La pioggia è cessata, e un freddo umido mi penetra sotto la pelle. Ben nascosto al riparo dei pini, mi tiro il cappuccio del parka sulla testa rabbrividendo. Sono le 20.25 e c’è sufficiente oscurità. Dopo il temporale che si è abbattuto sulla città nemmeno un’ora fa, nubi tenebrose si inseguono nel cielo.
La strada scintillante di pioggia è calma e deserta. Non si muove nulla nemmeno nel condominio appena ristrutturato sul lato opposto della via.
Accanto, ma separato da un breve cortile alberato, il grigio palazzo nobiliare a tre piani sembra volersi tenere in disparte. Dalle due finestre dell’ultimo piano filtra una luce fioca. Un piccione si sporge dal davanzale, quindi si ritrae contro lo stipite della finestra in cerca di riparo, quasi intuisse che qualcosa di spaventoso sta per accadere.
Si ferma una macchina. Ne scendono tre donne, che attraversano la strada ridendo e schiamazzando.
Inavvertitamente trattengo il respiro, anche se nessuno fa caso a me nel mio nascondiglio. I passi affrettati risuonano sull’acciottolato con un rumore di tacchi, finché le donne non spariscono nell’androne della casa vicina.
La mia finestra temporale è estremamente ristretta. Tutto in me preme per entrare finalmente in azione. Ma non posso lasciare nulla al caso. Perlustro la strada con lo sguardo.
Attendere l’ora, il minuto, il secondo perfetto. Oggi il tempo è in mio potere.
Tre auto mi passano accanto indifferenti. Un ultimo sguardo all’orologio. Adesso! Mi avventuro fuori dall’oscurità e attraverso la strada.
Come arrivo davanti all’ingresso della casa, mi sento invadere dalla paura. Il mio battito accelera, sento il sudore che stilla dai pori.
Dannazione! Non può essere.
Non ora!
Stringo i pugni finché non fanno male. E se invece me la squagliassi? Dopo tutto il tempo che mi ci è voluto? L’individuazione delle telecamere di sorveglianza, la noiosa osservazione, il freddo e, peggio ancora, l’umidità. Serate snervanti come questa, al riparo dell’oscurità solitaria. A studiare sempre la stessa routine, precisa come il ticchettio di un metronomo. Tutto questo, per niente?
No. Non mi resta più tempo. Oggi. Adesso. E, lo so: sarà una serata speciale, indimenticabile! La fede nel mio successo dev’essere più forte dell’ansia da prestazione.
Il mio cuore accelera, ogni muscolo del mio corpo è teso. Allento il pugno destro e infilo la mano nella tasca profonda del giaccone blu notte. Le mie dita tastano la lama affilata. Cerco il manico e lo impugno come se fosse il mio unico sostegno. Conto fino a cinque, poi lascio la presa.
A poco a poco il mio nervosismo scompare. Mi concentro, inspiro a fondo l’aria umida nei polmoni. Poi avanzo nell’ingresso. Una rapida occhiata mi dice che non c’è nessuno. Prendo le galosce dallo zaino e le infilo sopra le scarpe.
Il mio sguardo va all’ascensore. Per un attimo un brivido mi attraversa come un’eco della mia infanzia: un altro ascensore, che precipita nel vuoto, io in caduta libera…
Soffio contro il panico che sale, mi lascio l’ascensore sulla sinistra e prendo la scala di pietra. Rischio di scivolare sugli scalini di marmo. Mi costringo a procedere lentamente, anche se sono attratto verso l’alto, incontro al mio scopo.
Il terzo piano. La porta è semiaperta, come al solito. Un eccesso di fiducia di cui si pentirà presto. Poso silenziosamente lo zaino sul pavimento, poi tolgo la giacca e la lascio lì accanto.
Mi avvicino alla porta senza fare rumore.
È seduta di spalle, sta scrivendo al computer. Vicino a lei, un bicchiere con un dito di whisky.
Mi fermo, osservo la postura diritta della sua schiena. Penso al tormento, alle umiliazioni. Al suo potere di distruggere gli altri. Spietata, senza l’ombra di un sentimento.
Stasera ci scambiamo i ruoli. Oggi il potere è nelle mie, di mani.
Un’idea sensazionale!
Se solo potessi gustare più a lungo questo momento.
Il commissario Dionisio Di Bernardo approfittò dell’interruzione della pioggia verso sera e prese ad arrancare lungo il sentiero del Gianicolo.
Era a corto di fiato e gli faceva male il fianco. La giacca della tuta, leggermente bagnata, si incollava fastidiosamente alla sua canottiera. Fu costretto a rallentare. Non aveva fatto nemmeno cinque chilometri.
Nell’onnipresente oscurità di quella serata invernale, perfino gli imponenti edifici del Vaticano apparivano logori e slavati. Quel giorno anche l’ampia vista sul Tevere, sul quale aleggiava una pallida nebbia grigiognola, non contribuiva a motivare il commissario alla corsa; al contrario, l’indolenza del fiume sembrava contagiarlo. Stava riflettendo se non fosse meglio ridiscendere lungo la collina, quando il suo cellulare squillò. Era la questura.
«Scusi commissario, ma sembra che abbiamo un caso di omicidio. La titolare di un’agenzia musicale. L’hanno trovata morta nel suo ufficio, in via Antonelli» gli riferì l’ispettore Roberto Del Pino. «Vado ai Parioli con Magnanti e Ricci. Abbiamo già chiamato anche la Scientifica.»
«Arrivo.» Di Bernardo chiuse la conversazione e guardò l’orologio. Erano le nove meno dieci. Lo sciopero dei mezzi pubblici era terminato alle sette, e il traffico era scemato. Calcolò che, in macchina, avrebbe potuto essere sul luogo del delitto in circa venticinque minuti.
Gettata la spugna senza rimpianto, abbandonò il percorso di jogging e si affrettò verso casa. E tanti saluti ai buoni propositi di riprendere a correre con regolarità. Erano già settimane che cercava di perdere i tre chili che gli si erano subdolamente accumulati sulla pancia appesantendo la sua figura. E la parola chiave era “cercava”, come suo figlio diciassettenne non mancava di rinfacciargli.
Di Bernardo sospirò. Al di là del fatto che non era riuscito a correre, stava sfumando anche la serata che aveva in programma con Alberto, proprio nel giorno in cui il ragazzo aveva deciso di fermarsi a dormire da lui. Gli aveva anche promesso che sarebbero andati a vedere l’ultimo film di Checco Zalone.
Un quarto d’ora più tardi, Di Bernardo aveva cambiato il suo abbigliamento sportivo con un completo marrone e una cravatta giallo miele. Alcuni giorni prima si era fatto regolare i capelli, che cominciavano a ingrigire, come il pizzetto. Moderatamente soddisfatto del proprio aspetto, si avviò verso i Parioli. Mentre passava in macchina lungo il Tevere, la fortezza di Castel Sant’Angelo si stagliò sulla sua sinistra emergendo dalla foschia. Si ricordò di quando aveva visitato il castello con suo papà. Aveva poco più di dieci anni. Suo padre gli aveva fatto notare l’ingresso segreto, all’apparenza un semplice muro, che collegava la residenza del papa alla fortezza: il Passetto di Borgo. Dava ai papi la possibilità di fuggire quando gli invasori minacciavano il Vaticano, o quando la plebe romana manifestava l’intenzione di buttarli nel fiume. Di Bernardo sorrise involontariamente. Spesso e volentieri, i romani non erano andati troppo per il sottile con i vertici della Chiesa.
Una Fiat color fango sbandò così bruscamente nella sua direzione, che il commissario fu costretto a sterzare. Era sempre rischioso abbandonarsi ai sogni a occhi aperti nel bel mezzo del traffico di Roma. Ma la città gli rendeva difficile concentrarsi sull’intrico di strade e vicoli: la storia dell’impero romano lo assaliva letteralmente da ogni parte. Quante volte, da bambino del Sud, si era figurato di scavare tra le rovine in cerca di tesori: cosa avrebbe dato per trovare un aureo, o magari addirittura un’intera cassa colma di monete d’oro, o anche solo denari e sesterzi.
In seguito, ad affascinarlo era stata la bellezza logora e tuttavia eterna delle architetture: in nessun’altra città ne aveva mai vista tanta tutta insieme. Monumenti di guerra e di pace, come l’Ara Pacis lì lungo il Tevere, con i suoi bassorilievi di marmo, dimenticata per secoli come la Pax romana di duemila anni prima, in occasione della quale era stata edificata. Alla fine, ogni pace sembrava sfociare in una guerra, così come la vita sfociava nella morte.
“Ed ecco come sono finito a fare il mio lavoro” pensò Di Bernardo con una smorfia. Solo che, presumibilmente, nel suo nuovo caso non erano stati i barbari a fare irruzione portando violenza e morte. Ma chi poteva sapere cosa trasformava gli esseri umani in assassini.
A un tratto ebbe fretta di arrivare sul luogo del delitto. All’altezza di Palazzo Marina, svoltò a destra sul piazzale delle Belle Arti e, pochi minuti più tardi, giunse ai Parioli: non il più alla moda ma sempre soffuso dell’aura di quartiere più chic di Roma, con i suoi bei palazzi e i giardini. Lui non ci era mai venuto per lavoro. Al massimo una passeggiata a Villa Borghese.
Erano le dieci meno dieci quando il commissario scese dalla sua Alfa Giulietta in via Giovanni Antonelli, nel cuore dei Parioli. Tirò la pancia in dentro e raddrizzò le spalle. Benché non fosse sopra il metro e settantacinque, il suo portamento eretto gli conferiva qualche centimetro in più. Perlomeno gli piaceva pensarlo.
Nel chiudere l’auto, il commissario esaminò con lo sguardo l’ampia via. Oltre a un paio di volanti parcheggiate davanti al palazzo, scorse alcuni passanti non lontano dalla scena del crimine. Si fermò un’altra auto: i due passeggeri sembravano attratti dai nastri di recinzione della polizia. Di Bernardo passò attentamente in rassegna il drappello di curiosi, e poi mise a fuoco la targa d’ottone sulla facciata del palazzo. GARDINI ARTISTS MANAGEMENT.
Sopra il portone d’ingresso, notò un fregio policromo dalle forme curvilinee che sembrava a prima vista una figura mitologica e che, a uno sguardo più attento, si rivelò essere una testa di Medusa. Indugiò un istante, cercando di imprimere nella mente ogni dettaglio. Poi si chinò sotto il nastro ed entrò all’interno dell’edificio in in stile Liberty.
Nell’ingresso c’era odore di umidità stantia. Accanto a un piccolo ascensore che non ispirava particolare fiducia, una larga scala dal passamano riccamente decorato portava ai piani superiori. Il commissario salì le scale fino al terzo piano, dove Del Pino, che lo attendeva sulla porta dell’appartamento, gli tese senza parlare sovrascarpe e guanti monouso.
Due sandwich sporcavano il pavimento del pianerottolo davanti alla porta, avvolti in tovaglioli unti. Accanto, un bicchiere di plastica rovesciato, dal quale era fuoriuscito del caffè. Fece un passo di lato ed entrò nei locali dell’agenzia.
La prima cosa che percepì fu l’odore del sangue. Nonostante i suoi ventisei anni di servizio, non ci aveva ancora fatto l’abitudine. Trattenne istintivamente il respiro. Quando abbassò lo sguardo, si sentì mancare.
Il cadavere giaceva sul pavimento in un’innaturale posa scomposta; la gola era squarciata da un lungo taglio. Una grande quantità di sangue era sgorgata dalla ferita, formando una pozza intorno al corpo.
Era stata letteralmente scannata.
Di Bernardo si sforzò di avvicinarsi di un passo. Il volto della donna, che doveva avere tra i settanta e i settantacinque anni, era contratto dal terrore; i capelli castani erano impregnati di sangue rappreso, gli occhi spalancati erano rivolti al soffitto. Per un istante, il suo sguardo incrociò quello di lei, come se, fissando quegli occhi vitrei, potesse costr...