Il Paese che vogliamo
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Il Paese che vogliamo

Idee e proposte per l'Italia del futuro

  1. 128 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il Paese che vogliamo

Idee e proposte per l'Italia del futuro

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Idee che si materializzano, nuovi progetti, sogni da realizzare. Investimenti per un presente e un futuro da protagonisti. Ricette per una regione, ma soprattutto per un Paese in cerca di riscatto. E come racconta lo stesso presidente Bonaccini: «Qui c'è tutto ciò che conta, ciò che siamo e ciò che vorremo essere.
Vale per l'Emilia-Romagna, vale per l'Italia.
Allora riprendo gli appunti sparsi, quelli di ogni giorno. I pensieri, le scalette delle cose da fare e di quelle da dire nelle tante tappe che scandiscono la giornata, le questioni da verificare e gli spunti di lavoro, i suggerimenti che mi arrivano. Decido di sistemarli. Per tenere il filo di un cammino.
Sono quelli che potete leggere nelle pagine di questo libro. Non un programma per l'Italia o un manifesto elettorale. Sono le cose che annoto ogni giorno toccando con mano i problemi, provando ad allargare lo sguardo al Paese e allungando la vista oltre la contingenza.
Ho il privilegio di essere nato e di vivere in una bellissima regione, insieme all'orgoglio di amministrarla da sei anni. Ma quel che serve è per l'Italia, l'Emilia-Romagna non basta a se stessa. I problemi che affrontiamo non sono poi così dissimili nel resto della penisola. Soprattutto quelli che riguardano il nostro futuro, il cambiamento necessario, gli obiettivi per realizzare il Paese che vogliamo».

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858526712
1

Tutto ciò che siamo

“Qui c’è tutto ciò che siamo.”
Il pensiero mi è venuto poco fa, davanti alla stele in sasso che ricorda Aude Pacchioni. E adesso non mi abbandona. Aude è morta pochi mesi fa, il 12 gennaio 2021, aveva 94 anni. Era una donna coraggiosa, la partigiana “Mimma”, una vita nelle istituzioni e nell’ANPI, l’Associazione nazionale dei partigiani italiani. Consigliera comunale e assessora a Modena, nel 1969 contribuì a far nascere il primo asilo nido in città, fondamento di un sistema di welfare di cui l’Emilia-Romagna ha la primogenitura e che continua a rafforzare.
A lei è stata intitolata la piazza davanti alla Buca di Susano, la casa colonica nel Comune di Palagano, appennino modenese, dove il 18 marzo 1944 si consumò l’eccidio nazifascista che poi continuò nelle frazioni vicine di Monchio, Costrignano e Savoniero. Alla Buca vennero trucidati Delia Albicini insieme ai figli Ursilia e Orfeo, 10 e 8 anni, poi Carlo, un orfanello di 3 anni condotto lì in precedenza perché considerato un luogo sicuro, e due anziani coniugi, Filippo Gherardo e Francesca Garzoni. Alla fine, la strage contò 136 civili inermi trucidati, tante quante sono ora le “Luci nel vento”, montate nella piazza su aste di carbonio a perenne memoria di chi non c’è più. È stato l’eccidio più efferato in Emilia-Romagna dopo quello di Marzabotto, sebbene sia impossibile stilare una classifica dell’orrore.
Dopo anni di rimozione quasi pudica, di silenzio come rifugio per provare a sopravvivere, è tornata fuori la tenacia di questa comunità: i familiari delle vittime, l’ANPI, il Comune e le istituzioni locali, l’autorità giudiziaria, insieme, hanno ricercato e preteso verità. Nelle aule di giustizia prima, davanti alla storia finalmente. È nato così il progetto di riqualificazione della Buca di Susano, destinata a diventare simbolo della Resistenza e centro della memoria, grazie a fondi dello Stato italiano e della Germania.
È il 22 maggio. Poche settimane fa. Siamo saliti alla Buca in questa mattina fredda e coperta, con il verde intenso dei colli intorno e il cielo grigio, aperto dal primo raggio di sole nel momento dell’alzabandiera affidato agli alpini. Ci sono tante persone. E tanta commozione.
Le vecchie mura contadine sono bellissime, col sasso riportato in vita. Un rammendo fatto con una cura antica, che è di questi luoghi e di questa gente. Una comunità che si ritrova, pian piano tornando alla normalità, anche se i volti sono celati dietro le mascherine e le strette di mano sono sostituite da tocchi di gomito o pugni chiusi uno contro l’altro. E allora ci si aggiorna su come va, sul lavoro, i progetti futuri. Sulla pandemia: dai presidente che ne usciamo, Stefano tin bota. Tieni botta, tieni duro, resisti.
Resistiamo, tutti.
Tre giorni dopo, il 25, il consueto aggiornamento quotidiano sull’andamento del contagio inviatomi dai miei collaboratori dice che in Emilia-Romagna l’incidenza dei nuovi casi ogni 100.000 abitanti è scesa a 47, sotto 50, situazione da zona bianca, quella di rischio più basso. Da sedici mesi, ogni giorno intorno alle 14, ricevo dalla sanità regionale i numeri su nuovi casi, ricoveri, decessi. Un bollettino quotidiano che ormai scandisce la vita di ciascuno di noi. Quel 47 è un numero, ma dietro ci sono scelte, paure, discussioni, liti e intese. C’è l’impegno di tantissimi, a partire da coloro che dall’inizio della pandemia lavorano indefessamente nella sanità, nei servizi socio-assistenziali, da chi assiste e cura familiari o persone non autosufficienti. Ci sono i sacrifici e gli stop forzati di attività economiche e servizi, interi comparti chiusi da mesi, o che procedono a rilento. Ci sono le persone, tutti quanti noi. A partire dai nostri figli, privati degli spazi di libertà, della scuola e della socialità, che a quell’età sono come l’aria. Abbiamo cambiato abitudini e stravolto le nostre vite. Ci sono le donne e gli uomini di ogni età, provenienza e condizione sociale che costituiscono la nostra comunità regionale: ne incontro tanti ogni giorno, capitani d’impresa o lavoratori precari, artigiani e commercianti, professionisti e volontari; non ho smesso di farlo durante il lockdown e le chiusure, magari da remoto in videoconferenza. Nella stragrande maggioranza dei casi, insieme all’inquietudine, e talvolta alla rabbia, ho sempre avvertito un grande senso di responsabilità e di disponibilità. La nostra gente, in fondo, è fatta così.
La disponibilità: io ci sono, noi ci siamo.
«Una persona che non lavora più per la comunità smette di lavorare anche per se stessa.» Sento Francesca Sforza, giornalista de «La Stampa», pronunciare questa frase interloquendo con un ascoltatore durante Prima pagina, la rassegna stampa di Rai Radio 3, che spesso ascolto il mattino in auto recandomi alla sede della Regione, a Bologna, da Campogalliano, dove vivo.
La forza di una comunità è lavorare insieme. E la comunità è in quel “io ci sono”, “noi ci siamo”. Provo a trovare ogni giorno, insieme alle persone che me le pongono, le risposte e le soluzioni concrete alle questioni. Ho imparato che governare è questo: costruire la soluzione insieme a chi ti pone il problema.
In questo tempo di pandemia le domande si sono moltiplicate, abbiamo spesso navigato senza bussola, le risposte sono diventate più difficili. Quello che c’era prima non basterà, non andrà più bene. Non so se ne saremo capaci, ma siamo chiamati a costruire qualcosa di nuovo e diverso per il futuro.
Venerdì, il giorno prima di salire alla Buca di Susano, insieme a Marco Alverà, amministratore delegato di SNAM, una delle principali società di infrastrutture energetiche al mondo, impegnata nello sviluppo di soluzioni innovative per la transizione ecologica, ho firmato un protocollo d’intesa per lo sviluppo di interventi che puntino su idrogeno, biometano, mobilità sostenibile ed efficienza energetica, e che coinvolgano le Università e i centri di ricerca, gli enti locali e il sistema produttivo.
Chi lavora con me dice che sono maniacale: leggo tutto, riga per riga, e ricordo ogni numero, ogni obiettivo. E li verifico alla scadenza fissata, svegliato dal mio orologio biologico interno, che ogni volta me la ricorda. E se un accordo mi sembra vuoto, fatto solo di parole, lo rimando indietro: o ci mettete della sostanza o passiamo, non se ne fa nulla.
Fortunatamente, però, capita di rado.
SNAM ha deciso di aprire a Modena la prima sede in Italia dell’Hydrogen Innovation Center, il primo polo di eccellenza nazionale per le tecnologie dell’idrogeno, in collaborazione con l’Università di Modena e Reggio Emilia. E a Carpi ci sarà la prima scuola decarbonizzata nel Paese, con l’installazione all’istituto di istruzione superiore Meucci del primo impianto di teleriscaldamento a idrogeno, prodotto nel parco fotovoltaico realizzato accanto al plesso.
Su un foglietto avevo scritto: «È fondamentale avere qui progetti innovativi, capaci di aprire la strada alla transizione ecologica. La trasformazione non la fai con le chiacchiere, servono investimenti concreti, risultati tangibili, per essere credibili quando diciamo di volere un Paese della piena sostenibilità».
Terminata la cerimonia alla Buca di Susano ho salutato Fabio Braglia, il sindaco di Palagano, che del progetto di riqualificazione di questo gruppo di case contadine ha fatto un segno di rinascita della propria comunità, abbarbicata sui monti dell’Appennino. Era con noi il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, a cui ho ricordato l’impegno con Piacenza e la sindaca Patrizia Barbieri, il primo capoluogo e la prima provincia feriti dal Covid quando esplose il focolaio di Codogno. C’è un ex ospedale militare proprio a ridosso del centro, un edificio di pregio ma abbandonato da anni. Oltre al nuovo ospedale che nascerà poco distante, abbiamo deciso che lì verrà tenuto un corso di laurea in Medicina internazionale, interamente in lingua inglese, perché il nostro Paese ha un disperato bisogno di formare più medici e infermieri. Lo sapevamo già, la pandemia ce lo ha ricordato in modo drammatico, adesso bisogna agire. Farlo recuperando un intero complesso storico, rigenerando il patrimonio abbandonato e portando a Piacenza centinaia di ragazze e ragazzi ci è parso il modo migliore per far tesoro della dura lezione che il Covid ci ha impartito. Lorenzo Guerini è di Lodi, a un tiro di fionda da lì. Convincerlo non è stato difficile. L’Italia e l’Emilia-Romagna devono questo investimento alla comunità di Piacenza, ma prima ancora lo devono a loro stesse, per uscire dalla pandemia più forti e attrezzate.
È sera, il centralino di Palazzo Chigi mi passa Antonio Funiciello, capo di gabinetto del presidente del Consiglio Mario Draghi. Mi conferma la visita del presidente al Tecnopolo di Bologna martedì 1° giugno, dove stiamo costruendo un’autentica cittadella della scienza, cuore della Data Valley emiliano-romagnola, hub dei Big Data e delle nuove tecnologie, che aumenterà la capacità di supercalcolo del nostro Paese e dell’Europa portandola a competere con i due colossi, Stati Uniti e Cina. È un investimento da oltre 220 milioni di euro tra fondi statali, regionali ed europei, per una struttura nella quale avranno sede i più importanti enti scientifici italiani, centri di ricerca, distaccamenti universitari e agenzie internazionali. Primo fra tutti il Data Centre del Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine (European Center Medium Weather Forecast, ECMWF), un organismo internazionale con sede a Reading, in Gran Bretagna, che vede la partecipazione di 22 Stati membri, fra cui l’Italia, e 12 Paesi cooperanti. La Brexit ha spinto ECMWF a trovare una nuova sede per il proprio “cuore tecnologico”: la scelta – con il voto favorevole degli Stati coinvolti – è caduta sul Tecnopolo di Bologna, candidato dal Governo italiano nel 2016-2017 sulla base del progetto messo a punto dalla Regione Emilia-Romagna. I locali sono pronti, ai tecnici di Reading sono state consegnate le chiavi e sta per iniziare l’installazione di computer e processori che occuperanno vere e proprie piazze coperte. Lì si insedierà anche l’agenzia nazionale Italia Meteo. La lotta ai cambiamenti climatici avrà qui un avamposto strategico che attirerà i progetti di ricerca e la comunità scientifica internazionale.
La trasformazione è vera quando è fatta di progetti concreti e di investimenti, appunto.
La transizione ecologica e quella digitale sono fra le priorità indicate nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) del Governo, che permetterà di progettare e costruire l’Italia dei prossimi decenni. Prevede investimenti per oltre 230 miliardi di euro, 191 dei quali finanziati dall’Unione Europea attraverso il Recovery Fund nell’ambito del Next Generation EU. Un autentico Piano Marshall: è dalla fine della Seconda guerra mondiale che il nostro Paese non ha a disposizione una tale mole di risorse.
Il Tecnopolo rappresenta anche un grande progetto di riqualificazione di un pezzo di Bologna, uno spazio urbano recuperato, tolto all’abbandono e al degrado con funzioni uniche. Un altro rammendo, fatto con una cura antica per un futuro diverso.
Col presidente Draghi avevamo concordato sull’importanza strategica di un’infrastruttura come questa, proprio in ottica futura, rispetto alla direzione che l’Italia deve prendere. E aveva deciso di venire a visitarlo.
Ho chiesto alla mia squadra di mettersi al lavoro per organizzare tutto nel migliore dei modi. Insieme al Tecnopolo, decidiamo con Draghi di toccare con mano il cuore del distretto della ceramica a Sassuolo, andando direttamente dentro un’impresa per incontrare lavoratori e imprenditori, che in questi mesi stanno producendo a ritmi vertiginosi per esportare le nostre piastrelle in tutto il mondo.
Ripenso alla giornata di oggi alla Buca di Susano, alla memoria e alle nostre radici, all’impegno comune per costruire insieme un futuro diverso. Penso ai nodi da sciogliere, magari semplificando, a tutto quello che deve cambiare, alle reti di coesione e protezione da rafforzare. L’importante è non perdere mai il contatto con le persone: non mettersi mai dall’altra parte del tavolo senza permettere a chi ti pone un problema di fare altrettanto.
Perché qui c’è tutto ciò che conta, ciò che siamo e ciò che vorremo essere.
Vale per l’Emilia-Romagna, vale per l’Italia.
Allora riprendo gli appunti sparsi, quelli di ogni giorno. I pensieri, le scalette delle cose da fare e di quelle da dire nelle tante tappe che scandiscono la giornata, le questioni da verificare e gli spunti di lavoro, i suggerimenti che mi arrivano. Decido di sistemarli. Per tenere il filo di un cammino.
Sono quelli che potete leggere nelle pagine di questo libro. Non è un programma per l’Italia o un manifesto elettorale. Sono le cose che annoto ogni giorno toccando con mano i problemi, provando ad allargare lo sguardo al Paese e allungando la vista oltre la contingenza.
Ho il privilegio di essere nato e di vivere in una bellissima regione, e l’orgoglio di amministrarla da sei anni, ma quel che serve è per l’Italia, l’Emilia-Romagna non basta a se stessa. I problemi che affrontiamo non sono poi così dissimili nel resto della penisola. Soprattutto quelli che riguardano il nostro futuro, il cambiamento necessario, gli obiettivi per realizzare il Paese che vogliamo.
2

Virtuale è reale

L’appuntamento è in agenda il 12 aprile 2021. Oggi. Fra di noi c’è il lungo tavolo della saletta riunioni accanto al mio ufficio. Seppure a distanza di sicurezza, è bello incontrare qualcuno in presenza. Mi è capitato davvero di rado in questi mesi, difficili per tutti, anche per me, che seduto in ufficio proprio non riesco a starci.
Alec Ross è stato per quattro anni il consigliere per l’innovazione dell’amministrazione statunitense guidata dal presidente Barack Obama. Adesso è visiting professor alla Bologna Business School. Mi impressiona la sua schiettezza, la sua capacità di andare dritto al punto e al cuore degli argomenti. E la feroce determinazione con cui guarda sempre al domani. Preparatissimo, conosce molto bene la nostra realtà socio-economica regionale. Dice di essere colpito dalla “solidità” dell’Emilia-Romagna: stabilità della governance, università e istituzioni accademiche di livello internazionale, talenti e capacità nel mondo della ricerca e del lavoro.
«Gli anni Venti saranno un grande decennio per questa regione» afferma. «Non ne dubito, ma si poteva partire meglio» replico scherzando.
Viviamo un’epoca nella quale la nostra esistenza e la nostra quotidianità si sviluppano online, nella dimensione virtuale della rete. Un virtuale sempre più reale. Non è più una dimensione parallela: dal lavoro ai rapporti personali, dalle informazioni alle comunicazioni, dal funzionamento di tutto ciò che ci circonda a ciò che facciamo, è quasi tutto digitale, compresa la nostra identità.
Abbiamo un’identità digitale per fare un bonifico bancario o prenotare un esame sanitario, per fissare la data per la vaccinazione anti-Covid o per fare arrivare la cena direttamente a casa, per leggere la pagella dei nostri figli o spostarci in treno o in auto. Paghiamo il caffè con la moneta elettronica, acquistiamo online: una mole di dati enorme, immagazzinati in nuvole di memoria di grandezza illimitata e costantemente rielaborati per scopi utili a noi stessi. O a terzi. Dentro ci sono dati personali, informazioni riservate dei governi, segreti industriali, insieme al menù del take away all’angolo di casa o alla programmazione di una catena di multisale cinematografiche: dentro al cloud c’è tutto.
L’ottimismo di Alec Ross sul decennio appena aperto si fonda sulla capacità di gestione e analisi di questi dati. Essendo la nostra realtà, la nostra vita, l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL PAESE CHE VOGLIAMO
  4. 1. Tutto ciò che siamo
  5. 2. Virtuale è reale
  6. 3. Lettera a una professoressa
  7. 4. Tempo scaduto
  8. 5. Quel che cercano è qui
  9. 6. Mondovisione
  10. 7. Grazie di esserci!
  11. 8. In presa diretta
  12. Copyright