Per una nuova destra
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Per una nuova destra

consigli per un futuro di vittorie

  1. 256 pagine
  2. Italian
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Per una nuova destra

consigli per un futuro di vittorie

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Informazioni sul libro

La fine del 2021 e il 2022 porteranno inevitabilmente sorprese e potenziali trasformazioni in tutto il mondo: il "post pandemia" sarà una terra incognita, un territorio non mappato.
In uno scenario tanto mutevole, occorre porsi subito alcune domande. È finita o no la stagione "sovranista"? Cosa si può ereditare in positivo e cosa va invece corretto e ripensato?
La destra ama da anni attaccare il politicamente corretto. Ma, oltre a questo, c'è una pars construens, c'è una volontà di ricostruire?
E su che basi?
Che cosa intende fare la destra per creare una sua autorevolezza nelle istituzioni, negli apparati dello stato, nella cultura? Avere grande forza elettorale è una precondizione per vincere, ma non basta per governare.Esiste il pericolo che i partiti di destra (governativi e non) risultino marginalizzati, commissariati, percepiti come esclusi dalle decisioni vere e ridotti solo a battaglie di propaganda?
Chi sono i forgotten men italiani? Possibile che non si riesca a creare protagonismo sociale e politico di piccole imprese, partite iva, lavoratori autonomi? La destra, retorica a parte, spesso non è stata all'altezza di dare una rappresentanza efficace a questi elettori che pure guardano da quella parte.
E ancora, come finirà il testa a testa annunciato dai sondaggi tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni? E che futuro avrà una federazione tra Lega e Forza Italia?
Daniele Capezzone, con uno stile lucido e accattivante, ci racconta la destra e il centrodestra che oggi esistono in Italia, ma anche ? con curiosità, ottimismo e un pizzico di fantasia ? la destra e il centrodestra che invece non ci sono ancora, e di cui forse molti elettori avvertono la mancanza.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858527436
1

Grover Norquist e il suo “Lasciateci in pace”

Guida a un centrodestra capace di dire: meno tasse, meno stato, meno pubblico. Due schieramenti in campo: la coalizione “lasciateci in pace” contro quella dei “prenditori-espropriatori”.
Un’ispirazione sicura e forte, oltre che di immediata comprensibilità popolare, per un centrodestra liberale, innovativo e riformatore può venire dall’americano Grover Norquist, animatore e leader di Americans for tax reform, l’associazione antitasse e pro contribuenti che sottopone da anni a candidati ed eletti statunitensi (e, in particolare per gli eletti repubblicani, si tratta di un must pressoché imprescindibile) il Taxpayer Protection Pledge, cioè un impegno scritto solenne a non votare mai e in nessun caso aumenti di pressione fiscale, e anzi a operare nella direzione opposta.
Qui da noi, i giovani e bravi animatori del Tea Party Italia importarono il meccanismo alle elezioni del 2013, quando in pochissimi firmammo il pledge: nella mia vita precedente, quando ero direttamente impegnato in politica, ho avuto l’onore di essere il primo candidato italiano a sottoscriverlo e, da eletto, ho scrupolosamente operato in questa direzione.
Norquist in persona mi fece l’onore di tenere insieme una conferenza in Italia nel 2013, grazie all’impegno e alla generosità dell’amico Lorenzo Montanari, colonna italianissima di Americans for Tax Reform.
E quest’anno Mercatus (www.istitutomercatus.it), l’istituto di cultura, ricerca e formazione che ho fondato insieme agli amici Barbara Boschetti, Federico Punzi, Lorenzo Montanari, è ripartito esattamente da lì: dalla richiesta ai parlamentari in carica, e ai candidati alle elezioni di ogni ordine e grado, di non votare mai per imporre più tasse, e anzi di impegnarsi per un consistente calo della pressione fiscale e tributaria.
Nel suo viaggio italiano, Norquist spiegò bene perché sarebbe interesse di un partito e di una coalizione connotarsi in tal senso: con una scelta del genere, un movimento politico non solo farebbe del bene ai contribuenti e all’economia nazionale, ma farebbe anche del bene a se stesso, rendendosi immediatamente identificabile per una proposta politica semplice, chiara, comprensibile a tutti: meno tasse. Per dirla in termini di marketing (ma qui è più che sufficiente un po’ di puro buon senso), il branding sarebbe garantito: nello scaffale del supermercato della politica, pur in mezzo a mille prodotti, diventeresti subito riconoscibile, senza bisogno di inseguire formule vaghe e politiciste o di inventarti chissà quali complicate alchimie.
Il libro Leave us alone (in italiano: “Lasciateci in pace”) è la sintesi, il manifesto non solo economico, ma politico e culturale di Norquist. Non è solo una questione di tasse, quindi: serve un più generale arretramento dello stato, un ridimensionamento del perimetro del “pubblico”, e una rinnovata fiducia nella capacità degli individui, delle famiglie e delle imprese di fare da sé, alleggeriti dal peso di uno stato onnipresente e invasivo.
Quella proposta da Norquist, dunque, non è (solo) una politica economica, ma una politica, a tutto tondo. Significa assumere un punto di vista: quello dei taxpayers, cioè dei contribuenti; quello delle imprese, specie medie e piccole; quello dei lavoratori autonomi, e insieme dei lavoratori dipendenti del privato; di tutti gli outsider rispetto al perimetro delle tutele esistenti; di tutti quelli che vivono nella trincea non protetta del mercato, della competizione, del rischio.
Questo non vuol dire essere ideologicamente e ossessivamente “contro” il governo, in una prospettiva anarcoide: vuol dire puntare a limitarne il ruolo. Non vuol dire essere contro i dipendenti pubblici: anzi, la parte più dinamica e qualificata del pubblico impiego (in particolare, dice ad esempio Norquist, quella che lavora per difendere la libertà e la proprietà, quindi forze dell’ordine, forze armate, forze di polizia e, ovviamente, non solo: ogni bravo e leale civil servant) è naturalmente parte della Leave us alone coalition, cioè del modello di centrodestra immaginato da Norquist. Ma un centrodestra moderno deve capire che il tema non è “essere moderati”, non è puntare verso il “centro” inteso come una sorta di “luogo geografico”: al contrario, si tratta di seguire con coerenza e radicalità una linea-guida che sia facilmente riconoscibile da una maggioranza sociale che, in genere, esiste nei paesi dell’Occidente avanzato.
Norquist è molto convincente quando include nella sua coalizione anche aree (cita esplicitamente gli elettori omosessuali, per fare un esempio) che troppo facilmente (anzi, inspiegabilmente!) vengono in genere attribuite alla sinistra, o che le destre più becere aggrediscono immaginandole elettoralmente “perse”. Perché mai, si chiede? Anche i cittadini omosessuali – ovviamente – pagano le tasse, sono proprietari di un’abitazione, hanno risparmi e investimenti. La linea di confine, per un centrodestra intelligente, deve essere quella: difendere e promuovere per tutti una politica che riduca il peso dello stato nella tua casa e nel tuo portafogli. Lo spartiacque deve essere un chiaro “no” a qualunque espansione del settore pubblico e, simmetricamente, anche alla pretesa di risorse pubbliche per sostenere il proprio gruppo, la propria area, la propria categoria.
Questo è un punto – a mio avviso – molto convincente. Usciamo da un secolo in cui la parola “individuo” era quasi impronunciabile, specie in Europa, a beneficio di parole e concetti (minacciosamente scritti in maiuscolo: Stato, Chiesa, Partito, Sindacato) riferiti a entità pubbliche o collettive, a cui la cultura dominante attribuiva sistematicamente l’ultima parola. Ora è venuto il momento di imporre un diverso “bipolarismo”, che metta in discussione e sparigli le carte rispetto alle vecchie destre e alle vecchie sinistre: mi riferisco a un nuovo auspicabile bipolarismo tra chi vuole allargare la sfera della decisione individuale e privata, e chi – al contrario – vuole potenziare la sfera della decisione pubblica o collettiva. Qui sta il punto.
Ma torniamo a Norquist, che non si limita alla riflessione teorica, e si fa carico anche di indicazioni molto concrete. Non solo sul piano dei contenuti: tagliare le tasse (partendo dal non alzarle attraverso lo strumento impegnativo del pledge) e aggredire la tassazione su risparmi e investimenti proprio per creare una società di proprietari-risparmiatori-investitori naturalmente interessati a non essere torchiati dallo stato. Ma anche sul piano del metodo da seguire: ad esempio, è essenziale che un governo preveda più tagli di tasse al ritmo di uno all’anno, per più anni, in modo che tutte le diverse aree sociali si sentano rassicurate sul fatto che, se non quest’anno, almeno il prossimo o il successivo toccherà certamente a loro (lavoratori autonomi, lavoratori dipendenti, imprese eccetera).
E Norquist aggiunge anche pagine che il centrodestra europeo dovrebbe imparare a memoria sulla formazione dei giovani, elogiando in modo speciale quelle organizzazioni statunitensi (Norquist cita la più nota: il Leadership Institute) che si dedicano non solo al training dei candidati adulti, ma anche ad aiutare i ragazzi a formare club e circoli già nei college, per battersi da subito nella palestra delle idee e della ricerca del consenso.
Norquist non dimentica gli avversari, naturalmente. Contro la Leave us alone coalition c’è un’altra coalizione, quella delle sinistre tradizionali, che Norquist chiama perfidamente la Takings coalition, cioè, per tradurla in modo comprensibile, la coalizione dei prenditori-espropriatori. Norquist non insulta ma descrive gli obiettivi (e i vizi) delle sinistre tradizionali: redistribuire, cioè prendere da qualcuno per dare a qualcun altro, con un’enfasi che fatalmente si sposta dal momento della creazione della ricchezza (come sarebbe invece necessario) a quello del suo trasferimento e redistribuzione. Chi fa parte di questa coalizione? Sindacalisti, apparati pubblici e parapubblici, ma anche imprese sussidiate e assistite, e pure chi è in una condizione di dipendenza dal welfare e dai benefici pubblici, più (e qui la descrizione è giustamente spietata) quelle organizzazioni “non governative” che in realtà sono ormai “ultragovernative”, perché vivono di risorse pubbliche.
Norquist ha mano felice, e purtroppo giustamente severa, quando addita per l’America il pericolo di essere progressivamente risucchiata verso l’errore storico europeo, e cioè quello di accettare una crescente dipendenza dalla politica, dal pubblico, dallo stato, di aree-chiave della società, come sanità, scuola e pensioni. L’obiettivo della sinistra è – troppo spesso – quello di rendere un numero maggiore di elettori più dipendenti dalla mano pubblica; l’obiettivo di un centrodestra intelligente dovrebbe essere quello – diametralmente opposto – di aiutare i cittadini a ridurre l’attesa, l’aspettativa, la dipendenza da uno stato costoso, inefficiente, onnipresente, impiccione.
E in Italia? Si avrebbe il dovere di essere ottimisti rispetto a una proposta politica che scegliesse questa chiarezza strategica. Magari con un caveat. Da osservatore disincantato, mi pongo infatti una domanda di fondo, non priva di angoscia: non sarà che in Italia, siamo già – per livelli di interventismo, e quindi di dipendenza dal pubblico – oltre il punto di non ritorno? Cioè oltre il punto al di là del quale è sempre più difficile coagulare una maggioranza di elettori liberi da quella dipendenza? La sensazione, dopo tante occasioni colpevolmente mancate a destra e a sinistra, è che non sarà facile riaprire la strada. Ma a maggior ragione si tratta di una scelta necessaria.
2

Clint Eastwood e la sua inquietudine per la libertà e per l’individuo

La sua non è solo una maschera virile, dura, consapevole: è una visione della vita. Che manca al centrodestra italiano…
Da qualche anno, a ogni 31 maggio, giorno del suo compleanno (stavolta le candeline sono state 91!), leggiamo grandi celebrazioni di Clint Eastwood, ma – con eccezioni che si contano su poche dita di una sola mano di un grande mutilato – si tratta più che altro di omaggi retorici, inchini formali, fino a constatazioni abbastanza tautologiche sul fatto che superare le novanta primavere sia un gran traguardo. C’è da immaginare lo sguardo di Clint nel leggere tante appiccicose banalità, così lontane dall’essenziale.
Quel che non si vuole cogliere è la traiettoria di un uomo integro e solitario, e il filo che unisce le esperienze di quando era più giovane (le interpretazioni negli spaghetti-western e più tardi il ruolo iconico dell’ispettore Callaghan) alle gemme della maturità, che lo hanno visto come regista e a volte interprete negli ultimi tredici anni, da Gran Torino a American Sniper, da Sully a Attacco al treno, da The Mule fino a Richard Jewell.
Quella di Clint non è solo una maschera: virile, dura, consapevole. È una visione della vita. Non dispiaccia ai registi cosiddetti pensosi e impegnati, in realtà militanti di sinistra conformi e conformisti, aggrappati ai loro feticci ideologici, e non dispiaccia soprattutto – il Dio del cinema ce ne scampi – alla compagnia di giro di attori e registi italiani che vanno per la maggiore da un ventennio: quelli che ci hanno raccontato, tra un tinello e un divano, il disagio di quando avevano trent’anni, il disagio di quando ne avevano quaranta, e adesso il disagio dei cinquantenni imbolsiti eppure irrisolti che sono diventati. Come si dice dalle parti di Oxford (o forse a Cambridge, non vorrei sbagliare…), ci avete rotto i coglioni col vostro disagio, con i vostri tic, con i vostri fallimenti esistenziali, cari compagni.
Il messaggio del gigantesco Clint, conservatore ma libertario (anzi: conservatore e dunque libertario), è che siamo chiamati a essere uomini, a nascere e morire da soli, ad assumerci le responsabilità, a decidere, a cadere e a provare a rialzarci, ad affrontare con dignità e senza piagnistei il cammino della vita, con le sue spietate durezze.
E a farlo con una bussola: quella dell’individuo.
Avete letto bene, cari compagni del cinema italiano (nella parlata romanesca: scinema, con una “c” pure lei – come voi – sciatta, trascinata, svogliata): individuo, non stati-chiese-partiti. Clint è inquieto per gli individui, per quelli vecchi e per quelli più giovani, per quelli ultra americani e pure per gli immigrati che hanno voglia di lavorare e integrarsi, per chiunque sia pronto a spaccarsi la schiena restando fedele a se stesso, senza compromessi di comodo, senza furbizie levantine, senza sindacati-collettivi-comunità capaci di aprire ombrelli, se non retorici, insinceri, controproducenti.
E naturalmente Clint ci indica l’altra stella polare: la diffidenza nei confronti dello stato, del potere e dei suoi abusi, delle burocrazie ottuse, dei media nevrastenici, delle manipolazioni dei conformisti politicamente corretti. Tutte realtà – queste – certamente diverse, ma pronte a unirsi contro un individuo padrone di sé, compos, attrezzato e consapevole come “Sully” Sullemberger, e a maggior ragione a stritolare una persona comune come l’ingenuo e sincero Richard Jewell.
Ripercorriamo, a titolo di esempio, queste due emblematiche prove cinematografiche.
La prima vede Eastwood nelle vesti di regista e produttore, mentre l’interprete principale è un Tom Hanks sensazionale per autocontrollo, misura, intensità. La storia è tanto vera quanto nota: nel 2009, il pilota di linea Chesley “Sully” Sullenberger, appena decollato dall’aeroporto La Guardia di New York al comando di un aereo con a bordo 155 passeggeri, deve con il suo copilota far fronte a una situazione estrema: a causa di un bird-strike, cioè di uno stormo di uccelli che si infila in entrambi i motori, il suo Airbus rischia di schiantarsi. Sully e il copilota hanno appena 208 secondi, non uno di più, per valutare le alternative, e capire se c’è tempo di tornare in aeroporto. Non c’è. Con un’operazione ai limiti dell’impossibile, allora, decidono un ammaraggio d’emergenza sul gelido fiume Hudson. In un miracolo di concentrazione e precisione, l’aereo non si schianta. Nei successivi 24 minuti, una corale operazione di soccorso (sommozzatori, unità navali e aeree ecc.) completa l’opera, portando in salvo tutti i viaggiatori.
Ma questo è solo l’inizio della storia, lo spunto di partenza. In realtà, il cuore del film è la ricostruzione della grottesca indagine tecnica in cui la compagnia aerea e le autorità di trasporto cercano di dimostrare che Sully ha compiuto una scelta avventata, che sarebbe potuto rientrare in aeroporto, che non è un eroe ma uno che ha messo a rischio tante vite.
Dunque, al centro c’è l’individuo, anzi due individui, il pilota e il copilota. Il fattore umano contro la burocrazia e le furbizie legali; la responsabilità individuale e il dovere contro le chiacchiere; gli uomini veri contro i fantocci e la nevrastenia mediatica. Qui sta il cuore e lo spirito davvero americano del racconto: un individuo padrone di sé, concentrato e competente, può compiere imprese straordinarie, al di là di qualunque immaginazione.
Non solo. Una società che funziona è quella in cui, oltre all’“eroe”, c’è una molteplicità di figure che fanno il loro dovere. Considerate, dopo l’ammaraggio dell’aereo, il modo meraviglioso in cui Eastwood nel film racconta il lavoro della torre di controllo, delle unità di soccorso, delle forze navali e di polizia, dei medici, di tutti quelli che portano il loro contributo al salvataggio dei passeggeri.
Come si vede, questa incredibile sto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. PER UNA NUOVA DESTRA
  4. Introduzione. Per una direzione di marcia liberale nella grande incognita del post pandemia
  5. 1. Grover Norquist e il suo “Lasciateci in pace”
  6. 2. Clint Eastwood e la sua inquietudine per la libertà e per l’individuo
  7. 3. Contro il rischio paternalista e dirigista, serve un approccio liberale classico, e per certi versi quasi libertario
  8. 4. Serve un equivalente liberale della lotta di classe
  9. 5. Ottimismo contro pessimismo, riappropriarsi del campo emotivo della speranza, superando il dominio di rabbia e paura
  10. 6. Rileggere i Federalist Papers per capire che la libertà è preferibile al “dirittismo”. Presidenzialismo, federalismo, no al sistema proporzionale
  11. 7. Andare oltre lo scenario federativo Lega-Forza Italia. Partito repubblicano e primarie sul modello USA: approccio fusionista e sfida di idee come processo unificante.
  12. 8. Scenario post Brexit e confronto sempre più teso tra Londra e Bruxelles
  13. 9. Non si può essere “terzi” né spettatori nella sfida geopolitica tra Occidente e Pechino
  14. 10. Le sfide (difficili) di Lega e Fratelli d’Italia e il loro testa a testa. Serve un’iniezione di libertà
  15. Conclusione. La libertà come unica bussola per scongiurare una nuova versione dell’incubo orwelliano
  16. Copyright