Le Porte di Atene
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Le Porte di Atene

  1. 464 pagine
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Le Porte di Atene

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La sanguinosa lotta tra due grandi imperi, il racconto di una guerra epica capace di cambiare i destini del mondo e dei suoi eroi divenuti immortali. 490 a.C. Mentre indossa l'armatura e si prepara a scendere in campo contro il nemico persiano, Santippo non sa che sta per prendere parte a una battaglia destinata a riecheggiare nella storia: la leggendaria battaglia di Maratona. L'impresa è disperata. Re Dario, il Re-Dio, è sbarcato sulle coste greche con il suo esercito di cinquantamila soldati. Gli uomini di bronzo dell'esercito ateniese sono a malapena diecimila, un sasso d'oro gettato nel mezzo di un'alluvione. Ma Santippo, Temistocle e gli altri lottano per qualcosa di più importante di un re e, guidati da Milziade, dimostreranno ciò che può fare un popolo disposto a tutto per proteggere ciò che ama. Tra l'odore del sangue e del finocchio selvatico che ricopre il campo di battaglia, i greci respingeranno il nemico verso il mare, mettendo in fuga il temuto esercito persiano e il suo re. La grande battaglia è vinta, ma la guerra è appena iniziata. Dieci anni dopo, sarà Serse a guidare i persiani verso la vendetta, costringendo Atene a chiedere aiuto agli uomini di Sparta, guidati da Leonida, nel disperato tentativo di bloccare il nemico alle Termopili. Dopo Il falco di Sparta, Conn Iggulden torna nell'antica Grecia per riportare alla luce un passato glorioso e i suoi protagonisti, narrando le gesta di eroi disposti a morire per difendere il proprio popolo.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858526644

PARTE PRIMA

490 a.C.

1

Santippo era immobile, respirava dal naso mentre mormorava istruzioni agli schiavi indaffarati intorno a lui. I tre uomini, al servizio della famiglia di sua moglie fin dall’infanzia, rispondevano con un lieve cenno del capo, senza interrompere il lavoro. Gli venne in mente che a Sparta ogni cittadino disponeva di sette schiavi unicamente dedicati alla vestizione del proprio padrone per la guerra. Probabilmente gli ateniesi erano più svegli e pieni di risorse. Santippo non si lasciò andare a sorrisi e tenne il pensiero per sé. Si sentiva irrequieto, impaziente. Aveva trentotto anni e sapeva che quello poteva essere il suo ultimo giorno.
Senz’altro la città era ancora preda dell’agitazione, ma il frastuono non arrivava più alle sue orecchie. La casa di sua moglie era enorme, circondata da terreni coperti di fichi e ulivi. La stanza in cui Santippo veniva armato era proprio al centro della struttura, distante dalle mura esterne, poderose quanto quelle di una fortezza. Intorno a lui sorgevano pilastri di pietra bianca e il soffitto era aperto sul cielo. Era un luogo di pace, lontano dal tumulto e dalla paura della guerra. Intorno a quel cuore tranquillo si irradiava una dozzina di stanze, disposte su due piani. La porta del muro di cinta dava sulla strada che conduceva a Eleusi, a nordovest di Atene.
Le urla l’avevano svegliato molto prima dell’alba. Santippo aveva inviato messi all’Agorà, dove sorgevano le effigi degli eroi che rappresentavano le dieci tribù di Atene. Sotto ogni statua il consiglio dell’Areopago aveva esposto papiri sottili, illuminati dalle torce degli schiavi. Tutte le tribù erano state convocate, così come ogni demo della città e delle terre circostanti. Ciò che temevano si era avverato.
Santippo si lasciò sfuggire un grugnito per la morsa degli schinieri. Plasmati sulla forma esatta di stinchi e ginocchia, non richiedevano cinghie o ganci; bastava l’elasticità del metallo a tenerli a posto. Brillavano come oro, lucidati con lo stesso olio benedetto che i servi gli avevano spalmato sulla pelle.
«Un momento» disse.
Gli uomini arretrarono e lui tese una gamba in un affondo. Gli schinieri restarono al loro posto, e lui annuì. Si raddrizzò e uno schiavo gli legò in vita un gonnellino di lino bianco. Il tessuto lasciava scoperte le cosce. Nell’afa estiva ci si allenava nudi nella corsa e nella lotta, ma in guerra era diverso. Santippo aveva appreso da suo padre quanto tornasse utile un pezzetto di lino quando il sudore o il sangue ti accecavano.
Restò a guardare i servi che gli avvicinavano il pettorale. Lo strato interno era coperto di spesso lino sbiancato, con le cuciture grosse e resistenti. La corazza in sé consisteva di due piastre di bronzo. Santippo sapeva che ne avrebbe percepito con fatica la mole a ogni passo durante la marcia, ma per quanto pesante e costosissima, era quella la pelle della guerra. Alcuni strateghi preferivano una piastra unica di bronzo o cuoio, ma a lui non piaceva sentirsi impacciato nei movimenti. Una volta aveva visto un uomo costretto a togliersi il pettorale per allacciarsi i sandali, rimanendo per qualche momento indifeso come un pesce spiaggiato. Le sue piastre, invece, lo facevano sentire invincibile. Come gli schinieri, anche il pettorale era stato plasmato su misura da un fabbro. Il bronzo era caldo sulla sua pelle. Soddisfacente in ogni dettaglio.
Santippo annuì di nuovo e borbottò qualcosa quando gli schiavi gli fissarono il pettorale con due cinghie sulle spalle e un gancio in vita. Due piastre più piccole, dette piume, pendevano sull’inguine per proteggerne le vene. Con lo scudo alzato e l’elmo in testa, il nemico avrebbe visto di lui soltanto la lucente armatura: un uomo rivestito d’oro. Era un pensiero rassicurante. Le braccia erano scoperte, le fece oscillare, stringendo i pugni e ruotando le spalle, per accertarne la libertà di movimento.
I sandali borchiati erano ben allacciati, e lui si sistemò un panno leggero in testa e sulla fronte. Avrebbe assorbito il sudore e ammortizzato il peso dell’elmo. Il suo cuore accelerò i battiti quando un secondo gruppo di schiavi entrò nella stanza con il suo equipaggiamento da oplita. Quelle armi non erano state comprate con le ricchezze degli Alcmeonidi, la famiglia di sua moglie, che faceva risalire le proprie origini agli eroi dell’Iliade. No, erano armi che mostravano chiari i segni di anni di utilizzo, con graffi e ammaccature, e persino una piccola riparazione saldata sul paranaso. Quella panoplia gli aveva salvato la vita in svariate occasioni, e lui ne guardava ogni elemento con orgoglio e affetto, come un uomo che accarezza la testa del segugio più fedele.
«Dov’è il mio scudo?» domandò, notandone l’assenza.
Gli schiavi attesero che fosse il più anziano tra loro a rispondere. Persino più cerimonioso del solito, Manias si inchinò prima di aprire bocca. «La padrona voleva mostrarvelo di persona.»
«Capisco. Agariste l’ha fatto ridipingere.»
Non era una domanda, ma Manias annuì comunque, arrossendo sotto lo sguardo freddo del padrone. Aveva coperto vari ruoli nella casa degli Alcmeonidi fin dalla nascita di Agariste e nutriva per lei una fedeltà feroce, come accade a chi ha visto crescere una bambina che portava sulle spalle. Ma in quel momento l’intesa muta tra lui e Santippo era cosa da uomini e trascendeva persino le rispettive posizioni sociali.
Il padrone non aggiunse altro, ma la sua rabbia era tangibile, e rese goffi gli altri schiavi mentre lui stringeva le dita sulla lancia e faceva scorrere il palmo lungo l’intera lunghezza dell’asta, per accertarsi che non fosse fessurata. Nessuna scheggia o imperfezione. D’un tratto allontanò i servi con un cenno e ruotò l’arma sopra la testa e intorno al corpo, fendendo l’aria con un sibilo. Era lunga una volta e mezza la sua statura e il peso del puntale di ferro, a forma di foglia, era perfettamente bilanciato dal tallone di bronzo alla base (l’ammazza-lucertole, come lo chiamavano gli efebi, gli opliti più giovani). Il legno di frassino macedone si adattava alla perfezione alla sua mano e Santippo sentiva i colpi della pialla sulla sua superficie, la perizia e il sudore dei vecchi artigiani. Aveva ucciso molti uomini con quell’arma ed era un piacere impugnarla di nuovo.
Passò la mano sul cimiero. Nessun segno di polvere e i crini fitti erano nuovi e tagliati con cura. Compiaciuto, Santippo lo posò a terra e sfilò la spada dal fodero per controllarne il filo. Certi dettagli non si potevano lasciare agli schiavi, anche se esperti. Ma a quanto pareva la lama era stata accudita a dovere dall’ultima volta che l’aveva brandita in difesa della città. Come l’armatura, anche la spada era stata lucidata con l’olio e non mostrava macchie di ruggine. I servi gli legarono in vita la cinta e il fodero, e lui cominciò a sentirsi più pesante, corazzato.
Agariste emerse dall’ombra. Esile com’era, reggeva a fatica lo scudo, l’elemento più pesante ed essenziale della panoplia. La circonferenza di bronzo era coperta da un drappo bianco, ma Santippo indovinava già l’immagine dipinta.
«Lasciateci soli» ordinò la donna.
Gli schiavi si dileguarono nel buio. Dopotutto la casa era sua, così com’era appartenuta a suo padre prima di lei. Santippo veniva vestito nella stessa sala in cui un tempo si sarebbe trovato Clistene, uno dei fondatori della democrazia ateniese, l’uomo che aveva scelto i nomi delle dieci tribù. Il casato di Agariste era tanto illustre che a volte Santippo se ne sentiva schiacciato. Però sapeva che lei lo amava con il candore della sua giovinezza. Aveva sedici anni quando si erano sposati, mentre lui, trentenne, inaugurava la propria carriera politica. Da allora erano passati otto anni, e lui doveva parte della sua ascesa al sostegno degli Alcmeonidi. Ma essersi legata a un’età così acerba a un uomo già adulto la rendeva ancora timorosa del suo giudizio. Bastava una parola brusca del marito a riempirle gli occhi di lacrime. E adesso, mentre avanzava con il suo scudo, Santippo le vedeva quella paura scritta in volto, il terrore che lui non apprezzasse il lavoro che lei aveva commissionato.
«Mostramelo, dunque» le disse. Impugnava ancora la lancia nella destra e tese la sinistra, con le dita aperte.
In silenzio, e mordendosi un labbro, lei sollevò il drappo e lo lasciò cadere a terra.
Si era aspettato di vedervi raffigurato un leone nel momento stesso in cui gli avevano detto che era stato ridipinto. Era un sogno che tormentava Agariste da anni, tornando regolarmente a disturbarle il sonno. Lui ne aveva sentito il racconto dettagliato decine di volte, ma non gli aveva mai attribuito alcun valore profetico. Assecondava la moglie per quieto vivere, ma in realtà non pensava che gli dei avrebbero concesso un’autentica visione a una giovane ingenua come Agariste. La vera fonte del sogno doveva essere la sua preoccupazione per l’incolumità del marito o dei bambini. Santippo non riuscì a scrollarsi di dosso un cattivo presagio dovuto alla scomparsa dell’occhio che prima fissava il mondo dal centro del suo scudo. Era stato sotto la protezione di quello sguardo che aveva affrontato tutti i suoi nemici, e adesso si era spento, accecato da Agariste.
«È molto bello.»
«Ti piace? Davvero?» Lei lo scrutò con attenzione. «Non è vero. Non ti piace.»
«La fattura è eccellente» rispose lui. Era la verità: l’artista aveva fatto un ottimo lavoro. Il leone ruggiva a fauci spalancate, tutto criniera, zanne e furia. Un’immagine impressionante, ma lui avrebbe comunque preferito essere ancora vegliato dal suo vecchio occhio sgranato.
«Nel mio sogno partorivo un leone» cominciò lei, scegliendo come al solito di riempire il silenzio con un fiume di parole. «All’inizio avevo pensato che si riferisse al bambino. Ero incinta, quindi cos’altro poteva essere? Ma quando ho visto il tuo scudo mi sono detta… e se invece fossi tu, il leone? E ho pensato che forse potevo aiutarti a diventare il leone di Atene.»
«Non so dirti quale sia l’interpretazione giusta» rispose lui. «Non oggi.»
La conversazione richiedeva più energie di quante Santippo potesse spenderne. In quel momento doveva essere concentrato, risoluto e silenzioso, con le armi in pugno e la mente fissa sulla battaglia imminente. Ma Agariste insisteva nel tentativo di scalfire la sua imperturbabile superficie e sciogliere la sua freddezza. Un’ostinazione non sempre gradita.
Santippo si guardò intorno. Gli schiavi sembravano essersi volatizzati, ma lui sapeva che si erano tenuti a portata d’orecchio, nel caso ci fossero altri ordini.
«Agariste… ciò che accadrà oggi…»
«Oh! I bambini! Devono venire a salutarti.»
«Non ora…» Ma lei era già sparita, svanita nella penombra, lasciandolo solo nel fascio di luce sotto il cielo terso. Il sole era già sorto, e d’un tratto provò l’impulso di andarsene subito, senza tante cerimonie. Stava quasi per avviarsi alla porta quando sentì le loro voci, e si impigliò in quel suono come sulle spine di un roveto.
Arifrone, il maggiore, aveva sette anni, ed Elena sei. Entrarono nella stanza come due anatroccoli, fissando sgomenti il padre che luccicava d’oro e d’olio, come un dio vivente. Agariste teneva per mano il figlio più piccolo. L’ultimogenito aveva cinque anni e sembrava sul punto di piangere.
Santippo posò la lancia e si inginocchiò a terra.
«Venite, bambini. Anche tu, Pericle. Coraggio, non abbiate paura.»
Loro gli corsero incontro e a occhi sgranati cominciarono a toccare l’armatura, a battere i pugni sul pettorale.
«Ammazzerai i persiani?» domandò Arifrone.
Santippo lo guardò negli occhi e annuì. «Sì, molti persiani. Centinaia.»
«E loro verranno qui a ucciderci?»
«Mai. Ogni uomo d’Atene si sta preparando per cacciarli. Rimpiangeranno di averci minacciati.»
Di colpo, e con sua grande irritazione, Elena cominciò a frignare, prima imbronciando le labbra e poi scoppiando in singhiozzi. Fece una smorfia pentendosi di avere ceduto all’insistenza di sua moglie.
«Forse è meglio se porti i tuoi fratelli in cucina, Arifrone. Trovagli un frutto, o qualunque cosa la cuoca stia arrostendo sullo spiedo. D’accordo?»
Suo figlio annuì con aria solenne, consapevole che gli era stato affidato un compito di grande responsabilità. Santippo non poté sottrarsi a un altro abbraccio, ma infine i bambini si allontanarono, guidati da Arifrone.
Agariste si chinò a raccogliere la lancia. Era strano vederla in mano a una donna e lui si affrettò a togliergliela. Ne aveva abbastanza dei presagi, non ultime le lacrime di Elena. Aveva già perso l’occhio sul suo scudo e non voleva neanche pensare alle conseguenze se sua moglie avesse fatto cadere la sua arma. Le prese le mani tra le sue e avvertì il suo calore, e il profumo della sua pelle, un insieme di rosa, lavanda e muschio. La fragranza gli invase le narici e non poté fare a meno di chiedersi se sarebbe stato quello l’odore degli unguenti sulla sua pira funebre.
«Agariste, se oggi venissimo sconfitti…»
«Non dirlo nemmeno, Santippo. È di cattivo auspicio. Ti prego.»
«Ma bisogna dirlo. Devi essere pronta.»
«Ti scongiuro…»
Ebbe l’impressione che stesse per scappare, e sentì montare la rabbia. A volte si comportava proprio come una bambina. Le afferrò il polso con una forza tale da strapparle un gemito.
«Se ci sconfiggessero e venissero qui, devi uccidere i bambini.»
«Non posso» mormorò lei.
Non osava guardarlo negli occhi e istintivamente si divincolava, cercando di sottrarsi alla sua morsa. Lui strinse ancora la presa, senza lasciarsi commuovere dalle lacrime che le rigavano il viso.
«Sei la padrona di questa casa, Agariste. Devi farlo. Se non hai il coraggio di brandire la spada, affidala a Manias. Hai bisogno che io ti spieghi cosa fanno i persiani ai bambini dopo la cattura? Vuoi proprio costringermi a descriverne l’orrore? Sono il flagello del mondo, Agariste. Io ho visto quello che lasciano al loro passaggio. Ho visto i cadaveri. E, se dovessero sconfiggerci, vorranno fare di Atene un esempio. Devasteranno la città e non resterà luogo in cui nascondersi. Questa non sarà come le battaglie di un tempo, quando l’esercito di Sparta si schierò sotto l’Acropoli, o quando affrontammo i cavalieri della Tessaglia. Noi siamo greci. Conosciamo i limiti della guerra… e le guerre senza limiti. I persiani… sono spietati, amore mio. E le loro schiere sono innumerevoli, come i granelli di sabbia. Se saranno loro a vincere, devi salvare te stessa e i bambini da ciò che verrà.»
«Se è ciò che vuoi, marito mio, farò come dici.»
Aveva chinato la testa, ma quando rialzò gli occhi lui si domandò se fosse sincera. Ricca e potente da secoli, la sua famiglia nutriva una fiducia innata nelle proprie possibilità, compresa la capacità di sopravvivere. E Agariste aveva ereditato quella sicurezza. Santippo poteva solo pregare gli dei – Ares, Zeus ed Era, nume tutelare del matrimonio – che sua moglie venisse risparmiata e non dovesse mai scoprire quant’era in realtà fragile il mondo.
La baciò, senza passione. Era un arrivederci, una promessa.
«Tornerò, se posso.»
Non aggiunse che le probabilità erano minime. I greci che credevano ancora nella vittoria non avevano mai visto le armate persiane. Nella Ionia erano state come sciami neri di locuste, e si diceva che quei contingenti fossero solo una piccola parte dell’esercito imperiale. Santippo aveva combattuto contro quelle guarnigioni, i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LE PORTE DI ATENE
  4. Termini militari
  5. Luoghi
  6. Personaggi
  7. Altri termini
  8. Prologo
  9. PARTE PRIMA. 490 a.C.
  10. PARTE SECONDA. 482 a.C.
  11. Nota storica
  12. Copyright