I Grandi Miti d'Amore
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I Grandi Miti d'Amore

  1. 176 pagine
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I Grandi Miti d'Amore

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Cos'era l'amore per gli antichi Greci? Lo stesso scritto oggi sui muri dai graffitari e inciso nelle fedi nuziali? Certamente sì, ma con un distinguo. Perché per i Greci l'amore, Eros, non era solo un sentimento, ma anche un dio con i suoi riti, i suoi luoghi di culto. Forza primordiale e misteriosa, Eros irrompe nella vita degli uomini e la sconquassa a suo piacimento.
I grandi miti di questo narrano: nulla si può contro la forza invincibile della divinità. Ma ci insegnano anche che Eros, così terribile, è allo stesso tempo straordinario dispensatore di piacere e dolcezza, senza i quali - diciamolo - la vita che sapore avrebbe?
Gli incontri furtivi di Ares e Afrodite, la lunga attesa di Penelope e il viaggio di Odisseo, la fiaba di Amore e Psiche, gli amori tragici e contrastati di Ero e Leandro, Piramo e Tisbe, la musica di Orfeo per Euridice, le storie romanzesche di Perseo e Andromeda...
Racconti archetipici, avvincenti e affascinanti come romanzi, i miti greci arrivano fino ai nostri giorni carichi di simboli, ricchi di poesia e significato e, parlandoci dell'amore in tutte le sue sfaccettature, ci ricordano chi siamo e da dove veniamo.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858527825

ADMETO E ALCESTI

La vera prova d’amore

Non tutta la tradizione antica va nella direzione del “troppo amore” di Orfeo; già Platone mette in dubbio l’irreprensibilità morale del divino cantore e spiega anzi il fallimento della sua missione come una punizione divina per i limiti umani del suo amore: ma sappiamo che il filosofo non nutriva molta simpatia per i musici e i poeti, e il suo spietato giudizio sulla figura di Orfeo risente certo di questo pregiudizio in lui molto radicato.
Nel Simposio sostiene infatti, con le parole di Fedro, che Orfeo in realtà sia stato rimandato indietro a mani vuote dai sovrani degli inferi: non era Euridice colei che si trascinava dietro, ma solo un suo fantasma. Aveva tutte le ragioni per voltarsi, per dubitare della persona che lo stava seguendo: e se anche non avesse commesso quella trasgressione, l’esito dell’impresa non sarebbe cambiato. Ade e Persefone l’avevano ingannato per punirlo della sua vanità.
Si era esibito come un cantore professionista, ma aveva perso la gara: erano ben altre le prove che chiedeva l’amore, prove di devozione e rinuncia come quella di Alcesti, a garantire la vittoria: lei sì, aveva meritato il dono divino della rinascita; lei sì, aveva dato prova d’amore vero, offrendo la sua vita per salvare quella di chi amava.
«Solo chi ama è disposto a morire per un altro», dice il Fedro platonico, e Orfeo, con le sue lamentose elegie, mai avrebbe avuto il coraggio di morire al posto di Euridice (accusa smentita però da Ovidio, che fa dichiarare al cantore, di fronte ai sovrani infernali: «Se il fato mi nega questa grazia per la mia consorte, di certo io non voglio ritornare indietro: sarete soddisfatti di godere della morte di due!»).

Morire e rinascere per amore

Anche Euripide, il grande tragediografo greco che ha il merito di aver permesso alla leggenda di Alcesti di arrivare fino a noi, mette in relazione la sua storia con quella di Orfeo. Nella sua tragedia a lieto fine è Admeto, il marito di Alcesti, sopravvissuto grazie al supremo sacrificio d’amore di sua moglie, a paragonarsi al mitico cantore: «Oh se mi fossero date le parole e il canto di Orfeo, così da incantare con essi la figlia di Demetra e il suo sposo! Allora io scenderei a prenderti nell’Ade…», dice rivolto alla sposa ormai in fin di vita.
Ma ripercorriamo dall’inizio la bella fiaba di Alcesti, e come sempre cerchiamo di scoprire in che modo tutto è cominciato. A volte le storie d’amore del mito sembrano voler tacere sul loro esordio: forse per la condivisa sensazione che un legame così determinante per un essere umano esista da sempre, anche prima del primo incontro, o forse perché, nella mitologia antica, non sempre le origini sono, per così dire, all’altezza del seguito.
Anche in questo caso, infatti, all’origine di tutto c’è una ragazza in età da marito messa in palio. La storia ce la racconta il mitografo Pseudo Apollodoro che già conosciamo, nella sua Biblioteca di miti antichi.
C’era una volta un re di nome Pelia, che regnava sulla cittadina di Fere, in Tessaglia; da anni cresceva nel suo palazzo la sua cara figlia Alcesti, che ormai aveva raggiunto l’età giusta per sposarsi. Ma, forse, al pensiero delle stanze regali vuote dei suoi sorrisi, dei suoi giochi e della sua compagnia, il nobile padre non era poi così convinto di volerla lasciare uscire dalla propria vita. Fatto sta che si inventò un modo alquanto strano per trovare un compagno degno della ragazza: si direbbe volutamente impossibile. Bandì un solenne proclama che sanciva che soltanto colui che fosse riuscito ad aggiogare a un carro un leone e un cinghiale, e gliel’avesse portato a palazzo, avrebbe ottenuto l’ambita mano della principessa. L’autore non spiega il motivo di questa bizzarra idea: certo i Greci antichi lo sapevano, ma a noi è dato solo di fantasticare.
Il dio Apollo in quel tempo stava espiando una colpa che aveva commesso ai danni di Zeus: accecato dall’ira nei suoi confronti, aveva reagito uccidendogli i Ciclopi, incaricati di forgiare i suoi fulmini, strumenti del demonio capaci solo di far danni.
Naturalmente un gesto simile non poteva restare privo di conseguenze: dapprima Zeus fu drastico e fece sprofondare Apollo direttamente nell’Ade, a far compagnia alle ombre dei morti. Ma Letò, sua madre, addolorata, cercò di intercedere per il figlio e di far ragionare il furioso amante, ottenendo che mitigasse la sanzione: Apollo avrebbe potuto continuare a vedere la luce del sole, ma avrebbe espiato il delitto confondendosi per un certo periodo con i comuni mortali, divenendo il servo di uno di loro. L’uomo prescelto fu Admeto, il più ospitale e giusto di tutti i mortali. Così il dio, in incognito, si mescolò ai pastori di Admeto e fu da lui trattato con ogni riguardo, senza sopraffazioni e con la gentilezza del padrone onesto e rispettoso anche nei confronti dei suoi subalterni, pur senza sapere chi realmente si nascondesse dietro le mentite spoglie del nuovo pastore.
Ma perché Apollo si era così risentito con Zeus da uccidere i Ciclopi e impedire la fabbricazione di nuove folgori celesti? Apollo aveva un figlio, a lui molto caro, nato da una donna mortale: si chiamava Asclepio ed esercitava la professione di medico. Era un guaritore magnanimo, filantropo e dotato di eccezionale talento nella sua arte, tanto da avere inventato addirittura il modo per far resuscitare i morti. Questo sconvolgimento dell’ordine naturale delle faccende umane non poteva certo essere tollerato dal burbero e onnipotente sovrano degli dèi, che dominava il mondo intero con l’autorità del suo scettro: così, per porre fine ai miracoli del troppo audace benefattore, lo fulminò. E il padre non mancò di fargli giustizia.
È significativo che alla radice della storia d’amore di Alcesti, dell’occasione stessa che le permise di incontrare Admeto, ci siano delle resurrezioni negate: questo acquisirà senso nel finale della storia.
Ma vediamo ora l’ultimo tassello che completa il discorso sulle origini, ossia il nesso che collega le nozze di Alcesti alla vicenda di Apollo servo di Admeto.
Contro ogni previsione, un vincitore della gara impossibile indetta da Pelia ci fu davvero, e fu proprio Apollo, nelle false sembianze del pastore. Era uso che i servi che competevano per ottenere un premio lo facessero in nome del loro padrone: così, aggiogati senza sforzo (un dio tutto può) un cinghiale e un leone a uno stesso carro, e ottenuta la mano di Alcesti, il servo Apollo la consegnò a Admeto, che sposò quindi la figlia di Pelia.
Era quella la prima ricompensa del dio, un gesto di gratitudine verso il suo affabile padrone umano che aveva allietato con la sua ospitalità la sua umiliante pena: Alcesti è un dono divino, che entra inaspettatamente nella vita di Admeto e la segna profondamente.
Gli sposi vissero insieme in armonia, si instaurò tra loro un legame forte, da cui nacquero anche due figli che furono la loro gioia. Ma un brutto giorno le Moire, le tre dee filatrici dei destini umani, stabilirono che era arrivato il momento di tagliare il filo della vita di Admeto, e Thanatos, il demone della morte, bussò alla porta della sua casa felice per portarlo con sé nell’Ade.
Il nero giustiziere infernale dovette però fare i conti con Apollo, che era molto affezionato a quell’uomo: aveva sperimentato di persona i suoi pregi e la sua bontà d’animo, e non intendeva permettere che morisse così presto. Voleva fargli un secondo regalo: dopo avergli donato la sposa che tanto amava, voleva donargli nuovamente la vita. Scese quindi a patti con le Moire: ma bisognava trovare un compromesso, perché Thanatos non è un demone che si lasci facilmente persuadere dai buoni sentimenti, e non se ne sarebbe certo tornato nell’Ade a mani vuote. Le filatrici divine stabilirono dunque questa condizione per concedere la dilazione richiesta: qualcuno doveva morire al posto dell’interessato. Se Admeto avesse trovato un sostituto disposto a cedere la sua vita per lui, affare fatto.
Admeto ebbe un bel cercare, ma prevedibilmente non trovò nessuno: nemmeno i suoi genitori acconsentirono a cedergli il tempo che rimaneva loro da vivere. Non aveva però fatto ancora i conti con l’amore. La moglie, venuta a sapere ogni cosa, si offrì volontariamente al sacrificio: avrebbe dato la sua vita per lui.

Il valore del sacrificio

A questo punto, sorgono spontanee due domande.
La prima, come sia possibile che un uomo così giusto, generoso e irreprensibile come Admeto, il più pio e ospitale degli esseri umani, abbia accettato un simile dono, aderendo al feroce principio mors tua vita mea? Tanto più se la vittima doveva essere sua moglie, l’amore della sua vita. Era un irriducibile egoista mascherato, dunque, e il suo comportamento falsamente gentile in realtà nascondeva scaltramente un animo meschino?
La seconda domanda riguarda Alcesti: ma è proprio un segno d’amore annientare se stessi per l’altro? Il sacrificio d’amore unilaterale non nasconderà anch’esso una realtà malata, una dipendenza fondata su doveri e costrizioni inconsapevoli che fanno scambiare per amore puro qualcosa che appare piuttosto come una servitù dell’anima?
Una mente moderna non può non farsele, queste domande. Ma forse il mito ragiona in modo differente.
Anzitutto non è così certo che il dono di un dio si possa rifiutare: se Admeto avesse davvero scelto liberamente di anteporre se stesso alla sposa non sarebbe coerente la supplica disperata che le rivolge mentre è in fin di vita, di portarlo con sé nell’Ade. Il patto di Apollo con le Moire è incontrovertibile: una volta stipulato, vincola i contraenti. Admeto non può sottrarsi alle condizioni pattuite dal dio: se non troverà nessuno morirà, ma se qualcuno si offrirà di cedergli la sua vita, non potrà rifiutare.
In quest’ottica, anche la presunta unilateralità del sacrificio di Alcesti viene alquanto ridimensionata: se la dedizione è reciproca, dare la vita per l’altro non è annientamento di sé ma espressione di un amore che è più forte della morte.
Se è così, si spiegano anche le autentiche dimostrazioni d’amore di Admeto che, assistendo la donna nei suoi ultimi momenti, pensa a quando si ritroveranno insieme nell’Ade e le chiede di preparare già la casa e di aspettarlo, perché loro sono fatti per stare insieme per sempre.
In questo contesto, il re di Fere aggiunge un’osservazione forse anomala agli occhi di un lettore di oggi, ma molto significativa. Le dichiara cioè la propria intenzione di far preparare da un bravo artista un suo ritratto a tuttotondo, una bellissima statua che la ritragga fedelmente: la terrà sempre accanto a sé, abbracciandola come se fosse la sua vera Alcesti, per sopportare il distacco con l’immagine tangibile della sua presenza.

AMARE UNA STATUA

L’amore, se è tale, non è spento dalla distanza: ma quanto pesa l’assenza? Lo sanno gli innamorati che vivono in regioni geografiche diverse, i padri e le madri in trasferta di lavoro che sono costretti a separarsi per mantenere i figli; lo sanno i migranti, gli esuli. Lo sanno un po’ tutti, in questi tempi di distanziamento sociale. Certo oggi, nell’era della “comunicazione”, ci sono anche strumenti concreti per mantenere i contatti: telefono, videochiamate, lettere. Ma in mancanza di questi strumenti, come tenere viva la presenza e la fiducia? Non sempre basta il pensiero, l’istinto umano spinge ad attaccarsi anche a qualcosa di materiale che lo fortifichi: un regalo ricevuto, un oggetto appartenente alla persona amata, un suo ritratto.
Nei miti greci è spesso la statua della persona amata a rivestire il ruolo di sostituto di una presenza assente, surrogato tangibile per certi aspetti sacrale e quasi totemico, come un oggetto di venerazione che nella sua immagine si crede custodisca lo spirito di colui che rappresenta o evoca.
L’esempio più vicino alla storia di Alcesti si trova nel mito di Protesilao, re di Tessaglia. Era molto innamorato della sua sposa Laodamia, ma come gli altri Greci fu costretto a lasciarla per partire alla volta di Troia, dove cadde in battaglia. La donna, intanto, non potendo vivere senza di lui, si era fatta costruire una statua in tutto simile alla sua immagine, per abbracciarla giorno e notte e illudersi di averlo ancora accanto a sé. Ma gli dèi dell’oltretomba, mossi a pietà dall’intensità e sincerità del loro amore, concessero allo sventurato guerriero il privilegio inaudito di tornare dagli inferi, a casa sua. Per un solo giorno, però, non un istante di più. Ma forse fu proprio quell’effimera presenza, per contrasto, a smascherare il vuoto irriducibile dell’assenza. Così, quando al marito, allo scadere del giorno, toccò tornare nell’Ade, lei lo seguì volontariamente, unendosi a lui per sempre, nella morte come nella vita. Come nella storia di Alcesti e Admeto, una statua, per quanto ritratto perfetto, non può bastare a compensare la distanza di un’anima.
Admeto, prima di vedere la sposa venir meno e chiudere gli occhi per sempre, si era illuso di poterla sentire lo stesso vicina, sostituendola con una statua: ma era un’illusione, un surrogato evanescente. Capì solo allora che l’amore non si nutre di sostituzioni e di “come se”, ma di realtà e di presenza, e che solo una persona può colmare quel vuoto e completare l’intero. L’assenza diventò in quel momento per lui un abisso.
A questo punto però sono del tutto lecite le contrariate proteste del pubblico: questa, secondo gli accordi, doveva essere una fiaba, non una tragedia!
Allora affrettiamoci e prestiamo attenzione, perché sulla scena sta arrivando a grandi passi Eracle (forse più noto col nome romano di Ercole, in quanto è divenuta proverbiale la sua “forza erculea”), e sarà proprio lui che riuscirà a farci ridere e a risolvere finalmente in festa questa triste vicenda.

Un aiuto eroico

Senza sapere che l’ora di Alcesti è ormai arrivata e che proprio quel giorno si celebra il suo funerale, Eracle, passando da quelle parti, si ferma davanti alla porta del suo caro amico Admeto e gli chiede cordialmente ospitalità per la notte. A dire il vero si era accorto che la casa era in lutto, e per discrezione avrebbe voluto scusarsi e andarsene, ma l’ospitale Admeto lo aveva in tutta fretta rassicurato con una bugia: non doveva preoccuparsi, non si trattava di una persona di famiglia…
Allora Eracle si mise a suo agio, e non si fece certo pregare quando i servi gli servirono le più prelibate pietanze, anzi l’appetito come sempre non gli mancava e chiese portate su portate, e vino su vino, e non gli bastava mai, ghiotto com’era. E poi scherzava e cantava senza ritegno, mentre gli altri piangevano in silenzio nelle loro stanze: un intollerabile sfacciato, agli occhi indignati dei servi. Era comprensibile il loro sdegno e in buona fede, ma lo accusavano ingiustamente: non sapevano che Eracle non era al corrente di nulla. Admeto, in nome dell’ospitalità, l’aveva tenuto all’oscuro della morte della moglie. Finché un servo, esasperato dal comportame...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. ILLUSTRAZIONI
  4. L’amore ai tempi dei Greci. di Giuseppe Zanetto
  5. LA NASCITA DI EROS
  6. PENELOPE E ODISSEO
  7. ETTORE E ANDROMACA
  8. AMORE E PSICHE
  9. PERSEO E ANDROMEDA
  10. PIRAMO E TISBE
  11. LEANDRO ED ERO
  12. ORFEO ED EURIDICE
  13. ADMETO E ALCESTI
  14. Nella stessa collana
  15. Copyright