Era quello a impensierire il professore, non la mia protesi.
Io mi sono agitata. Solo un po’, ma il dottore se n’è accorto. Allora, sorridendo ha detto: «Va bene, facciamo una risonanza con il contrasto, così stiamo tranquilli».
In quel pomeriggio le loro preoccupazioni erano soprattutto concentrate sulla protesi, perché quel nodulino non aveva nulla di minaccioso.
E ora mi domando se forse il giovane dottor Angeletti non si sia soffermato su quella macchiolina minuscola sullo schermo, risvegliando la mia attenzione – come posso immaginare faccia uno specializzando davanti a un maestro – per dimostrare di aver visto davvero tutto quel che c’era da notare.
Se la mia protesi non avesse avuto problemi, il dottor Angeletti non sarebbe stato chiamato a controllare per la seconda volta il mio seno sinistro e non avrebbe messo enfasi su quella minuscola macchiolina; e forse il professore non avrebbe deciso di approfondire. Io avrei iniziato la mia cura di ormoni che – per chi non lo sapesse – avrebbe potuto causare un grave peggioramento in un tumore come il mio. E magari mi sarei accorta troppo tardi della malattia. A volte penso che la protesi rovinata mi abbia salvato la vita.
L’esame successivo ha mostrato che quel “nodulino” aveva in verità un aspetto ben più minaccioso di quanto fosse sembrato con la prima eco. Non è affatto piaciuto ai medici, che hanno deciso di procedere immediatamente con un agoaspirato. Immediatamente.
«Carolina, dobbiamo vedere cos’è» mi hanno detto seri.
Ma io, appena ho sentito «agoaspirato», mi sono alzata in piedi e sono uscita dall’ambulatorio. Perché quella parola ne richiamava altre, ben più minacciose. Parole che non volevo sentire. Immaginate la scena: il dottor Dimitrios alla scrivania, serissimo, io e il mio compagno seduti di fronte a lui, e io che all’improvviso me ne vado. Ho lasciato la stanza, mi sono seduta su uno scalino che dava sul parco della clinica e ho cominciato a piangere.
Ero troppo arrabbiata per accettare quel che mi stava succedendo, troppo per stare ad ascoltare i medici, le loro spiegazioni e le rassicurazioni, troppo delusa per capire esattamente che cosa mi aspettava.
Nella testa avevo un solo pensiero: No, non è possibile. Non a me.
Il mio compagno mi ha raggiunta, si è inginocchiato davanti a me e con dolcezza mi ha rassicurata.
Si tratta di una cosa normale, va fatta.
Ho pianto ancora, finché ho capito che non sarebbe servito a nulla.
Allora ho respirato profondamente, mi sono alzata in piedi e sono tornata dentro dal medico che mi aspettava seduto alla scrivania. Evidentemente ne aveva viste abbastanza da sapere che si torna sempre lì, perché non c’è alternativa.
«Fatelo» ho detto.
Mi sono sdraiata sul lettino e ho visto il medico preparare l’enorme ago della agobiopsia. Il primo ago che ho sentito sulla pelle, però, era un altro. «Ora sentirai l’iniezione dell’anestesia» mi hanno spiegato. Da quel momento mi sono voltata, mi sono morsa la mano per ingannare il cervello e cancellare il male al seno, e ho cominciato a piangere. Non sentivo dolore, ma quella strana sensazione di qualcosa che attraversa la carne. «Stiamo entrando con l’ago» mi ha detto il dottore.
«Non me lo dica» l’ho implorato.
Ero terrorizzata, avevo paura. Non volevo sapere, desideravo solo che finisse presto.
C’era la sgradevolezza di quell’oggetto metallico nel mio corpo e l’incertezza del futuro. Quell’interessamento nei miei confronti, una biopsia decisa ed eseguita immediatamente: era tutto un pessimo segno. Non era necessario avere una laurea in medicina per capire che c’erano ragioni per preoccuparsi.
Alessandro accanto a me mi ripeteva di farmi forza, ma sulla sua faccia ho visto tutto: la mia stessa paura, la preoccupazione, la tensione. Pensavo che in quei giorni avrei dovuto iniettarmi gli ormoni per restare incinta, non sopportare aghi per tirare fuori dal mio seno cellule sospette.
Ho sentito una sensazione stranissima, come una piccola esplosione nella carne: l’ago si era infilato nel nodulino, per prelevarne un campione. Poi me l’hanno mostrato, per farmi vedere quanto fosse piccolo.
«Brava, sei stata coraggiosa» mi hanno detto dopo.
Quel giorno ho capito che esiste un tipo molto particolare di coraggio, quello di chi non ha scelta. E non vorresti mai scoprire di averlo.
Per una settimana ho atteso i risultati. Ho vissuto aggrappandomi alla speranza, con tutte le mie forze. Quello che spesso non si dice è che la speranza richiede una fatica immensa. La testa deve ignorare alcuni fatti, decidere cosa vedere e cosa non vedere, trattenersi dal fare la cosa più facile, che è crollare nella disperazione. Si vive sospesi e resta poca energia per altro.
È benigno, sicuramente, continuavo a ripetermi. Ho pensato a tutte le amiche e le conoscenti a cui era accaduto qualcosa di simile, esami con risultati sospetti che poi si sono rivelati «nulla di grave». Ho ascoltato mia suocera raccontarmi di tutti i casi simili al mio che conosceva, tutti finiti bene. E così mi sono convinta.
Sarà benigno, dai.
Carolina stai tranquilla, è un nodulino, tutte le analisi sono perfette, è minuscolo.
Solo un nodulino.
Poi è arrivato quel giorno; il più brutto della mia vita. Fidatevi, quando incappi nel giorno più brutto della tua vita lo riconosci, senza dubbio.
24 marzo, pomeriggio: siamo tornati alla clinica, nello studio del dottor Dimitrios. Io, mia madre e Alessandro. Ero lì per sentirmi dire quello di cui mi ero convinta, quello che mi ero ripetuta per una settimana: È benigno, tutto bene.
Mamma e Alessandro si sono seduti nella sala d’aspetto, io camminavo avanti e indietro in quei pochi metri per scaricare la tensione. Nelle orecchie ho messo le cuffie, accendevo e spegnevo la musica. Finché il medico ci ha fatto chiamare.
Io sono entrata salutando e scherzando, come faccio sempre: «Ciao, prof! Ehi, dottor Angeletti! Allora, tutto a posto?».
Ma il dottor Dimitrios mi ha risposto con due parole che mi hanno congelat...